sabato 28 novembre 2020

La pericolosa illusione dei rimedi alternativi anti-COVID - Agnese Codignola

L’ultima, in ordine di tempo è l’ivermectina, un antielmintico – cioè uno sverminatore – usato in veterinaria e talvolta anche sugli umani, che sta spopolando in America Latina. Al punto che Perù, Argentina, Bolivia e Guatemala ne stanno producendo e distribuendo a centinaia di migliaia di dosi. Ma l’anti-vermi da banco non è solo: arriva dopo lo sciroppo del Madagascar Covid-Organic, venduto ad almeno due dozzine di paesi africani dall’intraprendente presidente malgascio. Dopo l’Ayush-64, uno dei rimedi ayurvedici propagandati dall’apposito ministero indiano, il cui budget è triplicato all’uopo. Dopo lo Xuebijing, promosso a pieni voti (sulla fiducia) dal Ministero della salute cinese insieme ad altri medicamenti della medicina tradizionale, perché se curano il raffreddore male non fanno. Dopo che le agenzie africane hanno stilato con l’OMS i protocolli per cercare di iniziare a studiare decine di cure tradizionali che stanno circolando senza alcuna regola nel continente. E dopo che molti paesi occidentali hanno abbracciato dissenatamente e senza basi scientifiche l’utilizzo dell’antimalarico idrossiclorochina, salvo poi fare una clamorosa retromarcia e rifilare quintali di farmaco ormai inservibile a paesi più indifesi.

C’è una storia parallela a quella del gigantesco sforzo in atto da parte della ricerca ufficiale, che faticosamente sta verificando decine di farmaci anti-COVID, escludendoli via via quasi tutti, e cercando di capire se, al di là degli annunci mirabolanti, ci si stia avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro. Una storia che assume venature politico-antropologiche molto evidenti: quelle dei rimedi purché siano, quelle delle risposte che molti governanti, soprattutto (ma non esclusivamente) populisti vogliono a ogni costo offrire ai loro cittadini, per rassicurarli e giocare ai salvatori. E non importa se si tratta di pericolose falsità che fanno leva sulla disperazione, sull’impossibilità di accesso alla sanità, sulla fiducia in questo caso mal posta nelle medicine tradizionali, concretizzata in “farmaci” che, nella migliore delle ipotesi, o non fanno nulla o sono attivi in patologie vagamente (talvolta molto, molto vagamente) analoghe – e l’analogia spesso non significa nulla in questo campo –, rimedi che in più espongono chi sia disposto a crederci a due tipi di rischi: quelli del mancato ricorso alle cure realmente efficaci (e qualcuna c’è come le eparine, i cortisonici e, in piccola parte, l’antivirale remdesivir, tutti da dare in momenti diversi e specifici della malattia)  e quelli delle tossicità note e meno note.

In attesa di capire se ci si stia avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro, spopolano soluzioni “creative” e inefficaci, spesso propagandate da politici e capi di stato.

L’OMS è preoccupata, e lancia continui appelli affinché i governi evitino, i malati non diano ascolto, i medici non si prestino. Ma i risultati sono praticamente nulli, soprattutto quando sono appunto i governi i primi sponsor. E la vicenda dell’ivermectina, da questo punto di vista, è esemplare.

Farmacologia clandestina
Come ha raccontato Nature, che come le altre riviste scientifiche continua a seguire anche questa farmacologia “clandestina”, l’antielmintico, che costa pochissimo, è usato da decenni negli animali, e talvolta nelle persone, ma è diventato ancora più popolare nello scorso mese di maggio, quando la Bolivia, tramite i suoi operatori sanitari, ha distribuito 350.000 dosi ad alcune popolazioni del nord del paese. Poche settimane dopo la polizia peruviana ha sequestrato 20.000 dosi della versione veterinaria vendute al mercato nero per gli umani, ma in luglio il governo dello stesso paese ha annunciato l’intenzione di produrne 30.000 dosi, per rispondere alla domanda interna.

