(di Laura Scillitani)
L’Artide: un mare di ghiaccio circondato da terre emerse, un luogo dove sei
mesi sono immersi nella notte più buia e per i restanti sei il sole non scende
mai sotto la linea dell’orizzonte, un posto in cui il termometro sale sopra lo
zero per un tempo brevissimo. Poche sono le specie animali che trascorrono la
loro intera esistenza tra i ghiacci, la maggior parte è in costante movimento,
c’è chi si sposta nelle foreste boreali durante la notte artica, per tornare
nella tundra nella breve estate. Altri migrano per lunghissime distanze, come
la sterna artica, che ogni anno percorre circa 35 mila chilometri spostandosi
da un polo all’altro lungo le coste europee e africane.
Tutte queste specie hanno sviluppato straordinari adattamenti per
sopravvivere in queste terre inospitali, ma oggi sono minacciate da un drastico
e rapido cambiamento delle condizioni ambientali e climatiche nelle quali si
sono evolute. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle
Nazioni Unite il tasso di innalzamento della temperatura dell’aria
al Polo Nord è circa il doppio1 di quello medio
della terra. I ghiacci artici si assottigliano e ogni anno diminuisce la loro
estensione: proprio nell’autunno del 2020 è stata registrata la più bassa estensione dal 1979. Con lo
scioglimento dei ghiacci e del permafrost aumenta l’estensione della copertura
vegetale2, e cambia anche la composizione delle comunità vegetali.
«Gli animali selvatici hanno solo un paio di opzioni: possono spostarsi per
seguire le condizioni climatiche per loro ottimali, e se non ci riescono
morire, oppure possono evolversi» spiega Mark Hebblewhite, professore di ecologia
animale presso il wildlife ecology program dell’università del
Montana, dove coordina l’ungulate ecology lab.
Pensa in grande: studiare l’ecologia con i big data
Hebblewhite è tra i coordinatori di un importante ricerca volta a
comprendere come le specie animali stanno rispondendo ai cambiamenti
climatici, in termini di spostamenti, biologia riproduttiva e interazioni
interspecifiche, i cui primi risultati sono stati pubblicati su Science3,
a firma di ben 148 ricercatori. Lo studio non è certo il primo a mostrare gli
effetti dei cambiamenti climatici sulla fauna, ma la sua profonda innovazione e
potenza sta nella grande scala e nel numero impressionante di dati utilizzati.
Si basa infatti sull’ Arctic Animal Movement Archive (AAMA), un
database in continuo aggiornamento e che attualmente raccoglie i dati di
monitoraggio di 214 diversi progetti di ricerca sparsi in tutta l’Artide: più
di 12 mila individui appartenenti a 86 specie, e più di 43
milioni di localizzazioni dal 1988 ad oggi. Un progetto collaborativo
che coinvolge ricercatori di più di 100 università, ong e amministrazioni
locali e nazionali di ben 17 Paesi. «Forse il principale take-home
message di questo studio è che puoi ottenere grandissimi risultati su
scala mondiale condividendo i dati a livello internazionale»
racconta Hebblewhite. «Uno dei principali problemi nell’Artide è il rilascio
del metano dovuto allo scioglimento del permafrost: se tutto il metano
contenuto nel permafrost venisse liberato nell’atmosfera renderebbe impossibile
qualsiasi tentativo di fermare il riscaldamento globale. La NASA sta
monitorando la situazione, ed è interessata a comprendere come l’ecosistema
artico sta cambiando, fauna inclusa. La NASA pensa su grande scala,
per questo motivo hanno avviato un progetto, l’Artic-Boreal vulnerabily experiment per
studiare le conseguenze ecologiche dei cambiamenti climatici nell’intera
regione artica. Il mio ruolo iniziale era comprendere gli effetti dei
cambiamenti climatici sui caribù, grandi mammiferi importantissimi per
l’economia delle popolazioni locali e che migrano su vaste distanze. I dati dei
caribù sono stati il punto di partenza dell’Arctic Animal Movement Archive: ho
iniziato facendo una lista di tutte le istituzioni e organizzazioni che
monitorano i caribù e a contattarle, mettendo insieme un progetto
collaborativo. Poi, parlando con il dipartimento caccia e pesca dell’Alaska
abbiamo iniziato ad aggiungere i dati di monitoraggio di altre specie: orsi,
lupi, alci, pettirossi, aquile… pian piano il database ha iniziato a crescere,
grazie anche al supporto della NASA il cui approccio è quello di pensare in
modo globale. Con questa immensa mole di dati è stato necessario sviluppare un
database che permettesse di archiviarli e gestirli, e quindi abbiamo iniziato a
collaborare con Movebank, un database che raccoglie le
localizzazioni degli animali sviluppato dal Max Plank Institute in
Germania e finanziato dalla NASA, che ha inoltre messo a disposizione
gratuitamente tutti i dati raccolti dai sensori satellitari. La piattaforma è
cresciuta sempre più grazie all’immenso lavoro di networking fatto
da Sarah Davidson, primo autore dello studio pubblicato su Science».
