L’ultima, in ordine di tempo è l’ivermectina, un antielmintico – cioè uno sverminatore – usato in veterinaria e talvolta anche sugli umani, che sta spopolando in America Latina. Al punto che Perù, Argentina, Bolivia e Guatemala ne stanno producendo e distribuendo a centinaia di migliaia di dosi. Ma l’anti-vermi da banco non è solo: arriva dopo lo sciroppo del Madagascar Covid-Organic, venduto ad almeno due dozzine di paesi africani dall’intraprendente presidente malgascio. Dopo l’Ayush-64, uno dei rimedi ayurvedici propagandati dall’apposito ministero indiano, il cui budget è triplicato all’uopo. Dopo lo Xuebijing, promosso a pieni voti (sulla fiducia) dal Ministero della salute cinese insieme ad altri medicamenti della medicina tradizionale, perché se curano il raffreddore male non fanno. Dopo che le agenzie africane hanno stilato con l’OMS i protocolli per cercare di iniziare a studiare decine di cure tradizionali che stanno circolando senza alcuna regola nel continente. E dopo che molti paesi occidentali hanno abbracciato dissenatamente e senza basi scientifiche l’utilizzo dell’antimalarico idrossiclorochina, salvo poi fare una clamorosa retromarcia e rifilare quintali di farmaco ormai inservibile a paesi più indifesi.
C’è una storia parallela a quella del gigantesco
sforzo in atto da parte della ricerca ufficiale, che faticosamente sta
verificando decine di farmaci anti-COVID, escludendoli via via quasi tutti, e
cercando di capire se, al di là degli annunci mirabolanti, ci si stia
avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro. Una storia che assume
venature politico-antropologiche molto evidenti: quelle dei rimedi purché
siano, quelle delle risposte che molti governanti, soprattutto (ma non
esclusivamente) populisti vogliono a ogni costo offrire ai loro cittadini, per
rassicurarli e giocare ai salvatori. E non importa se si tratta di pericolose
falsità che fanno leva sulla disperazione, sull’impossibilità di accesso alla
sanità, sulla fiducia in questo caso mal posta nelle medicine tradizionali,
concretizzata in “farmaci” che, nella migliore delle ipotesi, o non fanno nulla
o sono attivi in patologie vagamente (talvolta molto, molto vagamente) analoghe
– e l’analogia spesso non significa nulla in questo campo –, rimedi che in più
espongono chi sia disposto a crederci a due tipi di rischi: quelli del mancato
ricorso alle cure realmente efficaci (e qualcuna c’è come le eparine, i
cortisonici e, in piccola parte, l’antivirale remdesivir, tutti da dare in
momenti diversi e specifici della malattia) e quelli delle tossicità note
e meno note.
In attesa di capire se ci si stia avvicinando davvero
a un vaccino soddisfacente e sicuro, spopolano soluzioni “creative” e
inefficaci, spesso propagandate da politici e capi di stato.
L’OMS è preoccupata, e lancia continui appelli
affinché i governi evitino, i malati non diano ascolto, i medici non si
prestino. Ma i risultati sono praticamente nulli, soprattutto quando sono
appunto i governi i primi sponsor. E la vicenda dell’ivermectina, da questo
punto di vista, è esemplare.
Farmacologia clandestina
Come ha raccontato Nature,
che come le altre riviste scientifiche continua a seguire anche questa
farmacologia “clandestina”, l’antielmintico, che costa pochissimo, è usato da
decenni negli animali, e talvolta nelle persone, ma è diventato ancora più
popolare nello scorso mese di maggio, quando la Bolivia, tramite i suoi
operatori sanitari, ha distribuito 350.000 dosi ad alcune popolazioni del nord
del paese. Poche settimane dopo la polizia peruviana ha sequestrato 20.000 dosi
della versione veterinaria vendute al mercato nero per gli umani, ma in luglio
il governo dello stesso paese ha annunciato l’intenzione di produrne 30.000
dosi, per rispondere alla domanda interna.
Tutto questo senza che vi fosse alcuna dimostrazione
di effetto anti Sars-CoV 2, se non in qualche sparuto studio su colture cellulari.
