Nell’Occidente una volta supposto ‘cristiano’ abbiamo censurato la morte. Arriva come un impiccio, un accidente di percorso, una colpevolezza non contemplata dal programma, un errore di calcolo. E allora si muore di nascosto e né le campane né le veglie funebri nelle case trovano lo spazio di un tempo, quando la morte era un fatto sociale, come la vita. Si muore all’ospedale, spesso nell’isolamento e l’obitorio degli ospedali di ultima generazione è quasi invisibile, come uno sgorbio operato sulle strutture architettoniche di ultima generazione. Si muore come si è vissuto, clandestinamente e in corrispondenza con le ideologie dominanti, basate sul consumo e l’effimero della pubblicità. La morte torna a farsi viva sugli schermi televisivi o delle reti sociali quando è spettacolo. Guerre, assalti, attentati, fatti diversi o bollettini medici nei quali la morte è pura statistica per decidere le prossime misure di contenimento dei contagi legati alle epidemie che assediano la civiltà. I cortei funebri, la precarietà della vita e i cimiteri con i loro simboli, cercavano comunque di dare un senso all’ultimo tramo e transito della vita. Unico, personale e decisivo, nel quale la solitudine della propria morte, inevitabile, mette a nudo la fragilità che era rimasta nascosta, come in agguato, durante tutta la vita. In fondo la morte è il grande momento di verità della vita.
Nel Niger la malaria, ossia il paludismo, ha ucciso, secondo le statistiche probabilmente politicamente lontane dalla realtà, circa 2 500 persone dal primo gennaio al 7 ottobre di quest’anno. Un aumento del 30 per cento rispetto all’anno scorso dove le persone che hanno perso la vita sono state 1930. Questo significa che questa malattia ha ucciso 35 volte di più della quotata e commentata Covid 19. Tutta una questione di notorietà e di messa in scena perché morire di meningite, malaria, diarrea, parto e fame è molto meno importante che morire di Coronavirus, dove a morire sono soprattutto gli occidentali. Qui da noi la vita e morte nascono assieme ed è solo la buona volontà degli antenati e di altri intermediari di Dio che si mettono d’accordo ogni giorno sul da farsi. Sappiamo della naturale fragilità della vita, sabbia e soffio e vento e viaggio nella quotidiana provvisorietà dell’essere nel mondo. Tutto qui, in genere, si prepara all’ultimo momento perché c’è qualcosa che può accadere all’improvviso. Una visita, una malattia inattesa, un ritorno insperato, la corrente elettrica che sparisce, il taxi che non arriva e l’appuntamento dimenticato per inavvertenza. La vita è fragile precaria, effimera, sfuggevole, distratta, affaccendata dalla ricerca del cibo, della salute e del lavoro anch’esso giornaliero. Da noi si sa ancora morire senza vergogna.
Niamey, 25 ottobre 2020
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