L’industria
delle grandi dighe è in pieno boom. Centinaia di impianti idroelettrici sono in
progetto o in costruzione sui maggiori fiumi del mondo. Sono presentate come
una soluzione “pulita” per produrre energia: ma i sostenitori di questi
progetti «spesso sopravvalutano i benefici economici e sottostimano gli effetti
sulla biodiversità e sulla pesca», sostiene un gruppo di scienziati in uno
studio pubblicato questa settimana su Science. Si tratta di una
delle critiche più argomentate alle grandi dighe mai venuto dalla comunità
scientifica. Gli autori sono studiosi di 30 università, istituzioni
scientifiche governative e istituti per la conservazione naturale di 8 paesi.
Lo studio approfondisce i casi del Rio
delle Amazzoni, del Congo e del Mekong: solo su questi tre fiumi oggi ci sono
450 dighe in progetto o in costruzione, fanno notare gli autori. Questi tre
fiumi sommati contengono oltre 4.000 specie di pesci noti, circa un terzo dei
pesci d’acqua dolce al mondo; in molti casi sono specie che si trovano solo li.
«Le grandi
dighe invariabilmente riducono la diversità della fauna ittica ma bloccano
anche i movimenti che connettono le popolazioni [di pesci] e permettono alle
specie migratorie di completare il proprio ciclo di vita. Questo può essere
particolarmente devastante per la pesca fluviale nelle regioni tropicali, dove
molte specie tra le più importanti migrano per centinaia di chilometri
rispondendo al ritmo stagionale delle alluvioni», scrivono i ricercatori. Il
basso Mekong, popolato di specie di pesce migratorio, è un esempio drammatico:
qui la pesca costituisce buona parte dell’alimentazione e dell’economia locale,
ma è in declino proprio perché una serie di dighe ha cominciato a bloccare il
fiume.
«Le grandi
dighe ritardano e attenuano il ritmo delle alluvioni stagionali, riducendo
l’accesso dei pesci agli habitat alluvionali che sono terreni essenziali per la
crescita e alimentazione dei nuovi nati. Le alterazioni fisiche provocano un
cambiamento dei regimi ecologici, dove sistemi dinamici e con alta complessità
strutturale e funzionale divengono relativamente omogenei e poco produttivi»,
si legge sempre nello studio. Inoltre, «gli effetti ecologici delle grandi
dighe non sono limitati ai fiumi; i sedimenti intrappolati [dalle dighe]
alterano la dinamica dei nutrienti e altri processi bio-geo-chimici negli
ecosistemi dei delta, estuari e piattaforme marine, cosa che ha un impatto
sull’agricoltura, la pesca e gli insediamenti umani».
Lo studio
pubblicato da Science nota che «i pianificatori non hanno
valutato i reali costi e benefici dei grandi progetti idroelettrici». I
guadagni sono sempre inferiori alle aspettative, e i costi lievitano
regolarmente: circa tre quarti delle grandi dighe hanno sommato costi reali in
media del 96% più alti delle previsioni fatte per giustificarne la costruzione.
Senza contare che i costi di “mitigazione” ambientale sono di solito
sottovalutati o esclusi dal conto – come nel caso dei 26 miliardi di dollari
spesi dalla Cina per mitigare l’impatto della diga delle Tre Gole.
«La mancanza
di trasparenza nei processi di approvazione fa dubitare che i finanziatori e il
pubblico siano davvero informati sui rischi e l’impatto a lungo termine delle
dighe sui sistemi fluviali tropicali che sostengono la vita di milioni di
persone», si legge. Anche quando “valutazioni di impatto ambientale” sono
condotte, «milioni di dollari possono essere spesi per studi che non hanno
nessuna reale influenza sui progetti, anche perché spesso vengono completati
quando la costruzione è già cominciata».
In
definitiva, gli autori si dicono «scettici che le popolazioni rurali nei bacini
dell’Amazzonia, Congo e Mekong riceveranno benefici in termini di energia e
lavoro tali da compensare il costo della pesca, agricoltura e proprietà perdute».
Auspicano
quindi un nuovo equilibrio «tra sfruttare il potenziale idroelettrico e
salvaguardare risorse naturali chiave»: in particolare, suggeriscono alle
istituzioni che autorizzano la costruzione di grandi dighe, e a quelle che le
finanziano, di considerare nelle loro analisi l’intero bacino fluviale
coinvolto e l’effetto cumulativo di molteplici dighe sull’idrologia, la
dinamica dei sedimenti, la produttività degli ecosistemi, la biodiversità, la
vita delle popolazioni rurali.
Altrimenti,
dicono, «l’estinzione di specie e il declino della pesca e degli ecosistemi
accompagneranno inevitabilmente i nuovi progetti idroelettrici nei fiumi
tropicali ad alta diversità biologica».
Sono le
critiche che numerose popolazioni locali e organizzazioni ambientaliste fanno
da tempo, osserva Peter Bosshard, direttore e fondatore della rete International
Rivers.
Non è la
prima volta che la razionalità delle grandi dighe viene messa in discussione.
Alla fine del secolo, nel 1998, la Banca Mondiale fu costretta a istituire una
commissione indipendente per riesaminare i progetti che stavano suscitando
polemiche e proteste in po’ ovunque (qualche anno prima un grande movimento
popolare aveva costretto la stessa Banca Mondiale a ritirarsi dal progetto di
una grande diga sul fiume Narmada, in India). La World Commission on Dams presentò nel 2000 un rapporto
in cui affermava che «in troppi casi per garantire quei benefici è stato pagato
un prezzo inaccettabile, in termini sociali e ambientali, dalle persone
sfollate, dalle comunità a valle [delle dighe], dai contribuenti e
dall’ambiente naturale». Parlava anche di costi e benefici gonfiati. Dopo quel
rapporto la Wcd fu sciolta; per qualche tempo il rapporto è rimasto online
(oggi non più: c’è solo la sintesi fatta dall’Unep). Poi la Banca mondiale ha
ripreso allegramente a sostenere e finanziare progetti di dighe.
Governi e
finanziatori oggi sono di nuovo chiamati in causa: ascolteranno?
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