In aprile uno studio australiano, uscito privo di revisione, suggeriva in
effetti che alte dosi di ivermectina riducessero la replicazione virale in
vitro. Subito dopo un altro, sempre non controllato, ipotizzava un abbassamento
della mortalità nei malati, ma è stato presto ritirato, perché si basava non su
dati reali, ma su dati virtuali, acquistati da una società al centro di una
truffa, la Surgisphere. In seguito ne è stato avviato qualcun altro (su
pochissime persone), e sembra che ci sia qualche indizio positivo, ma per ora
non ci sono dati verificabili. Se ne vorrebbero condurre su popolazioni più
ampie, ma tutti i ricercatori si scontrano con un ostacolo enorme: è
difficilissimo trovare persone che non abbiano mai assunto ivermectina. Nel
frattempo, già nel 2018 un’indagine ne segnalava tutti i rischi: dal tremore
alla letargia, dal disorientamento fino al coma, soprattutto ad alte dosi.
Conseguenze anche più gravi potrebbe avere la
diffusione di Covid-Organic, lo sciroppo malgascio pubblicizzato
nientemeno che dal Presidente Andry Rajoelina, che secondo Science potrebbe
portare all’annientamento di una delle ultime armi che ancora hanno qualche
effetto contro la malaria, soprattutto in Africa.
L’uso di artemisina contro la COVID-19 in Africa
potrebbe portare, in una drammatica reazione a catena, milioni di nuove vittime
della malaria.
L’esordio è stato col botto: in aprile lo
stesso Rajoelina ha annunciato che la mistura, realizzata dal Malagasy Institute of Applied
Research o IMRA, ma la cui composizione esatta è
ignota, avrebbe guarito due pazienti. La National Academy of
Medicine of Madagascar ha preso subito posizione, invitando alla
cautela, ma non è servito a niente: Tanzania e Repubblica Democratica del Congo
hanno immediatamente annunciato, per bocca dei rispettivi presidenti, di volerne,
di quello sciroppo, e parecchio. E in seguito altri paesi africani ne hanno
fatto incetta.
Il problema è che in quello sciroppo c’è l’artemisina,
principio attivo di una pianta, l’Artemisia annua, che è tra
i pochissimi antimalarici ancora efficaci, in alcune parti del mondo. Al punto
che non viene mai data, a tale scopo, da sola, proprio per scongiurare o almeno
ritardare lo sviluppo di una resistenza. Facile immaginare che cosa potrebbe
accadere se fosse presa da milioni di persone in tutta l’Africa: un disastro che
lascerebbe dietro di sé milioni di nuove vittime della malaria.
L’idea di proporla come anti Sars-CoV 2 nasce da una
ricerca cinese del 2005 sulla SARS, nella quale, in vitro, si era visto
qualcosa, ma nulla di più. In realtà l’artemisina non è mai stata studiata su
animali o nell’uomo per nessun coronavirus. E non si capisce perché, se
funziona un po’ su un protozoo come quello della malaria, dovrebbe agire contro
un virus: si tratta di due entità lontanissime, dal punto di vista biologico.
L’Unione Africana, così come i CDC (centri per il controllo delle malattie)
africani hanno chiesto numeri, dati, fatti, ma finora non hanno avuto risposte.
