Campagna Abiti Puliti e Cnms
La nuova inchiesta realizzata dal Centro Nuovo Modello Di Sviluppo e
dalla campagna Abiti Puliti “Una dura storia di cuoio” analizza la situazione
lavorativa nell’industria della concia italiana. La ricerca, parte del progetto Change
Your Shoes, focalizza l’attenzione in quella che viene definita la Repubblica del Cuoio:
il distretto produttivo di Santa Croce, in Toscana.
Attraverso interviste e ricerche sul campo, gli attivisti fotografano una situazione di sfruttamento
che spesso varca i limiti della legalità. Dopo un’accurata analisi del contesto
nazionale e internazionale del mercato delle pelli, la ricerca ricostruisce il
viaggio attraverso le 240 concerie e i 500 terzisti che insieme impiegano
12.700 lavoratori di Santa Croce. La maggior parte sono aziende di piccole
dimensioni. Nonostante questo, alcune di loro possiedono concerie all’estero
per la maggior parte situate in Brasile, India e Est Europa.
Rapporti di lavoro precari, contratti di quattro ore,
lavoro nero, ricatto della manodopera straniera, rischi per la sicurezza e per
la salute degli operai sono solo alcune delle caratteristiche evidenziate dal
rapporto. I lavoratori e le lavoratrici spesso hanno paura a denunciare per non perdere il
posto di lavoro. I lavoratori interinali rappresentano la moderna schiavitù.
Spesso ci troviamo a denunciare situazioni simili in paesi lontani. Ora
parliamo di Europa. Ora parliamo anche di noi.
I punti principali del rapporto:
1) Uno sguardo al commercio globale di pelle: l’Italia
stazione conciaria del lusso
L’Italia non dispone di grandi allevamenti di bestiame: con 6 milioni di
bovini allevati, ricopre appena lo 0,36 per cento del totale mondiale. Anche la
produzione di pelli grezze è ridotta, appena l’1 per cento del totale mondiale.
Però l’Italia ha una lunga tradizione conciaria e molti stabilimenti di
lavorazione, per cui riesce a generare il 17 per cento del valore della
produzione totale mondiale di pelli finite (5,25 miliardi di euro) e
addirittura il 30 per cento del valore delle esportazioni. Si tratta quindi in
gran parte di pelle ottenuta a partire da semilavorati importati dall’estero: un calcolo svolto nella ricerca dimostra come ben il 75 per cento
della pelle prodotta in Italia abbia in realtà origine da pelle semilavorata di
provenienza estera.
2) Si produce di meno e si commercia di più, anche nei
distretti
L’attività di concia in Italia è sviluppata principalmente in tre distretti,
che assieme coprono l’88,6 per cento di tutta la produzione: in ordine di
importanza, Arzignano in Veneto, lungo la valle del Chiampo in provincia di
Vicenza; Santa Croce sull’Arno in Toscana, tra le province di Pisa e Firenze;
Solofra in Campania, tra Napoli e Avellino.
L’industria
conciaria italiana è dominata da piccole imprese a proprietà familiare, ma ciò
non ha impedito ad alcune di esse diinternazionalizzarsi, di aprire concerie
all’estero. Esempi sono Antiba, azienda di Santa Croce che possiede concerie in
India, o Vicenza Pelli, azienda di Arzignano con uno stabilimento in Serbia. I
campioni dell’internazionalizzazione sono i fratelli Mastrotto che dal Veneto
si sono espansi in Brasile, Tunisia, Vietnam, per disporre di pelli finite a
basso costo da collocare sul mercato mondiale, ormai affollato da nuovi venuti
che riescono a vendere a prezzi molto più bassi di quelli praticati dai paesi
di vecchia industrializzazione.
3) Il segreto del distretto di Santa Croce sull’Arno:
il piccolo sfrutta meglio
Il distretto di Santa Croce contribuisce al 70 per
cento di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98 per cento di
quello prodotto in Italia. Qui ci sono 240 concerie, per la maggior
parte di piccole dimensioni e con i macchinari necessari alla sola fase
centrale della concia; sono affiancate da oltre 500 laboratori terzisti per
l’esecuzione delle altre lavorazioni specifiche. Solo in rarissimi
casi, le concerie appartengono a grandi imprese internazionali: tra i casi più
noti Blutonic e Caravel Pelli Pregiate (15 e 76 dipendenti), proprietà
della multinazionale del lusso Kering, che detiene tra gli altri i marchi Gucci
e Bottega Italiana. Il distretto impiega 12.700 persone, tra lavoratori alle
dirette dipendenze delle imprese e assunti da agenzie interinali. I primi
rappresentano il 72 per cento del totale, i secondi il 28 per cento. È nelle
officine dei terzisti che si concentra il lavoro interinale, dove si registrano
le situazioni di maggior sfruttamento lavorativo.
