Il governo della Repubblica Democratica del
Congo ha deciso di modificare i confini dei parchi Virunga e Salonga per
favorire le multinazionali del petrolio. È l’ultima mossa di Kabila?
Ancora una volta la ricchezza della Repubblica
Democratica del Congo è la sua condanna. Il governo del Paese, sul cui
territorio si trovano enormi risorse naturali e minerarie, ha infatti deciso di
ridisegnare i confini di due parchi nazionali tutelati anche dall’Unesco,
quelli di Salonga e Virunga, riducendone le porzioni protette e autorizzando le
trivellazioni per l’estrazione di petrolio. La notizia non è completamente
nuova: già a maggio, e prima ancora la scorsa estate, l’idea di declassificare le
aree protette era stata al centro dell’attenzione.
I parchi di Salonga e Virunga sono tra i
luoghi più delicati del Paese e per certi versi dell’intera Africa
centro-meridionale: il primo, infatti, tutela la seconda maggiore foresta
pluviale al mondo, mentre il secondo ospita moltissime specie a rischio di
estinzione grave o critico. Particolarmente simbolico è
il caso del gorilla di montagna, studiato e reso celebre dalla zoologa
statunitense Dian Fossey, uccisa proprio nel parco di Virunga nel 1985 da
bracconieri contrari alla protezione dell’area: la African Wildlife Foundation
ritiene che oggi nel mondo sopravvivano circa 1.000 esemplari, e di questi
almeno 600 vivono nel parco di Virunga.
Per aggirare lo status di World Heritage
assegnato ai parchi dall’Unesco per protegge tra le altre cose
dall’esplorazione estrattiva, il ministro degli Idrocarburi della Repubblica
Democratica del Congo, Aime Ngoi Muken, ha deciso di ridisegnarne i confini per
consentire la deforestazione e l’estrazione in un’area pari a circa 4.500 km
quadrati. Secondo il quotidiano economico statunitense Bloomberg, la reale portata di questa
decisione riguarderà invece oltre 16.000 km quadrati, con conseguenze
ecologiche ancora più ampie. L’estrazione di petrolio, infatti, minaccia di
distruggere l’habitat di molte specie animali e vegetali, oltre a
inquinare la rete fluviale del Congo e del Nilo, corsi d’acqua decisivi per
l’economia di grandi porzioni dell’Africa. Inoltre, nel parco della Salonga,
che sorge appunto nel bacino del fiume Congo ed è la seconda foresta pluviale
dopo l’Amazzonia, è stata scoperta la più grande ed estesa torbiera del mondo,
un magazzino importantissimo di anidride carbonica. «Se – spiega John Mpaliza,
ingegnere informatico e attivista per la pace nel suo Paese – andassimo lì a
tagliare, a bruciare, a trivellare, a quel punto si libererebbe una grandissima
quantità di anidride carbonica. Ci stiamo facendo del male da soli».
Tuttavia, quando si parla del Congo la
questione non è soltanto ambientale, ma vede sovrapporsi diversi piani. Il
Congo, infatti, è terra di sfruttamento e di guerra non solo per l’intervento
delle società petrolifere, ma anche per il gas, il legname, le attività
estrattive di oro, coltan e diamanti, così come per le numerosi piantagioni,
tutte aree che creano ricchezze che finiscono in mano alle multinazionali e nei
conti esteri dei miliardari locali. Una situazione che non può che alimentare
violenze e scontri a ogni livello e in ogni luogo, dalle città ai parchi.
Mpaliza racconta che «si parla di oltre 8 milioni di vittime, due milioni di
donne hanno subito violenza come arma di guerra in questi vent’anni e nello
stesso periodo 175 ranger sono stati uccisi nel parco della Virunga. C’è un
piano chiaro per far sì che quel parco non abbia più la protezione di cui gode
oggi».
Quali attori internazionali
beneficeranno di questa decisione?
«Mentre mi informavo per avere un dettaglio
delle forze in gioco, ho trovato informazioni contraddittorie. Per esempio, due
anni fa la Norvegia è diventata il primo Paese al mondo a
vietare la deforestazione, ma oggi, insieme alla Francia, viene definita
“all’attacco delle foreste congolesi”. Siamo sempre al punto di partenza: ci
sono delle forze economiche importanti del mondo occidentale che hanno bisogno
di legno, hanno bisogno di tagliare, ma soprattutto ci sono le multinazionali
del petrolio.