India e Cina
Un altro allarme arriva poi dall’India, dove lo stesso
Ministro per la salute Harsh Vardhan ha iniziato a raccomandare già
in primavera, per le forme più leggere di COVID, la medicina ayurvedica,
sostenuto dai colleghi del Ministero per l’ayurveda, lo yoga e la naturopatia,
lo Unani (medicina di ascendenza arabo-musulmana), il Siddha (medicina del Tamil
Nadhu) e l’omeopatia o AIYSH, creato dal Governo Modi nel 2014, al quale sono
stati triplicati i fondi, passati a 290 milioni di dollari. Anche in quel caso
la Indian Medical Association (IMA), ha subito chiesto prove,
parlando apertamente di frode alla nazione, ma non è servito a
nulla. I pazienti devono fidarsi e sperare che misture a base di pepe caldo,
ginseng e altre erbe facciano il miracolo, insieme alla miscela di 4 erbe
chiamata Ayush64, brevettata fino dagli anni ottanta. Secondo il segretario dell’AIYUS Vaidya
Rajesh Kotecha, ci sarebbero decine di studi di tutti i tipi su di esso: in
vitro, sugli animali e nell’uomo. Peccato che si tratti di studi condotti con
metodologie non riconosciute da nessuna comunità scientifica e, soprattutto, di
dati estrapolati da studi condotti su altre malattie, non sulla COVID. Per
esempio, riferisce Science,
l’Ayush 64 sarebbe stato provato in 38 persone con sintomi influenzali, che
prendevano già paracetamolo e altri farmaci. Se anche avesse funzionato, non è
affatto detto che un antinfluenzale possa agire contro Sars-CoV2, ed è anzi
improbabile, perché si tratta di virus molto, molto diversi.
Della situazione in India ha parlato anche Nature,
che nei giorni scorsi ha pubblicato un drammatico articolo in cui ha denunciato
l’approvazione, da parte della locale agenzia per i medicinali, di farmaci
utilizzati per altri scopi (con il cosiddetto repurposing). Tra
essi l’antivirale favipiravir, già rivelatosi fallimentare ed escluso in moti
paesi, che ha invece avuto un via libera per l’uso in emergenza, senza che però
da nessuna parte sia spiegato che cosa si intende, in India, per emergenza. Ora
sarà prodotto da tre aziende che propongono 3 dosaggi diversi (200, 400 o 800
mg), e anche in questo caso non è stata resa nota la ragione, né le eventuali
differenze di utilizzo, ma nel frattempo il farmaco è stato approvato anche in
Russia e Cina. E poi c’è l’anticorpo monoclonale usato per la psoriasi
itolizumab, approvato anche a Cuba, per il quale ci sarebbero i dati di una
trentina di pazienti, mai resi noti alla comunità scientifica internazionale.
In questi mesi le agenzie governative cinesi hanno
propagandato di tutto: due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane,
polveri e sostanze iniettabili.
Non manca, in questo scenario, la Cina, che i suoi
rimedi tradizionali li ha mandati anche in Italia nella scorsa primavera,
insieme a medici e infermieri arrivati in aiuto della sanità lombarda, e che li
raccomanda, anche in questo caso, attraverso il Ministero della salute e
l’Amministrazione della medicina tradizionale. In questi mesi, riferisce Nature,
le agenzie governative hanno propagandato di tutto: almeno due dozzine di tipi
di pillole, decotti, tisane, polveri e perfino sostanze iniettabili, affermando
che almeno tre di esse erano di provata efficacia.
Efficacia emersa, secondo China Daily, in
studi come quello sul Jinhua Qinggan, granuli a base di erbe sviluppati contro
l’influenza aviaria del 2009, che farebbero negativizzare il tampone in 2
giorni, o quello sullo Xuebijing, un mix di 5 erbe che agirebbe disintossicando
e smuovendo la stasi dei fluidi corporei e, se dato insieme a farmaci meno
tradizionali, ridurrebbe la mortalità dell’8%. Non sono noti i dettagli,
naturalmente: bisogna crederci, e basta. Ma è noto che molti decotti contengono
efedrina, una sostanza stimolante e anoressizzante ricavata dall’Ephedra, una
pianta, che è stata vietata in Europa e negli Stati Uniti già negli anni
novanta a causa di numerosi decessi cui è stata associata, e di una tossicità
rilevante a carico del cuore e di altri organi. L’OMS, che nei primi mesi
avvisava che queste terapie non erano efficaci e potevano essere pericolose, ha
poi rimosso l’avviso, giustificandosi con il fatto che molti, in Cina, usano la
medicina tradizionale, e non si può non tenerne conto.
