La “madre delle acque”
Per il
secondo anno consecutivo, la siccità sta divorando il bacino del Mekong. Le
piogge monsoniche, che investono il Sudest asiatico tra maggio e agosto, sono
state esigue. In ottobre, quando il fiume dovrebbe essere in piena, il livello
dell’acqua era invece appena un terzo del normale. Lo stesso era successo nel
2019. La Mekong River Commission, organismo intergovernativo che rappresenta i
quattro paesi del basso bacino fluviale (Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam),
parla di “siccità estrema”. La pesca e l’agricoltura da cui dipendono milioni
di persone sono in crisi. E mentre la regione indocinese comincia a contare i
danni, economici quanto ecologici, un istituto statunitense che usa immagini
satellitari per monitorare i cambiamenti climatici accusa la Cina: avrebbe
trattenuto preziosa acqua nei reservoir formati
dalle sue undici dighe sull’alto corso del fiume, provocando il disastro a
valle. Pechino respinge l’accusa. Ancora una volta, il Mekong si rivela un caso
paradigmatico delle tensioni politico-diplomatiche, ambientali e sociali della
convivenza lungo un grande fiume dall’ecosistema fragile e dalla storia
tormentata.
Le parti in
causa sono sei paesi. Il Mekong infatti nasce sull’altopiano tibetano, oltre i
4500 metri d’altezza, e scorre per 4900 chilometri fino al Mar Cinese
meridionale. La prima metà del suo percorso è in Cina, attraversa la provincia
dello Yunnan tra gole spettacolari dove perde circa il 90 per cento del suo
dislivello totale: questo è il “bacino dell’Alto Mekong”. Poi entra in Laos
nella regione detta “triangolo d’oro”, segna il confine tra Laos e Myanmar e
più a valle tra Laos e Thailandia; attraversa la Cambogia e infine forma un
grande delta nel Vietnam meridionale: e questo è il “bacino del Basso Mekong”.
La distinzione riflette la geografia, ma ancora di più la storia e la
geopolitica della regione. A cominciare dal nome: in Cina è il Lancang Jang
(“fiume turbolento”), nel resto del mondo è noto con il nome derivato dalla
lingua thai, Mae Nam Khong, “madre delle acque”.
Il fiume che “respira”
La Mekong
River Commission (Mrc) annuncia quest’anno
una situazione ancora più grave che nel 2019.
I segni del
disastro sono visibili nel delta,
dove la portata d’acqua è così scarsa che i dodici bracci del fiume sono ridotti
a rigagnoli e l’acqua salina del Mar Cinese meridionale sta penetrando sempre
più all’interno. Più a monte, in Laos, dove il corso del Mekong è disseminato
di scogli e rapide, l’inverno scorso il fiume era ridotto a pozze isolate tra
ampi tratti in secca: questo inverno ci si aspetta la stessa scena.
Il segno più
tangibile del disastro è che quest’anno il Tonle Sap (“grande lago”) non si è
riempito. La particolarità del Mekong infatti è che la sua corrente cambia
secondo le stagioni. Tra maggio e l’estate, alimentato dallo scioglimento dei
ghiacci himalayani e dalle piogge monsoniche, il fiume si gonfia, la corrente è
turbolenta e la piena allaga le zone pianeggianti ricoprendole di limo. Poco
prima di raggiungere la capitale cambogiana Phnom Penh però la corrente cambia
direzione e l’acqua risale un affluente laterale, il Tonle Sap, fino
all’omonimo lago. Tra agosto e novembre questo cresce fino a cinque volte per
superficie e volume d’acqua; poi si stabilizza e nell’inverno l’acqua riprende
a scorrere verso il Mekong e il suo delta. Come se il fiume respirasse, e il
Tonle Sap fosse il suo cuore.
Da questo
“respiro” dipende il ciclo della vita fluviale, e in primo luogo la pesca. Gran
parte dei pesci del Mekong sono specie migratorie, che risalgono la corrente
nella stagione secca per riprodursi tra gli scogli a monte, per poi scendere
con la piena a ingrassare nel Tonle Sap. Secondo la Fao il
basso bacino del Mekong è la più produttiva regione di pesca d’acqua dolce al
mondo, con circa il 15 per cento del pescato mondiale (secondo altre fonti
arriva al 20 o al 25 per cento del totale); tra pesca e acquacoltura, si stima
una produzione annua di circa 4,5 milioni di tonnellate di pesce e altri
organismi acquatici. Questo non include del tutto la pesca artigianale, a cui è
legata la sussistenza di milioni di persone. Pesce e organismi acquatici sono
la principale fonte di proteine animali per gli abitanti della regione (tra 40
e 60 per cento in media, fino all’80 per cento per la popolazione rurale e più
povera). Nel Tonle Sap, le circa 500.000 tonnellate di pesce pescate nelle
annate normali sono una parte consistente dell’economia locale. In queste
settimane però le cronache raccontano di reti vuote, pescatori disperati,
interi villaggi rurali sul lastrico. Anche l’agricoltura stagionale è in crisi:
di solito, quando la piena si ritira, milioni di abitanti rivieraschi
coltivano orti e risaie sulle terre concimate dal limo, che quest’anno
non è arrivato. E il livello del fiume è così basso che le pompe per
l’irrigazione dei campi non arrivano a pescare acqua.