Nel parco del Virunga hanno scoperto circa
3.000 miliardi di barili di petrolio, quindi tutte le grandi compagnie
occidentali, i cartelli europei e americani, sono già preparati. Anzi, hanno
iniziato prima che noi lo sapessimo».
Le politiche estrattive segnano
il Paese sin dall’epoca coloniale, ma negli ultimi vent’anni sono ulteriormente
cresciute. Il punto è che non si tratta soltanto di un fatto ambientale, ma
forse ancora di più politico. In che momento politico ci troviamo nel Paese?
«Abbiamo un presidente, ormai illegittimo da
due anni, che doveva organizzare le elezioni entro il 19 dicembre 2016, ma che
poi, grazie a un accordo, era riuscito a spostarle al dicembre 2017, ma non si
sono mai tenute. Adesso per richiesta degli Stati Uniti sembrerebbe che il 23
dicembre prossimo ci possano essere le elezioni, ma le condizioni sono
veramente inaccettabili: siamo l’unico Paese al mondo che decide di usare i
computer per il voto, ma in un Paese in cui l’elettricità in molte zone non
esiste. È chiaro come andranno a finire queste elezioni».
Non è possibile che Kabila
quindi stia cercando di chiudere la propria esperienza alla guida del Paese
vendendo tutto ciò che si può vendere e lasciare poi le ricadute negative sul
suo successore?
«Siamo convinti che sia la situazione sia
esattamente quella. Prima delle concessioni per il petrolio ha fatto lo stesso
per il cobalto, che è stato venduto a una grande multinazionale svizzera e
soprattutto alla Cina. Il Congo è il primo produttore mondiale di cobalto, che
serve per le batterie delle auto elettriche, ma ormai ha svenduto tutte le
grande miniere ma così come per tanti altri minerali. La questione della
foresta è importante, perché probabilmente Kabila ha pensato che per i
congolesi fosse meno interessante rispetto alla questione dei minerali, perché
la foresta è una foresta immensa, ma si dimentica che comunque a livello
internazionale questa foresta è anche una protezione per tutti noi. È per
questo che l’Unesco deve fare in modo che si faccia un passo indietro. Prima di
tutto però dobbiamo essere noi congolesi ad agire, con l’aiuto ovviamente della
comunità internazionale».
La transizione politica in
Gambia lo scorso anno, così come la pace tra Etiopia ed Eritrea, sono segni del
fatto che l’Africa sia tutt’altro che ferma. Per il Congo che si avvicina
qualche figura che potrebbe marcare un cambiamento?
«Nessuno pensava mai che tra Etiopia ed
Eritrea, così all’improvviso, si trovasse la pace. Però in Congo la situazione
è diversa: non siamo in guerra contro qualche Paese in particolare, siamo
attaccati e occupati. Noi non abbiamo un unico nemico, abbiamo Paesi vicini che
vengono usati come base dalle multinazionali ma anche dai Paesi occidentali,
per cui non si riesce ad avviare un percorso di pace con un solo interlocutore.
La strada che ci potrebbe portare verso la
pace è quella di una transizione senza Kabila. Non chiediamo che sia la
comunità internazionale a venirlo a prendere e portare via, noi siamo in grado,
ma c’è bisogno che quando il popolo si alza, anche loro dicano qualcosa. Senza
Kabila noi potremmo probabilmente mettere le basi per una ripartenza
democratica. Insomma, la soluzione interna è quella privilegiata, ma con in
qualche modo l’aiuto della comunità internazionale che continua a osservare».
Lei ha contribuito a far
conoscere la situazione congolese attraverso numerose iniziative, tra cui le
marce per la pace in Italia e in Europa. L’ultima si è tenuta in primavera: ce
ne saranno altre?
«Quando partiamo con una marcia spero sempre
che sia l’ultima. L’ultima fatta in primavera è arrivata proprio davanti alla
sede dell’Onu a Ginevra ed era stata richiesta dagli studenti. Adesso si sta
cercando di capire che cosa succederà da qui al 23 dicembre, ma personalmente
non credo ci saranno le elezioni, quindi è probabile che siano necessarie altre
azioni di pace da portare avanti. Ma anche qualora le cose cominciassero ad
andare bene, comunque noi non possiamo abbassare la guardia, avremo sempre
qualcosa da fare per spingere la comunità internazionale, l’opinione pubblica
italiana, europea e mondiale a guardare in quella direzione, perché lì la gente
continua a morire».
(*)
ripreso da «Riforma.it» che è «Il quotidiano on-line delle chiese
evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia».
Nessun commento:
Posta un commento