A proposito dell’attitudine a negare l’evidenza, la psicologia ci dice
alcune cose interessanti. Per esempio: negare è un meccanismo di difesa, che
impariamo ad attivare già quando siamo piccoli per proteggerci da pensieri ed
eventi che ci appaiono insostenibili o ingestibili.
Più precisamente, diciamo negazione quando una persona, per allontanare da
sé dolore, frustrazione e disagio, rifiuta più o meno coscientemente di
riconoscere la concretezza e la realtà di un fatto, o la provata fondatezza di
un’affermazione.
Diciamo invece rimozione se perfino il processo del negare si verifica in
maniera inconscia.
Negare l’evidenza è una reazione primitiva e immatura: non ci aiuta a
governare la realtà, e non la cambia. Piuttosto, provando a cancellarla, la
maschera o la nasconde, rischiando di renderla nel tempo ancora più
ingestibile.
Tutto ciò non significa che negare l’evidenza sia una strategia sempre
inefficace o inutile. Può aiutarci, anche da adulti, a tirare il fiato di
fronte a un problema o a un evento improvviso e drammatico, fino a quando non
riusciamo ad adattarci mettendo insieme le risorse necessarie ad affrontarlo
con consapevolezza. Però la difesa, se prolungata nel tempo, può, appunto,
diventare disfunzionale e gravemente patologica.
È stato Sigmund Freud a parlare per primo di negazione. Sua figlia
Anna ha approfondito e sistematizzato le
intuizioni freudiane.
L’evidenza può essere negata in molti modi. Si può negare la realtà di un
fatto accaduto, o se ne può omettere una parte. Si possono negare le proprie
responsabilità negli accadimenti, mentendo, o minimizzando il proprio ruolo e
le conseguenze, o cercando giustificazioni campate per aria, fino a sostenere
che una cosa “è successa perché è successa”. E naturalmente si può negare il
fatto che si sta negando qualcosa.
L’elefante nella stanza
La cosa notevole è che l’attitudine a negare o a rimuovere, che potrebbe sembrare squisitamente individuale, si può trovare anche a livello sociale e può riguardare un’intera comunità. Il primo a parlarne è stato lo psicologo e ricercatore israeliano Dan Bar-On. L’argomento è stato approfondito, tra gli altri, dal sociologo Eviatar Zerubavel, con il brillante saggio intitolato The elephant in the room (L’elefante nella stanza).
La cosa notevole è che l’attitudine a negare o a rimuovere, che potrebbe sembrare squisitamente individuale, si può trovare anche a livello sociale e può riguardare un’intera comunità. Il primo a parlarne è stato lo psicologo e ricercatore israeliano Dan Bar-On. L’argomento è stato approfondito, tra gli altri, dal sociologo Eviatar Zerubavel, con il brillante saggio intitolato The elephant in the room (L’elefante nella stanza).
Abbiamo un elefante nella stanza se, scrive Zerubavel, tutti fanno finta di
non vedere ciò che è del tutto evidente. Insomma, quando – come accade
nella notissima favola di Andersen – il re è
nudo ma nessuno sa o può dirlo.
Qualsiasi problema tanto palese quanto intricato, spinoso e in apparenza
irrisolvibile può trasformarsi in un elefante nella stanza. Può essere lo stato
reale dell’economia. O (negli Stati Uniti, e forse prossimamente anche da noi)
può essere il rapporto tra la diffusione delle armi e la violenza. O può essere
un grande rischio sistemico, come la crescita delle disuguaglianze o il
cambiamento climatico.
Kari Marie Norgaard ha indagato sul
campo, per un intero anno, le reazioni di una comunità norvegese alla minaccia
del cambiamento climatico. Ne dà conto in un saggio molto citato. Dove spiega
che la negazione sociale funziona in modo analogo ma non identico alla
negazione individuale.