4) La deregolarizzazione dei rapporti di lavoro: una
flessibilità che favorisce l’illegalità
Nel 2012 i lavoratori interinali nel distretto di
Santa Croce erano 1.733. Nel 2014 sono 3.451, il doppio. Segno che il lavoro è cresciuto,
ma in forma sempre più precaria. Lo dimostra anche il fatto che nel
2014 nel distretto hanno trovato lavoro 4.650 nuovi addetti, ma solo 1.199 alle
dirette dipendenze delle aziende produttrici. A confermare la precarietà
interviene anche il dato sui contratti: nel 2014 i lavoratori interinali sono
stati 3.451, ma i contratti stipulati sono stati 5.021, uno e mezzo a testa.
Sono diffusi persino contratti di 4 ore: un lavoratore viene assunto alle 8 e a
mezzogiorno si ritrova già senza lavoro.
Nonostante le maggiori elasticità consentite dalla
legge, le infrazioni non sono scomparse. Nel distretto di Santa Croce è
abituale lavorare ben oltre le ore di straordinario consentite, facendo ampio
ricorso al pagamento al nero. Dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2014, nel
distretto sono state ispezionate 185 aziende (concerie e terzisti) per un
totale di 1.024 lavoratori. Di questi, 70 per cento erano di nazionalità
italiana e 30 per cento immigrati. Complessivamente sono state trovate
irregolarità riguardanti 217 lavoratori fra cui 116 totalmente in nero. Il 43
per cento dei lavoratori in nero erano immigrati.
5) Il ricatto ai lavoratori stranieri: I lavoratori
interinali rappresentano la moderna schiavitù
I contratti interinali aperti nel 2014 hanno
riguardato per il 54 per cento stranieri, quasi tutti “extra comunitari”. Non è un caso se negli ultimi dieci anni gli stranieri residenti
nei comuni del distretto sono passati da 5.060 a 14.248. La crisi ha indebolito
ulteriormente la posizione degli immigrati e molti di loro stanno perdendo le
posizioni che avevano raggiunto. Alcuni, che in passato erano riusciti a
conquistarsi un lavoro a tempo indeterminato, lo hanno perso quando sono andati
a trovare i propri cari in Senegal: le dimissioni in bianco fatte firmate al
momento dell’assunzione sono servite ai datori di lavoro per licenziare gli
operai che si assentavano per periodi troppo lunghi. Le agenzie
interinali si prestano spesso ai desideri delle ditte, che vogliono che alcuni
lavoratori senegalesi, particolarmente apprezzati, vadano a lavorare solo per
loro, anche se vengono assunti occasionalmente con contratti interinali. Un rapporto “usa e
getta”, quindi, con l’obbligo di essere sempre a disposizione: il tempo di un
lavoratore diventa così totalmente proprietà della ditta, sia quando lavora che
quando non lavora.
6) La salute a rischio, soprattutto nelle aziende
terziste
Nel distretto ci sono aziende moderne, attente alle
normative sulla sicurezza e l’igiene, ma anche concerie e terzisti che
investono malvolentieri, cercando anzi di risparmiare a discapito dei vincoli
normativi. Dalla ricerca emerge che sono soprattuttogli interinali i più a
rischio: nelle ore in cui sono assunti vengono costretti a ritmi massacranti e
spesso senza la fornitura degli indumenti antinfortunistici, come le cuffie
contro il rumore o le mascherine per ripararsi dalle esalazioni.
Nel 2011 la sezione della Medicina del Lavoro competente per il distretto
di Santa Croce, ha condotto uno studio su 101 lavoratori addetti alla
scarnatura, con un’età media di 44 anni, di cui 37 stranieri: di tutti i
lavoratori esaminati, 31 sono risultati positivi per disturbi alla colonna
vertebrale. I casi di malattie professionali riconosciuti nel distretto di
Santa Croce dal 1997 al 2014 sono stati 493, suddivisibili in cinque grandi
gruppi: malattie muscolo-scheletriche (44 per cento), tumori (19 per cento),
dermatiti da contatto, ipoacusie da rumore e malattie respiratorie.
7) Acque chiare, ma tanta opacità
In
un’area in cui vivono circa 110.000 persone, il carico inquinante nel sistema
delle acque è pari a quello di una città con 3 milioni di abitanti: eppure tra
riciclo dei rifiuti e corretto smaltimento le condizioni ambientali sono molto
migliorate rispetto al passato. Ciò nonostante la ricerca ha riscontrato una evidente mancanza di
collaborazione da parte delle imprese di smaltimento e una grande
opacità dei dati. Purtroppo anche nel passato recente la mancanza di controlli
ha portato anche allo sviluppo di situazioni criminali: la Guardia di Finanza
ha scoperto che tra 2006 e 2013 il Consorzio di Fucecchio (oggi chiuso) ha
immesso nel fiume Arno ben 5 milioni di metri cubi di fanghi tossici senza
depurarli.
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