Una minaccia per la sopravvivenza dei nuovi nati
I migratori passano gran parte della loro esistenza in movimento, alla
ricerca dell’ambiente a loro più favorevole per completare il loro ciclo
vitale. La migrazione ha sia una componente innata, che una più
plastica che risponde agli stimoli ambientali. La partenza è
influenzata da una serie di stimoli, come il fotoperiodo e la temperatura
dell’aria. Un’alterazione delle condizioni climatiche compromette quindi
le tempistiche delle migrazioni4, col risultato di
perdere il periodo più favorevole per l’arrivo a destinazione: ad esempio
partire in ritardo per lo svernamento e trovarsi così ad affrontare il viaggio
in condizioni climatiche avverse, oppure arrivare a primavera già inoltrata
invece che all’inizio della primavera. È il caso delle aquile reali:
l’analisi di circa 570 mila localizzazioni riconducibili a 146 individui
estratti dal database Arctic Animal Movement Archive mostrano
che, nel periodo 1995-2017, gli individui più giovani hanno anticipato il loro
arrivo nell’Artide quando gli inverni erano molto miti, ma questo non è
accaduto per le aquile più mature, i cui tempi di migrazione restano immutati,
con conseguenze per la sopravvivenza dei nidiacei.
«I caribù della tundra stanno diminuendo in
modo drammatico in tutta l’Artide: per alcune popolazioni si è passati nel giro
di una decade da branchi di centinaia di migliaia di animali a poche decine di
migliaia» racconta Mark Hebblewhite. «Ora, ci possono essere tante complicate
ragioni per cui le popolazioni stanno diminuendo, ma di certo un calo
della sopravvivenza dei piccoli è una di queste, è matematica: non ci può
essere un aumento nelle dimensioni di una popolazione senza il contributo dei
nuovi nati. Il mio amico Eric Post, che studia le popolazioni di renne in
Groenlandia, ha dimostrato5 che c’è uno sfasamento tra l’inizio
della primavera e l’arrivo dei caribù ai territori estivi e questo ha delle
ripercussioni sulla sopravvivenza dei piccoli». I caribù possono percorrere
anche 5000 Km l’anno e ogni primavera arrivano nella tundra artica, nelle
pianure costiere, per partorire. C’è un perfetto sincronismo tra le nascite e
l’inizio della primavera, perché le femmine possano nutrirsi delle erbe più
fresche, che forniscono un maggior apporto energetico per guadagnare peso e
assicurare un latte altamente nutriente ai loro piccoli. In uno studio
pubblicato su Ecosphere6 il team di ricerca di Hebblewhite ha
analizzato le migrazioni effettuate dal 1995 al 2017 di 1000 caribù
appartenenti a 7 diversi branchi. I risultati mostrano che le date di partenza
sono collegate alle temperature invernali e che la durata del viaggio è molto
variabile, ma la data di arrivo è influenzata dalla sola data di parto. «I
caribù possono modificare la partenza, possono cambiare la velocità di marcia,
ma non possono scegliere quando partorire. La data del parto nei
mammiferi è fortemente controllata dall’evoluzione, un animale non può
semplicemente dire “oh fa più caldo, devo anticipare il parto”. Il problema dei
cambiamenti climatici non è solo il trend di innalzamento delle temperature, ma
anche la grandissima variabilità delle condizioni
metereologiche. Quindi un anno, al loro arrivo, i caribù potrebbero trovare
caldo e pioggia, e l’anno successivo trovare -14°C».
