“Programmiamo una riunione” è diventata la risposta automatica universale alla maggior parte dei problemi di lavoro, scrive l’Harvard Business Review. “Non sai come portare avanti un progetto? Facciamo una riunione. Hai poche idee da condividere? Facciamo una riunione. Non sai come procedere? Facciamo una riunione”.
E invece no: in questi tre casi, per esempio, una riunione serve solo a
dilazionare la soluzione del problema. Bisogna mettersi alla scrivania.
Attivare il pensiero strategico. Assumersi la responsabilità di riesaminare i
dati e i processi, di chiarirsi le idee o di farsene venire in mente di
migliori. Insomma, bisogna lavorare, e non chiacchierare.
Di norma, una riunione serve a esaminare una situazione, a confrontare
esigenze e punti di vista, a esprimere orientamenti, e infine a prendere
decisioni condivise.
“Ci vediamo online”
Un recente e assai ampio
studio svolto dai ricercatori dell’Harvard Business School dimostra che la
pandemia non ha certo cancellato le riunioni di lavoro. Le ha semplicemente
spostate online. In realtà, il numero medio di riunioni a cui le persone
assistono è cresciuto del 12,9 per cento. La quantità di partecipanti coinvolti
nelle riunioni è cresciuta del 13,5 per cento.
In compenso, è diminuita del 20,1 per cento la lunghezza media delle
riunioni, e quindi è anche diminuito dell’11,5 per cento il tempo che le
persone passano ogni giorno in riunione. E questo è di sicuro un bene. Meno
positivo, invece, il fatto che la lunghezza media del giorno di lavoro sia cresciuta
dell’8,2 per cento.
La ricerca può essere ritenuta significativa perché ha preso in
considerazione i comportamenti di oltre tre milioni di persone in 16 grandi
aree metropolitane tra Stati Uniti, Europa e Medio Oriente. In Italia, sono
state valutate le aree di Milano e di Roma.
Ecco qualche fatto ulteriore. Anche se non è vero
(l’ha ammesso l’azienda stessa) che Zoom ha toccato i 300 milioni di
fruitori al giorno, sta di fatto che l’utenza di tutte le piattaforme per
riunioni è cresciuta enormemente negli ultimi mesi, e che l’incremento di Zoom
resta impressionante. Ho il fondato sospetto che, una volta fatta l’abitudine
alle riunioni online, e ad alcuni oggettivi vantaggi in termini di riduzione di
tempi e di costi per gli spostamenti, si continuerà a usare le piattaforme in
modo intensivo anche a pandemia terminata.
Anzi, se il telelavoro dovesse, come sembra quasi certo, subire un incremento
permanente (qui un ottimo articolo uscito su Il Tascabile) è più che probabile
che crescerebbe ulteriormente la tendenza a organizzare riunioni. E a farlo non
solo per confrontarsi e decidere, ma anche per mitigare il senso di isolamento
che può affliggere chi lavora in solitudine. E per alimentare lo spirito di
squadra.
Ha fatto il giro del mondo la notizia dell’autorevole analista legale del
New Yorker che, in piena videoconferenza si concede una parentesi di sesso autogestito immaginando di aver spento la
funzione video. La rete è piena di racconti di incidenti analoghi, anche se non
tutti così estremi. Ma a poco a poco impareremo a evitare le gaffe, ad
avvertire i parenti perché non appaiano in mutande sullo sfondo, a chiudere il
gatto in un’altra stanza. Perfino a inquadrarci meglio, al centro dello schermo
e non nella metà inferiore. Riuscirci è facile: basta inclinare il monitor (nel
quale è integrata la webcam) nel modo giusto.
Anche meno
Eppure, nonostante le apparenze, riunirsi non è sempre necessario, e non è
sempre virtuoso.