Bisogna
pensare che circa 60 milioni di persone abitano il basso bacino del Mekong, di
cui circa la metà vive entro 15 chilometri dal fiume e ne dipende direttamente.
In altre parole, la siccità minaccia l’economia e la sicurezza alimentare
di milioni di persone, e in particolare della popolazione rurale.
Il clima e le dighe
La causa di
tutto questo, afferma la Mekong River Commission, sono piogge monsoniche
arrivate tardi e troppo scarse, conseguenza del fenomeno meteorologico detto
“El Niño”.
Ma se le
condizioni climatiche non fossero l’unica causa della crisi? Se il Mekong fosse
in secca perché l’acqua viene trattenuta dalle dighe costruite nell’alto corso
fluviale, cioè in Cina?
È proprio
questa l’accusa lanciata da un istituto di ricerca statunitense, Eyes on Earth,
in uno studio pubblicato
nell’aprile di quest’anno e condotto insieme a un altro centro specializzato,
il Global Environmental Satellite Applications. Sulla base di accurate
osservazioni satellitari, lo studio conclude che nei sei mesi centrali del
2019, mentre il basso bacino del Mekong era a corto di piogge, nella parte alta
del fiume le precipitazioni erano abbondanti e nel Lancang è affluita una
quantità d’acqua superiore alla norma: ma è rimasta quasi tutta a monte,
nei reservoir costituiti dalle dighe, e non è defluita
a valle. L’accusa è precisa: «Le dighe sul tratto cinese hanno trattenuto
una quantità d’acqua senza precedenti», ha scritto Brian Eyler, direttore del
Programma per il Sudest asiatico del Stimson Center (un’altra
istituzione di ricerca statunitense), che ha ripreso quello studio in un articolo su “Foreign
Policy”. Lo studio americano afferma inoltre che già da alcuni anni
la Cina trattiene quantità crescenti d’acqua, cosa che già in passato ha creato
condizioni di siccità a valle. Sostiene poi che la gestione delle dighe a
monte, con improvvisi rilasci d’acqua, spiega anche le strane ondate di piena
viste in passato nella stagione secca, che hanno provocato inondazioni lungo la
frontiera laotiano-thailandese.
Toni da guerra fredda tra Cina e Usa
Lo studio
qui citato ha monitorato la situazione nel decennio dal 2010 al 2019, con una
metodologia che ha passato il vaglio di una peer-review (cioè la revisione di
idrologi e climatologi, che hanno trovato convincenti le conclusioni). Eye on Earth è un’istituzione privata, ma lo studio è
stato sostenuto dalla Lower Mekong Initiative, una “partnership multinazionale”
avviata dagli Stati uniti con Cambogia, Laos, Myanmar, Thailandia e Vietnam,
come si legge sul sito Mekongwater.org (fondato
dal Dipartimento di stato Usa).
Così non
stupisce che Pechino abbia risposto, più o meno con gli stessi strumenti. In
luglio un gruppo di istituzioni accademiche coordinate dalla Tsinghua
University, la più prestigiosa università statale cinese, ha pubblicato uno
studio secondo cui le dighe sul Lancang hanno un effetto positivo
nell’alleviare la siccità. «L’ultimo studio di ricercatori cinesi confuta i
nessi causali e le sprezzanti accuse di alcuni media statunitensi», osserva il “Global Times”,
media cinese in lingua inglese (Gli autori dello studio americano hanno poi
ribattuto con un commento sul
“Bangkok Post”, principale quotidiano thailandese in inglese).
I toni da
guerra fredda sono evidenti. Ciò non toglie che i dati raccolti da Eye on Earth
sembrano dare conferma a sospetti annosi.
Infatti è da
quando la Cina ha cominciato a pianificare una serie di sbarramenti tra le gole
del Lancang-Mekong, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che il malumore
dei paesi a valle è andato crescendo. Anche perché Pechino non ha condiviso
molto dei suoi progetti. La diga di Man Wan, la prima, costruita senza
consultare i vicini, è entrata in attività nel 1996 (fornisce energia elettrica
alla regione industriale di Kunming, capitale dello Yunnan). Poi la costruzione
si è intensificata; oggi le dighe sono undici, e altre sono in progetto. Il
governo della Repubblica popolare cinese le chiama la “cascata di dighe”. La
più imponente oggi è quella di Nouzhadu, entrata in attività tra il 2012 e il
2014. (Secondo l’analisi di Eye on Earth è proprio da allora che il volume
d’acqua trattenuto in territorio cinese è aumentato drasticamente).