Se con l’aumento di temperatura aumenta la copertura vegetale, si potrebbe
pensare che questo possa compensare il problema dello sfasamento tra l’arrivo
dei caribù ai territori di parto e l’inizio della primavera, ma non è così
semplice, senza contare che il caldo non favorisce solo la vegetazione, ma
anche gli insetti. «È difficile spiegare a chi non è mai stato nell’Artide
l’effetto che possono avere gli insetti ematofagi» racconta Hebblewhite. In
inglese si parla di insect harassment, letteralmente
il tormento degli insetti: «ci sono così tante specie di insetti
ematofagi, alcuni depositano le uova nel naso e sotto la pelle dei
caribù. A volte l’infestazione è tale da farli morire:
ho un video fatto da un collega che mostra un piccolo che mentre cammina si
accascia morente al suolo a causa degli insetti. I caribù contrariamente alle
altre specie di ungulati non hanno problemi a sopravvivere all’inverno, perché
sono specie circumpolari perfettamente adattate al freddo. Ma dipendono
dalla piccola finestra estiva, perché è in quel periodo che devono
accumulare le riserve di grasso per tutto l’anno. Per sfuggire agli insetti
devono muoversi costantemente, e questo ovviamente impedisce loro di
alimentarsi. Abbiamo utilizzato dei radiocollari GPS con una telecamera
integrata che hanno mostrato chiaramente che gli insetti impediscono loro di
mangiare. Quindi se l’aumento delle temperature favorisce gli insetti, è un
ulteriore dramma per i caribù».
“It’s evolution, baby”
Le analisi appena pubblicate su Science mostrano qualcosa di sbalorditivo:
un cambiamento nella biologia riproduttiva dei caribù. I
ricercatori hanno analizzato, per il periodo 2000-2017, 1630 date di parto di
917 caribù appartenenti a 5 diverse popolazioni e a due sottospecie: i caribù o
renne della tundra e quelli di foresta. Ad eccezione delle renne della tundra,
tutte le popolazioni hanno progressivamente anticipato la data di
parto nel corso di questo ventennio, in media di un giorno in meno
all’anno, quindi con un anticipo di venti giorni in vent’anni. «Quando abbiamo
visto i risultati delle analisi all’inizio eravamo increduli: ma il dato è
molto chiaro e inconfutabile, perché si parla di 1600 parti distribuiti in
tutta la regione artica. Il potere di elaborare una grande mole di dati non è
solo statistico, ma anche inferenziale. La cosa interessante è che hanno
osservato un andamento simile7 per i parti nella popolazione di
cervi dell’isola di Rhum in Scozia, dove c’è stato un anticipo dei parti di
mezza giornata all'anno negli ultimi quarant’anni. E poiché si tratta di una
delle popolazioni
animali meglio studiate, con una lunga serie storica di dati e
i pedigree di tutti gli individui, sono riusciti a verificare
che gran parte di questa variazione è di natura evolutiva. Questi
cambiamenti potrebbero essere una buona come una cattiva notizia. Quella buona
è che sembrerebbe che i caribù stiano rispondendo ai cambiamenti
climatici. Il grande interrogativo è: sono sufficientemente
veloci? La potenziale cattiva notizia è che non lo siano abbastanza.
Nell’artico il passaggio da inverno a primavera è immediato, quindi immaginiamo
le femmine che hanno anticipato di un giorno il parto che arrivano e sono
comunque in ritardo di due settimane».
Le barriere antropiche nella frontiera
dell’artico
«La seconda più grande conseguenza dei cambiamenti climatici nell’Artide
è l’aumento dello sviluppo delle infrastrutture antropiche»
racconta Hebblewhite. «In nord America un tempo c’erano letteralmente solo due
strade che collegavano il sud con il mare glaciale artico, e queste strade
avevano già diversi effetti negativi per la fauna, che sono stati documentati.
Ma ora si parla di decine di nuove strade da costruire, strade
asfaltate, da usare tutto l’anno e che portano a grandi porti commerciali.
Nella storia umana passare lo stretto di Bering in nave era semplicemente
impossibile. L’impero inglese ha provato per secoli a farlo, ma tutte le
persone coinvolte nell’impresa sono morte congelate. Oggi non è più così: lo
stretto di Bering è la via più veloce che connette via mare Cina e Nord Europa.
E ora si pensa a fare un nuovo grande porto commerciale, e
ovviamente nuove strade per arrivarci. E queste strade passano giusto
attraverso le aree di parto dei caribù della tundra, di popolazioni in costante
calo demografico. Le popolazioni di caribù della tundra hanno delle
fluttuazioni cicliche. Quindi potrebbe essere che l’attuale diminuzione sia in
parte effetto dei cicli naturali, ma di certo è molto complicato per loro
aumentare di numero in questo momento storico. Oggi sono minacciate dal
riscaldamento globale, la caccia durante tutto il corso dell’anno, le strade,
le attività produttive industriali come l’estrazione di petrolio e le miniere
di diamanti, una delle più grandi all’interno dell’areale storico dei caribù. È
una supposizione un po’ azzardata dire che i caribù possano convivere ed
esistere con una tale pressione antropica. I caribù sono in grado di
vedere le radiazioni UV, quindi un semplice elettrodotto lo vedono
brillare, non è strano che questo li spaventi. E vedono i raggi UV perché
l’evoluzione li ha resi perfettamente adatti a vivere nella notte polare. Un
mio studente di dottorato sta studiando gli effetti del disturbo antropico con
i dati di Arctic Animal Movement Archive, ma altri studi dimostrano
che già a 10-20 m di distanza i caribù avvertono l’attività umana e la
evitano».
