L’Isola del
«grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie,
accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo
un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione,
foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per
fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del
Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e
Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per
dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per
stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo
viene accelerato.
Iniziarono
presto: 20 anni dopo avere preso possesso dell’Isola, nel 1740 il re Carlo
Emanuele III di Savoia aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandell
il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi (Villacidro)
in cambio di un’esigua percentuale sul minerale raffinato; e gli aveva permesso
di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie,
costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio
forestale della regione.
Lo scempio
era continuato anche quando miniere e fonderie, scaduto il contratto
trentennale di Mandell, furono gestite direttamente dal regio governo. Anzi da
allora la situazione si era aggravata, perché le richieste di combustibile si
erano fatte più pressanti e perentorie. Furono bruciati persino i boschi della
piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li
bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte
Beltrami devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna, mandò
in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità
d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo
delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento. Scriverà
Eliseo Spiga :” lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il
1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per
l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera
superficie della Sardegna, città comprese” 6.
Mentre il
poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata
dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio
in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e
cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa
terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i
frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas
hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu
desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con
la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe
Dessì, nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: La
salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la
Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare,
specialmente dopo l’unificazione del regno. Mentre Carlo
Corbetta, (scrittore lombardo della seconda metà del secolo XIX), in
seguito a un viaggio in Sardegna, (e in Corsica) scrisse un’opera in due
volumi Sardegna e Corsica. E a proposito della distruzione dei
boschi e della deforestazione, scrive che la si deve in
massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro
coltello scorticatore ne denudano i tronchi e grossi rami delle elci e
quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne
tannino per la conceria delle pelli e per le tinture.
Si tratta di
un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito
dopo l’Unità d’Italia (a partire soprattutto dal 1865) di gruppi di
commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che
Corbetta non individua, sono ben altri: i re sabaudi e i loro governi.
Probabilmente Corbetta non voleva nè poteva individuarli, essendo essi
amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis. Il suo viaggio
in Sardegna era stato possibile proprio grazie all’appoggio proprio di
Quintino Sella. Questi, più volte Ministro delle Finanze nel 1869 soggiornerà
due volte in Sardegna in qualità di componente della Commissione Parlamentare
d’Inchiesta sulle condizioni dell’isola.
Ma è
soprattutto Gramsci, in un articolo sull’Avanti (Edizione
piemontese) del 23 ottobre 1918, censurato e riscoperto 60 anni dopo, a
denunciare la devastazione ambientale e climatica, frutto della spoliazione e
distruzione dei boschi. Nell’articolo – intitolato significativamente “Gli
spogliatoi di cadaveri”, individua fra questi gli industriali del
carbone. Essi scendono dalla Toscana e stavolta, il lascito perla
Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora
tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi
soldi.: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la
salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così –
continua l’intellettuale di Ales – L’Isola di Sardegna fu letteralmente
rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne
regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La
Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti,
l’abbiamo ereditata allora, concluderà.
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