Virginia di Vivo, studentessa di medicina,
racconta l’incontro con Pietro Bartolo, medico a Lampedusa
Mi reco molto assonnata al congresso
più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi
addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la
seconda voce è «sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla
tutela della salute». Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon
Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla
per i rossi. Comincia a parlare il tale dottor Pietro Bartolo, che io non so
chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento
la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si
concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di lallallà. Parla di persone. Continua
a dire “persone come noi”.
Decido di ascoltare lui con un
orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha
curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento
cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare
dita, coste, orecchie. Lo racconta:«Le donne? Sono tutte state violentate.
TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non
perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno
somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da
essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne
incinte sul mercato della prostituzione non fruttano». Mi perplimo.
Ma non era un congresso ad argomento
clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta
annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata?
Decido di mollare bulbasaur, un secondino – poi torno Bulba, devo capire cosa
sta dicendo questo qua.
«Su questi barconi gli uomini si
mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i
bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie.
Famiglie come le nostre.
Mostra una foto, vista e rivista, ma
lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct,
fuori da ogni comfort zone.
«Una notte mi hanno chiamato: erano
sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non
avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le
malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali.
Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi.
Questo ragazzo ad esempio»: mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista.
Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia.
Mi dimentico dei Pokémon.
«Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo».
Metto il cellulare in tasca.
«Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo».
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
«Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti lì, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare».
Mi dimentico dei Pokémon.
«Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo».
Metto il cellulare in tasca.
«Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo».
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
«Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti lì, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare».
Ora non c’è nessuno in aula magna
che non trattenga il fiato, in silenzio.
«Ma ci sono anche cose belle, cose
che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio.
Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E
all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40
giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a
trovarmi dopo anni. Era incinta»: ci mostra la foto del loro abbraccio.
«Sì perché la gente non capisce. C’è
qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più
malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E
l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse
dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A
Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze
migliori di altre, dicono. Sì, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi
che asserite questo».
Fa partire un video e descrive:
«Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata
per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma
loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un
coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio
delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava,
era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Sì perché
loro sono bianchi quando nascono, poi si scuriscono dopo una decina di giorni.
E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha
chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!».
Sorridiamo tutti.
«Quest’altra donna, invece, è
arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita
in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca
non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde,
grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4
anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della
sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva.
Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha
sbriciolati e imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci
arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba
non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai».
Foto successiva.
«Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata a un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della Polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali».
«Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata a un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della Polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali».
Ci mostra un altro video. Dei
sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare corpi esanimi. «Non sono
manichini» ci dice.
Il video prosegue.
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. «Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai».
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. «Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai».
Non riesco più a trattenere le
lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno
dovuto soffiarsi il naso.
«E questo è il risultato»: ci mostra
l’ennesima foto. «368 morti. Ma 367 bare. Sì. Perché in una c’è una mamma,
arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono
arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero
insieme, per l’eternità».
Penso che possa bastare così. E
questo è un estratto. Perché il dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri
relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E
quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in
piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di
aiuto: «non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli
noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete
aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede
a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!».
E io non mi espongo, perché non so
le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano,
vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se
sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna:
arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio.
Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.
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