Domenica il mondo è andato giù di nuovo. In modo più
radicale, però, più definitivo, se possibile, rispetto al 4 marzo (il mondo
della sinistra, intendo). Per un fattore simbolico, in primo luogo, con la
scomparsa della cosiddetta “zona rossa” (che ancora, pallidamente, a marzo
s’intravvedeva sia pur slabbrata), e le roccaforti della Toscana, dell’Umbria,
dell’Emilia – Massa, Pisa, Siena, e poi Imola dove nacque il socialismo, e
Treni siderurgica… – consegnatesi senza colpo ferire all’avversario di sempre.
Gomene d’ancoraggio tagliate dal colpo di scure di Matteo Salvini e dei suoi
bravi. E poi perché questo secondo crollo viene dopo più di tre mesi di
gestazione del nuovo governo. Tre mesi in cui tutti i protagonisti si sono
esibiti en plein air, illuminati dalla luce cruda dei riflettori mediatici. La
gente ora sapeva benissimo chi votava. Sapeva di votare la “cattiveria” di
Salvini, la sua politica della “crudeltà” (lo vota proprio per quello). Sapeva
di votare la guerra alle navi che salvano, di “premiare” quelli che ne invocano
la messa al bando e magari, nei casi estremi, che ne richiedono l’affondamento.
Sapeva di approvare quell'”inversione morale” che già Minniti aveva sdoganato
lo scorso anno e che ora diventa pratica conclamata del governo del
cambiamento. Anzi, la cifra del cambiamento. In questa seconda “prova” il voto
ha assunto il profilo dell’antica “festa crudele”.
C’è un insegnamento drammatico in tutto questo. Ed è
che la “narrativa” intorno a cui si è strutturata in questi tre mesi
l’opposizione al nascituro governo che oggi imperversa, non solo non ha
funzionato. Ma si è rovesciata nel suo contrario: carburante nel motore
“populista”. Per ottanta giorni e passa i pallidi dirigenti del Pd ma
soprattutto la stampa mainstream – il “partito di Repubblica”, potremmo dire –
non hanno smesso un secondo di irridere, stigmatizzare, denunciare il
pressapochismo, il dilettantismo, l’impreparazione e la presunta goffaggine, la
“mancanza di cultura di governo” (o di cultura tout court) dei “vincitori-non
vincitori”, sfoderando sorrisetti di superiorità, senz’accorgersi che così non
li si delegittimava ma al contrario li si rafforzava. Che ogni derisione dei
congiuntivi mancati di Di Maio gli portava sporte di voti. Che ogni sarcasmo
sul curriculum di Conte lo nobilitava anziché diminuirlo. Perché in fondo siamo
un popolo senza congiuntivi. E anche senza curriculum. Dovremo inventarci una
narrativa diversa – opposta – a quella snob del partito dei media perbene, se
vorremo opporci all’onda nera che sale, con una resistenza “popolare”.
C’è poi un altro “insegnamento” (o monito) in questa
seconda fine del mondo. Ed è la conferma di quello che Luciano Gallino chiamava
il “trionfo della stupidità” (la quale, purtroppo, un peso ce l’ha negli eventi
storici, e anche grande nei momenti topici). Mai come ora possiamo constatare
quanta stupidità politica ci sia stata nella scelta del Pd di non tentare tutto
il possibile per impedire la saldatura dell’asse Cinque Stelle-Lega: l’unica
strategia politica adeguata allo scenario aperto dal voto di marzo. Cancellata
con un tweet e una comparsata da Fabio Fazio del devastatore Matteo Renzi:
quello che ha impresso l’immagine del suo volto come una maschera funeraria sul
corpo del suo partito e dell’intera sinistra rendendola respingente per
chiunque. E dall’altra parte quanta stupidità politica alligni tra gli
strateghi dei 5Stelle (vero Toninelli?), per non permettergli di capire che lo
spazio lasciato alla retorica del disumano di Salvini è mortale per loro. Li
espone alla cannibalizzazione da parte dell’alleato-nemico. Ho ancora in mente
l’immagine provocante del neo-capogruppo Pd al Senato Marcucci a pochi giorni
dal voto di marzo, proclamare sogghignando “Non vedo l’ora di vedere Salvini
giurare al Quirinale”, secondo la suicida strategia renziana del pop corn, cose
da inseguirlo per strada con i forconi. O il neoministro alle Infrastrutture
Toninelli recitare alla radio il vangelo secondo Matteo (Salvini) sulle navi
salvagente delle Ong riclassificate come fuori-legge, e invitare le motovedette
libiche a occuparsi loro dei naufraghi in quelle acque territoriali per
riportarli a terra, come se non sapesse cosa accade in quei campi di tortura…
Reintrodurre almeno un po’ d’intelligenza nella politica sarà impresa lunga e
ardua, dopo questa regressione epocale.