Tutto questo senza che vi fosse alcuna dimostrazione di effetto anti Sars-CoV 2, se non in qualche sparuto studio su colture cellulari. In aprile uno studio australiano, uscito privo di revisione, suggeriva in effetti che alte dosi di ivermectina riducessero la replicazione virale in vitro. Subito dopo un altro, sempre non controllato, ipotizzava un abbassamento della mortalità nei malati, ma è stato presto ritirato, perché si basava non su dati reali, ma su dati virtuali, acquistati da una società al centro di una truffa, la Surgisphere. In seguito ne è stato avviato qualcun altro (su pochissime persone), e sembra che ci sia qualche indizio positivo, ma per ora non ci sono dati verificabili. Se ne vorrebbero condurre su popolazioni più ampie, ma tutti i ricercatori si scontrano con un ostacolo enorme: è difficilissimo trovare persone che non abbiano mai assunto ivermectina. Nel frattempo, già nel 2018 un’indagine ne segnalava tutti i rischi: dal tremore alla letargia, dal disorientamento fino al coma, soprattutto ad alte dosi.

Conseguenze anche più gravi potrebbe avere la diffusione di Covid-Organic, lo sciroppo malgascio pubblicizzato nientemeno che dal Presidente Andry Rajoelina, che secondo Science potrebbe portare all’annientamento di una delle ultime armi che ancora hanno qualche effetto contro la malaria, soprattutto in Africa.

L’uso di artemisina contro la COVID-19 in Africa potrebbe portare, in una drammatica reazione a catena, milioni di nuove vittime della malaria.

L’esordio è stato col botto: in aprile lo stesso Rajoelina ha annunciato che la mistura, realizzata dal Malagasy Institute of Applied Research o IMRA, ma la cui composizione esatta è ignota, avrebbe guarito due pazienti. La National Academy of Medicine of Madagascar ha preso subito posizione, invitando alla cautela, ma non è servito a niente: Tanzania e Repubblica Democratica del Congo hanno immediatamente annunciato, per bocca dei rispettivi presidenti, di volerne, di quello sciroppo, e parecchio. E in seguito altri paesi africani ne hanno fatto incetta.

Il problema è che in quello sciroppo c’è l’artemisina, principio attivo di una pianta, l’Artemisia annua, che è tra i pochissimi antimalarici ancora efficaci, in alcune parti del mondo. Al punto che non viene mai data, a tale scopo, da sola, proprio per scongiurare o almeno ritardare lo sviluppo di una resistenza. Facile immaginare che cosa potrebbe accadere se fosse presa da milioni di persone in tutta l’Africa: un disastro che lascerebbe dietro di sé milioni di nuove vittime della malaria.

L’idea di proporla come anti Sars-CoV 2 nasce da una ricerca cinese del 2005 sulla SARS, nella quale, in vitro, si era visto qualcosa, ma nulla di più. In realtà l’artemisina non è mai stata studiata su animali o nell’uomo per nessun coronavirus. E non si capisce perché, se funziona un po’ su un protozoo come quello della malaria, dovrebbe agire contro un virus: si tratta di due entità lontanissime, dal punto di vista biologico. L’Unione Africana, così come i CDC (centri per il controllo delle malattie) africani hanno chiesto numeri, dati, fatti, ma finora non hanno avuto risposte.