In sostanza, se l’elefante è così grosso che proprio è impossibile
ignorarlo, le persone ne sono consapevoli. Ma sono portate a minimizzare, o a
dire che la responsabilità non è loro, o a focalizzarsi su un singolo dettaglio
che riescono a gestire, trascurando tutto il resto. E, tutto sommato,
preferirebbero dimenticarsene e pensare ad altro. Così, alla fine, se ne
scivolano nell’apatia: un’ulteriore e non inoffensiva forma di negazione.
Pensiamo per esempio a quanto succede da noi in occasione di ogni nuova (ci
metto le virgolette) catastrofe “naturale”. Si lanciano mille allarmi e si
citano mille dati sul dissesto idrogeologico nazionale, e dopo una settimana il
tema sparisce nuovamente dal dibattito collettivo.
Comode verità
Il quotidiano britannico The Guardian titola “Dai vaccini al cambiamento climatico al genocidio: stiamo vivendo una nuova era di negazionismo?”. E pubblica un lungo articolo, preoccupato e veemente, che mette in evidenza tre questioni.
Il quotidiano britannico The Guardian titola “Dai vaccini al cambiamento climatico al genocidio: stiamo vivendo una nuova era di negazionismo?”. E pubblica un lungo articolo, preoccupato e veemente, che mette in evidenza tre questioni.
La prima questione: dai genocidi (mai avvenuti!) al cambiamento climatico
(un fatto naturale!) alla minaccia dell’aids (non esiste!) in tempi recenti il
negazionismo si struttura e si consolida con la produzione di teorie
“alternative” e di verità più comode, anche se infondate, e dà origine a un
clima sociale agitato dall’odio e dal sospetto.
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La seconda questione: il negazionismo può avere terribili conseguenze. Per
esempio, la riluttanza del presidente sudafricano Thabo Mbeki, in carica tra il
1999 e il 2008, a riconoscere il legame tra hiv e aids ha avuto un costo
stimato di 330mila vite umane.
La terza questione: l’avvento di internet ha causato l’espandersi di
un’ulteriore forma di negazionismo, anarchico e distopico, incontrollabile e
impermeabile a ogni verifica. Una situazione nella quale ciascuno si sente
legittimato a sostenere la propria individuale verità, inventata su misura.
Sostanziale impotenza
Aggiungo che, oltretutto, negare l’evidenza è una pratica faticosissima. C’è bisogno di istituire un intero sistema logico parallelo. Di stare attenti a non cadere in contraddizione. E di presidiare costantemente il proprio paesaggio cognitivo contro gli assalti continui dei dati di realtà.
Aggiungo che, oltretutto, negare l’evidenza è una pratica faticosissima. C’è bisogno di istituire un intero sistema logico parallelo. Di stare attenti a non cadere in contraddizione. E di presidiare costantemente il proprio paesaggio cognitivo contro gli assalti continui dei dati di realtà.
La conseguenza di tutto ciò è una sostanziale diminuzione della capacità
collettiva di affrontare i grandi problemi contemporanei, e dell’energia
necessaria per poterlo fare. Così tutti insieme come collettività, e non solo
chi nega i problemi, ci troviamo immersi in una realtà opaca e vischiosa,
ansiogena, claustrofobica. E in una condizione di sostanziale impotenza.
Negare l’evidenza è un comportamento infantile e immaturo anche al livello
collettivo? Sì, certo. Può essere incentivato o aggravato dall’incapacità,
dalla cecità o dall’opportunismo dei governi? Be’, il caso sudafricano è
esemplare, e non è l’unico. Ha delle connotazioni patologiche? Temo proprio di
sì.
Ma se un individuo intrappolato nella negazione patologica può chiedere
aiuto a un terapeuta, quale terapia può proporsi per un’intera comunità? Forse
il primo passo, anche questo analogo a quello che va compiuto al livello
individuale, consiste nello smettere di negare che negare l’evidenza è, per
così dire, il problema dei problemi.
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