Si capisce
il nervosismo dei paesi a valle: con le sue dighe, la Cina può controllare il
flusso d’acqua che raggiunge il basso Mekong. Senza contare che le dighe trattengono
una buona parte dei sedimenti indispensabili all’agricoltura, come sottolinea
un’organizzazione non governativa come International Rivers,
che lavora per la difesa degli ecosistemi fluviali.
Mekong River Commission, ma senza la
Cina
Del resto la
Cina (insieme a Myanmar) non ha mai voluto aderire alla Mekong River
Commission, nata nel 1995, prima e tuttora unica organizzazione stabile di
cooperazione regionale nella regione indocinese (il peso dei conflitti
indocinesi nell’ultima metà del Novecento è evidente). La Cina è riluttante
perfino a condividere le osservazioni delle sue centrali di monitoraggio
fluviale, cosa che fa solo in parte. Nel 2016 ha invece fondato il “suo”
organismo parallelo, chiamato Lancang-Mekong Cooperation Framework, con Laos,
Thailandia, Myanmar, Cambogia e Vietnam, per promuovere la cooperazione tecnica
– in un organismo però in cui è dominante, accusano i critici.
La Cina è un
vicino ingombrante, ma anche i paesi del basso Mekong si sono lanciati a
costruire dighe. In particolare il Laos, povero e stretto tra vicini più
potenti, ha fatto della produzione idroelettrica l’elemento portante della sua
strategia di sviluppo, e dalla metà degli anni Novanta ha costruito una decina
di impianti sugli affluenti del Mekong per esportare energia.
In questa
strategia ci sono due momenti chiave. Uno è nei primi anni Duemila quando la
Banca Asiatica di Sviluppo ha lanciato un programma regionale di infrastrutture
per la “Greater Mekong Subregion”, che include tutti i sei paesi rivieraschi.
Al centro del progetto ci sono corridoi stradali e una rete di trasmissione di
energia elettrica, oltre a progetti di sviluppo del commercio e del turismo.
Tutto alimentato da investimenti propiziati dalla Banca Asiatica di Sviluppo e
in parte la Banca Mondiale. In altre parole, la prima sede di “integrazione
regionale” non è stato un organismo di cooperazione intergovernativo, ma un
programma di investimenti gestito da organismi finanziari internazionali.
Inutile dire che una parte considerevole degli investimenti diretti in Laos e Cambogia
(le due economie più deboli della regione) sono di fonte cinese, oltre che
thailandese e vietnamita.
L’altro
momento chiave, per motivi diversi, è stato il 2006, quando i governi di Laos,
Cambogia e Thailandia hanno autorizzato i primi studi di fattibilità per
costruire dighe sul basso Mekong: non più gli affluenti, ma il fiume
principale. La cosa ha suscitato grandi controversie; non solo organizzazioni
ambientaliste ma perfino l’intergovernativa e prudente Mekong River Commission
ha pubblicato studi estremamente allarmati: sbarrare il fiume avrebbe creato
danni irreversibili all’intera vita fluviale, interrotto le vie di migrazione
dei pesci e il ciclo delle inondazioni. Un impatto mortale per il fiume, come
argomenta la più recente analisi di International
Rivers che riprende studi della Mekong Rivers Commission.
Nonostante
tutto, il Laos ha costruito la prima diga sul Mekong nella parte
centro-settentrionale del paese (diga di Xayaburi) e un’altra al confine
con la Cambogia presso le Siphandone – un punto dove il Mekong forma diversi
canali per aggirare una miriade di piccole isole, formando salti e rapide
spettacolari (da cui il nome: si-phan-don significa
“mille isole” in lingua lao). Altre dighe sul Mekong sono in progetto; almeno
tre progetti sono nella fase delle “consultazioni” presso la Mrc. Inutile dire
che in queste imprese si sono riscontrati forti investimenti cinesi, oltre che
di aziende thailandesi, sudcoreane, e altre.
Nel
frattempo il governo laotiano ha messo a tacere le conseguenze del disastro
avvenuto due anni fa con il crollo di una diga nel
sud del paese (la diga Xe-Pian Xe-Namnoy, di costruzione sudcoreana): 70
persone sono morte o disperse e 7000 sono sfollate, ma le richieste di giustizia sono
rimaste vane. Del resto, la sorte degli sfollati di tante dighe non è mai stata
all’ordine del giorno, per i governi della regione. Uniche buone notizie, per
il fiume: la Cambogia ha annunciato di
aver sospeso fino al 2030 ogni progetto di nuove dighe sul suo tratto del
Mekong, perché il fabbisogno energetico è ampiamente coperto. Mentre la
Thailandia ha sospeso il progetto di
dinamitare le rapide del fiume a nord per renderlo navigabile.
È una
piccola tregua per la “madre delle acque”. Perché a lavorare per ucciderla sono
in molti.
Marina Forti aveva già affrontato il corso del Mekong
più volte in varie pubblicazioni. Sul profilo linkedin di OGzero abbiamo
riproposto il saggio inserito nel volume collettaneo curato da C.
Alessandro Mauceri, Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse
idriche per mano dell’uomo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016.
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