L’Harvard Business Review invita, letteralmente, a fermare “la follia delle
riunioni”, e segnala che, dagli anni
sessanta a oggi, si è passati da meno di dieci a oltre 23 ore di riunione alla
settimana, ed è un’enormità. E riferisce che, di 182 senior manager
intervistati, il 65 per cento dichiara che a causa dell’eccesso di riunioni non
riesce a completare il proprio lavoro. Il 71 per cento le considera
generalmente inefficienti e improduttive. Il 64 per cento dice che le riunioni
vanno a discapito del pensiero profondo (deep thinking). E
il 62 per cento afferma che falliscono l’obiettivo di incentivare la
cooperazione e avvicinare le persone.
In effetti, le cose che possono andare storte sono molte.
Di fatto, molte riunioni risultano improduttive perché gli obiettivi non
sono chiari. Perché nessuno si è preoccupato di scrivere un ordine del giorno e
la discussione procede in modo ondivago. O perché nessuno prende buoni appunti,
e alla fine della riunione, specie se è stata lunga e si è molto discusso,
riesce difficile ricostruire il senso stesso della discussione e i suoi
risultati, che finiscono per perdersi come lacrime nella pioggia.
Alcune riunioni sono addirittura dannose perché inquinate da comportamenti
disfunzionali: divagazioni non pertinenti, critiche distruttive, protagonismo
eccessivo di alcuni, che si prendono l’intera scena relegando il resto dei
partecipanti al ruolo di puri spettatori.
Non dobbiamo inoltre dimenticarci delle persone introverse: spesso sono creative.
Possono essere molto produttive. Saprebbero anche prendere buone decisioni su
temi complessi. Ma ahimè, in riunione tendono a zittirsi.
Online trovate pagine e pagine su “persone introverse e riunioni” (qui un esempio). Di sicuro è un segno che il problema esiste, ma
francamente non so quanto siano buone le contromisure suggerite.
Accorciare i tempi
Le riunioni sono tanto più produttive quanto più sono brevi, scrive Forbes. Il motivo è semplice: nessuno riesce a stare attento
per ore e ore. Alcune aziende, per accorciare i tempi, sono arrivate a
obbligare le persone a fare riunioni restando in piedi. Devo dire che mi sembra
una soluzione pessima. In una situazione di disagio fisico, infatti, buona parte
dell’attenzione di cui i partecipanti dispongono finisce per focalizzarsi su
quello, e tutto il resto si sfuoca.
Molto meglio accorciare i tempi convocando solo le persone che devono
effettivamente esserci, e che possono partecipare in modo attivo. La regola del
sette (rule of seven) afferma che sette è il numero massimo di
partecipanti per una riunione che funziona, e che per ogni partecipante
ulteriore si perde un 10 per cento di efficacia, fino ad arrivare a risultati
pari a zero con riunioni di 17 o più persone. È un principio da tenere a
mente.
Naturalmente, la regola non si applica se le persone vengono messe insieme
non per esaminare una situazione e prendere decisioni, ma per affrontare un
compito che riguarda il produrre qualcosa, il cui svolgimento può protrarsi nel
tempo. Quella, però, non è una riunione, ma un lavoro di gruppo. Che può
efficacemente, e specie se ci si divide in sottogruppi, coinvolgere anche una
ventina di persone (qui la differenza tra lavoro di gruppo e lavoro di squadra).
Non è una riunione ma un incontro di aggiornamento, un convegno o una
convention, il classico raduno che si organizza con il solo scopo di trasmettere
informazioni, o di presentare qualcosa di nuovo. In quel caso pochissime
persone, o a un singolo oratore (pensate a Steve Jobs che lancia l’iPad) si
rivolgono a una platea che può essere ampia quanto si vuole, fino comprendere
mille o più invitati. Grandi applausi in conclusione, e poi tutti a sgomitare
per rimpinzarsi al buffet.
A proposito di riunioni produttive. L’ho scritto molte volte e lo ripeto
anche qui: il brainstorming non funziona e non serve. Ci sono molte evidenze
che lo dimostrano. L’unica cosa interessante del brainstorming è il nome, “tempesta di cervelli”.
Se è quello a sembrarvi promettente e seduttivo, fatevelo stampare su una
maglietta.
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