L’infatuazione di Europa e USA per l’idrossiclorochina
Se nei paesi più poveri e dove l’accesso alla medicina
è più complicato i politici si affidano più a meno a qualunque cosa e
raggiungono vette inarrivabili, come quella della Corea del Nord – dove
l’organo di stampa ufficiale Rodong Sinmun ha
invitato le persone a restare a casa non per mancanza di presidi di
protezione personale, ma perché il Sars-CoV 2, ufficialmente assente dal paese,
potrebbe arrivare con il vento direttamente dal Deserto del Gobi cinese,
trasportato dai granelli gialli di sabbia per oltre 1.900 km –, anche in quelli
più sviluppati si sono visti e ancora si vedono eccessi che sarebbero
spettacolari, se non avessero conseguenze drammatiche.
Per mesi l’ex presidente Donald Trump ha pubblicizzato
l’uso dell’antimalarico idrossiclorochina, farmaco i cui pesanti effetti
collaterali sono noti da decenni e che non aveva mai mostrato un’attività
antivirale, pur essendo stato sperimentato, negli anni, su Zika, chikungunya,
Ebola, Epstein-Barr, febbre suina e altro, come ricordava un’esauriente
revisione uscita già in aprile sul Canadian
Journal of Medical Association. Al contrario,
talvolta ha peggiorato la situazione. Ma diversi capi di stato tra i quali
Emanuel Macron – che per qualche settimana ha subito il fascino di Didier
Raoult, un medico di Marsiglia assai discusso (che nega l’evoluzione darwiniana
e il cambiamento climatico, per restare alle sue affermazioni più fantasiose),
convinto propugnatore dell’antimalarico –, e Jair Bolsonaro, a un certo punto,
hanno deciso che quella era la soluzione. E anche l’Italia ha riconvertito la
produzione dello stabilimento farmaceutico militare di Firenze per aumentarne
la sintesi, visto che coloro che la utilizzavano per alcune malattie reumatiche
e il lupus rischiavano di restare senza. Il tutto prima che ci fossero prove.
Le quali però, presto sono arrivate copiose, e hanno portato tutte le
agenzie regolatorie (FDA, EMA e, a seguire, quelle nazionali) occidentali a
esprimersi contro l’idrossiclorochina, che non fa nulla al
Sars-CoV 2 ed è dannosa.
Nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e
la scienza: è la politicizzazione e la ricerca del consenso nella corsa al
farmaco anti-COVID.
Come faceva notare Science in
un articolo dedicato alla politicizzazione della corsa al farmaco anti-COVID,
nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza. E proprio con
l’idrossiclorochina c’è stato un epilogo che fa capire come non ci siano grandi
distinzioni tra paesi, quando si decide di accontentare l’elettorato, e non di
seguire la scienza medesima, assumendosi l’onere di dire la verità.
L’azienda farmaceutica Bayer ne aveva donato 200 kg
agli Stati Uniti, pari a 3 milioni di dosi. La Reuters,
con un’inchiesta esclusiva, aveva scoperto che si trattava del Resochin, un
prodotto mai approvato negli USA per gravi carenze nel processo di sintesi in
due stabilimenti di India e Pakistan, mai certificati né tantomeno
autorizzati. A quel punto, poiché, nel frattempo, iniziavano anche a
emergere i primi dubbi sull’efficacia, Trump si è scoperto molto generoso, con
un paese amico: ha mandato al Brasile del re dei negazionisti Bolsonaro due
milioni di dosi di idrossiclorochina (senza
specificare, almeno ufficialmente, da dove proveniva). Resta da capire che fine
abbia fatto il milione mancante, visto che non compariva nella lista dei
farmaci che hanno salvato l’ex presidente.
Le stesse dinamiche, purtroppo, si stanno vedendo con
la corsa al vaccino: governi che credono ai comunicati stampa delle aziende,
lanciati da organi di stampa finanziari, senza aspettare la pubblicazione dei
numeri completi nelle sedi opportune. Agenzie governative che si fidano di
quelli – assai fumosi e opachi – relativi qualche decina di volontari scelti
tra decine di migliaia di partecipanti senza un chiaro criterio. Ministeri che
decidono di acquistare milioni di dosi senza aspettare i dati sulla sicurezza,
e così via. Ma lo spettacolo, si sa, deve andare sempre avanti. Anche e
soprattutto in tempi di pandemia.
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