India e Cina
Un altro allarme arriva poi dall’India, dove lo stesso Ministro per la salute Harsh Vardhan ha iniziato a raccomandare già in primavera, per le forme più leggere di COVID, la medicina ayurvedica, sostenuto dai colleghi del Ministero per l’ayurveda, lo yoga e la naturopatia, lo Unani (medicina di ascendenza arabo-musulmana), il Siddha (medicina del Tamil Nadhu) e l’omeopatia o AIYSH, creato dal Governo Modi nel 2014, al quale sono stati triplicati i fondi, passati a 290 milioni di dollari. Anche in quel caso la Indian Medical Association (IMA), ha subito chiesto prove, parlando apertamente di frode alla nazione, ma non è servito a nulla. I pazienti devono fidarsi e sperare che misture a base di pepe caldo, ginseng e altre erbe facciano il miracolo, insieme alla miscela di 4 erbe chiamata Ayush64, brevettata fino dagli anni ottanta. Secondo il segretario dell’AIYUS Vaidya Rajesh Kotecha, ci sarebbero decine di studi di tutti i tipi su di esso: in vitro, sugli animali e nell’uomo. Peccato che si tratti di studi condotti con metodologie non riconosciute da nessuna comunità scientifica e, soprattutto, di dati estrapolati da studi condotti su altre malattie, non sulla COVID. Per esempio, riferisce Science, l’Ayush 64 sarebbe stato provato in 38 persone con sintomi influenzali, che prendevano già paracetamolo e altri farmaci. Se anche avesse funzionato, non è affatto detto che un antinfluenzale possa agire contro Sars-CoV2, ed è anzi improbabile, perché si tratta di virus molto, molto diversi.

Della situazione in India ha parlato anche Nature, che nei giorni scorsi ha pubblicato un drammatico articolo in cui ha denunciato l’approvazione, da parte della locale agenzia per i medicinali, di farmaci utilizzati per altri scopi (con il cosiddetto repurposing). Tra essi l’antivirale favipiravir, già rivelatosi fallimentare ed escluso in moti paesi, che ha invece avuto un via libera per l’uso in emergenza, senza che però da nessuna parte sia spiegato che cosa si intende, in India, per emergenza. Ora sarà prodotto da tre aziende che propongono 3 dosaggi diversi (200, 400 o 800 mg), e anche in questo caso non è stata resa nota la ragione, né le eventuali differenze di utilizzo, ma nel frattempo il farmaco è stato approvato anche in Russia e Cina. E poi c’è l’anticorpo monoclonale usato per la psoriasi itolizumab, approvato anche a Cuba, per il quale ci sarebbero i dati di una trentina di pazienti, mai resi noti alla comunità scientifica internazionale.

In questi mesi le agenzie governative cinesi hanno propagandato di tutto: due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane, polveri e sostanze iniettabili.

Non manca, in questo scenario, la Cina, che i suoi rimedi tradizionali li ha mandati anche in Italia nella scorsa primavera, insieme a medici e infermieri arrivati in aiuto della sanità lombarda, e che li raccomanda, anche in questo caso, attraverso il Ministero della salute e l’Amministrazione della medicina tradizionale. In questi mesi, riferisce Nature, le agenzie governative hanno propagandato di tutto: almeno due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane, polveri e perfino sostanze iniettabili, affermando che almeno tre di esse erano di provata efficacia.

Efficacia emersa, secondo China Daily, in studi come quello sul Jinhua Qinggan, granuli a base di erbe sviluppati contro l’influenza aviaria del 2009, che farebbero negativizzare il tampone in 2 giorni, o quello sullo Xuebijing, un mix di 5 erbe che agirebbe disintossicando e smuovendo la stasi dei fluidi corporei e, se dato insieme a farmaci meno tradizionali, ridurrebbe la mortalità dell’8%. Non sono noti i dettagli, naturalmente: bisogna crederci, e basta. Ma è noto che molti decotti contengono efedrina, una sostanza stimolante e anoressizzante ricavata dall’Ephedra, una pianta, che è stata vietata in Europa e negli Stati Uniti già negli anni novanta a causa di numerosi decessi cui è stata associata, e di una tossicità rilevante a carico del cuore e di altri organi. L’OMS, che nei primi mesi avvisava che queste terapie non erano efficaci e potevano essere pericolose, ha poi rimosso l’avviso, giustificandosi con il fatto che molti, in Cina, usano la medicina tradizionale, e non si può non tenerne conto.