Ma c’è qualcosa che va oltre, o sotto, la superficie
della riflessione razionale sulla politica in questo voto impietoso (così privo
di pietas) e distrattamente feroce. Qualcosa che va oltre i nostri stessi
confini, che coinvolge un’Europa preda di nuovi nazionalismi fuori tempo
insieme a un Occidente avvelenato da nuovi egoismi fuori misura che sanno di
guerra. E che ha probabilmente a che fare con ciò che la discorsività
democratica non dice, perché questo inedito contagio del male affonda le radici
in un livello più profondo, e torbido. O incandescente. Un brillante politologo
latino-americano, Benjamin Arditi, in un saggio sul populismo come “periferia
interna” della politica democratica ha evocato la categoria freudiana della
“terra straniera interiore” inclusa entro i confini dell’Ego, nella quale il
populismo pescherebbe le proprie pulsioni: oscure paure, frustrazioni rimosse,
perdita di naturalità e di coscienza di sé, tutto il non detto dell’edificante
narrazione liberal-democratica. Una sorta di inconscio individuale, ma
soprattutto collettivo (più junghiano che freudiano), che proietta sullo “straniero”
vero, sul corpo “alieno” che viene da fuori, i propri terrori ancestrali che da
sempre il nostro originario genera e che ora, caduto lo scudo protettivo del
benessere e dell’ascensore sociale, si sfoga.
Il piacere di condividere lo stesso sentimento di
ostilità e di vero e proprio odio nei confronti di una figura “aliena”, che
circola come una corrente elettrica sfrigolando sottopelle nelle nostre
declinanti società, assomiglia molto a quello che animava le “società
istantanee che nascono in occasione di un linciaggio” descritte da Sartre a
proposito dell’antisemitismo: la folla con cui in contesti sociali fortemente
gerarchizzati, si costruivano effimere “comunità egualitarie”, cementate
provvisoriamente da scariche di passioni comuni che permettevano, per il breve
istante dell’odio, al cocchiere antidreyfusardo descritto da Proust di
assimilarsi al duca che conduceva in carrozza in nome del comune disprezzo per
l’ufficiale giudeo. Così come il contagio virale dell’odio a cui assistiamo in
questi giorni, in questi mesi, ricorda da vicino quello descritto da Horkheimer
e Adorno a proposito della persecuzione degli ebrei, con il suo contagioso e
travolgente “appello all’idiosincrasia”: al riflesso inconscio e incosciente
che si esprime nella reazione di pancia, ripetendo, per così dire, “i momenti
della preistoria biologica: segnali di pericolo a cui si rizzavano i capelli e
il cuore si fermava nel petto”, con “l’io che si apprende con queste reazioni”
di cui non è interamente padrone, “come nell’accapponarsi della pelle,
nell’irrigidirsi dei muscoli e degli arti” alla vista dell'”alterità” che
incarna a sua volta, nei tratti somatici o nell’atteggiamento, la propria
estraneità a un codice di disciplinamento e di coazione della propria natura a
cui ci si è un tempo sacrificati.
E’ una sfida – questa dell’ “idiosincrasia
razionalizzata” – che parla della nostra alienazione umana (di un disagio
radicale dell’esistenza), prima che della nostra incapacità politica. Che nel
suo ripetere ossessivo “perché a loro sì e a me no”, rievoca una rimossa
rinuncia a sé – a un’antica naturalità cancellata dal disciplinamento del
lavoro razionalizzato e dal dominio – di cui si richiede con odio all’altro,
con la sua negazione sacrificale, un risarcimento tardivo. Esattamente come nel
meccanismo descritto da Sarte ritorna, aggressivo, il fantasma di
un’eguaglianza reale perduta, forse un tempo creduta, ma ora non più sperata.
In entrambi i casi, ritorna profetica l’affermazione di Walter Benjamin secondo
cui dietro ogni ritornante fascismo c’è una rivoluzione fallita. E forse, prima
di metterci a ricostruire una sinistra così sinistrata, avremmo bisogno tutti
di un buon trattamento mentale, se vogliamo esorcizzare queste baccanti feroci
che minacciano di squartare la nostra democrazia.
[Versione
ampliata dell’articolo Il voto come
un’antica festa crudele. Vince la cattiveria, pubblicato sul
Manifesto del 27 giugno 2018]
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