L’infatuazione di Europa e USA per l’idrossiclorochina
Se nei paesi più poveri e dove l’accesso alla medicina è più complicato i politici si affidano più a meno a qualunque cosa e raggiungono vette inarrivabili, come quella della Corea del Nord – dove l’organo di stampa ufficiale Rodong Sinmun ha invitato le persone a restare a casa non per mancanza di presidi di protezione personale, ma perché il Sars-CoV 2, ufficialmente assente dal paese, potrebbe arrivare con il vento direttamente dal Deserto del Gobi cinese, trasportato dai granelli gialli di sabbia per oltre 1.900 km –, anche in quelli più sviluppati si sono visti e ancora si vedono eccessi che sarebbero spettacolari, se non avessero conseguenze drammatiche.

Per mesi l’ex presidente Donald Trump ha pubblicizzato l’uso dell’antimalarico idrossiclorochina, farmaco i cui pesanti effetti collaterali sono noti da decenni e che non aveva mai mostrato un’attività antivirale, pur essendo stato sperimentato, negli anni, su Zika, chikungunya, Ebola, Epstein-Barr, febbre suina e altro, come ricordava un’esauriente revisione uscita già in aprile sul Canadian Journal of Medical Association. Al contrario, talvolta ha peggiorato la situazione. Ma diversi capi di stato tra i quali Emanuel Macron – che per qualche settimana ha subito il fascino di Didier Raoult, un medico di Marsiglia assai discusso (che nega l’evoluzione darwiniana e il cambiamento climatico, per restare alle sue affermazioni più fantasiose), convinto propugnatore dell’antimalarico –, e Jair Bolsonaro, a un certo punto, hanno deciso che quella era la soluzione. E anche l’Italia ha riconvertito la produzione dello stabilimento farmaceutico militare di Firenze per aumentarne la sintesi, visto che coloro che la utilizzavano per alcune malattie reumatiche e il lupus rischiavano di restare senza. Il tutto prima che ci fossero prove. Le quali però, presto sono arrivate copiose, e hanno portato tutte le agenzie regolatorie (FDA, EMA e, a seguire, quelle nazionali) occidentali a esprimersi contro l’idrossiclorochina, che non fa nulla al Sars-CoV 2 ed è dannosa.

Nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza: è la politicizzazione e la ricerca del consenso nella corsa al farmaco anti-COVID.

Come faceva notare Science in un articolo dedicato alla politicizzazione della corsa al farmaco anti-COVID, nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza. E proprio con l’idrossiclorochina c’è stato un epilogo che fa capire come non ci siano grandi distinzioni tra paesi, quando si decide di accontentare l’elettorato, e non di seguire la scienza medesima, assumendosi l’onere di dire la verità.

L’azienda farmaceutica Bayer ne aveva donato 200 kg agli Stati Uniti, pari a 3 milioni di dosi. La Reuters, con un’inchiesta esclusiva, aveva scoperto che si trattava del Resochin, un prodotto mai approvato negli USA per gravi carenze nel processo di sintesi in due stabilimenti di India e Pakistan, mai certificati né tantomeno autorizzati.  A quel punto, poiché, nel frattempo, iniziavano anche a emergere i primi dubbi sull’efficacia, Trump si è scoperto molto generoso, con un paese amico: ha mandato al Brasile del re dei negazionisti Bolsonaro due milioni di dosi di idrossiclorochina (senza specificare, almeno ufficialmente, da dove proveniva). Resta da capire che fine abbia fatto il milione mancante, visto che non compariva nella lista dei farmaci che hanno salvato l’ex presidente.

Le stesse dinamiche, purtroppo, si stanno vedendo con la corsa al vaccino: governi che credono ai comunicati stampa delle aziende, lanciati da organi di stampa finanziari, senza aspettare la pubblicazione dei numeri completi nelle sedi opportune. Agenzie governative che si fidano di quelli – assai fumosi e opachi – relativi qualche decina di volontari scelti tra decine di migliaia di partecipanti senza un chiaro criterio. Ministeri che decidono di acquistare milioni di dosi senza aspettare i dati sulla sicurezza, e così via.  Ma lo spettacolo, si sa, deve andare sempre avanti. Anche e soprattutto in tempi di pandemia.

da qui

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