I
cambiamenti a due passi da casa
Un altro studio del gruppo di ricerca di Hebblewhite pubblicato questo anno
su Movement ecology8 mostra che in risposta a un aumento delle
temperature gli alci cambiano l’uso degli habitat: cercano i posti
con una vegetazione più fitta, o le zone umide, alterando quella che sarebbe la
loro normale distribuzione. Lo studio pubblicato su Science dimostra che specie
diverse di grandi mammiferi rispondono in modo differente all’aumento delle
temperature: alcune modificano l’estensione dei propri movimenti, e questo può
alterare le interazioni tra specie e persino le catene alimentari, con effetti
sia sui predatori che sulle prede.
Non serve però spingersi nel circolo polare artico per vedere gli effetti
del riscaldamento globale sulla fauna, basta andare sulle nostre Alpi.
«Dal 1993 ad oggi la popolazione di stambecco del Parco Nazionale del Gran
Paradiso ha iniziato a mostrare un trend negativo, si è pressoché dimezzata»
spiega Francesca Brivio, ricercatrice presso il
dipartimento di scienze veterinarie dell’Università di Sassari, «le cause
esatte di questo declino non si conoscono ancora con esattezza, ma una prima
ipotesi formulata è una desincronizzazione tra il periodo dei parti e di
allattamento dei piccoli e la disponibilità delle risorse trofiche di migliore
qualità. L’aumento delle temperature anticipa lo scioglimento delle nevi e
quindi l’inizio delle primavera, oltre ad accorciarne la durata». Brivio è
prima autrice di un articolo pubblicato nel 2019 su Nature Scientific Reports9 che
mostra con un modello predittivo una riduzione nell’immediato futuro
dell’areale distributivo dello stambecco alpino, proprio legata a un
alterato uso dell’habitat e delle risorse dovuto all’innalzamento delle
temperature. «Le previsioni dei nostri modelli dicono che nella più ottimistica
delle ipotesi, ovvero se le attività antropiche che causano il riscaldamento
globale rimarranno stabili, nel giro di 90 anni l’estensione delle aree
utilizzate dallo stambecco sarebbe meno della metà di quella che stanno
utilizzando attualmente. Se si pensa invece a uno scenario più pessimistico,
cioè a un incremento delle attività antropiche che causano il riscaldamento
globale, la previsione è che in 90 anni gli stambecchi saranno presenti in un
terzo dell’areale attuale» spiega Brivio. Come i caribù sono adattati
all’ambiente circumpolare, così gli stambecchi si sono evoluti per il clima
delle alte vette alpine: «lo stambecco ha un colpo tozzo e compatto, un pelo
scuro e molto isolante, un alto ematocrito, accumula uno spesso strato di
grasso sottocutaneo e non ha ghiandole sudoripare: sono tutti adattamenti che
gli consentono di combattere le rigide temperature degli inverni in alta quota,
ma che al contempo lo rendono molto sensibile al caldo. Lo stambecco utilizza
una termoregolazione comportamentale: ovvero nelle ore più calde riduce
l’attività e si riposa in luoghi più freschi. Ma nell’ambiente in cui vive i
posti che lo mettono al riparo dal caldo non coincidono con quelli dove la
qualità del pascolo è migliore, quindi con un aumento delle temperature medie
lo stambecco tenderà a spostarsi verso altitudini più elevate, dove però ha
meno possibilità di reperire le sostanze energetiche necessarie per il proprio
sostentamento, e proprio nei mesi critici per l’accumulo delle riserve
necessarie per superare l’inverno».
Una finestra sul futuro
Una vita in movimento. Questa GIF dell'Arctic Animal Movement Archive mostra il ruolo fondamentale dell'Artide per molte specie migratrici.
Immagine © 2020 Davidson et al. (Science)
«Le persone possono pensare: “perché dovrei preoccuparmi di cosa succede
nell’Artide?”. Tutte le specie cha vanno avanti e indietro dalla regione artica stanno
modificando le tempistiche delle loro migrazioni, durante le quali attraversano
molti territori, e l’Italia ad esempio è un importante corridoio di migrazione10.
Quindi se pensiamo alle implicazioni su scala globale vediamo chiaramente che i
rapidi cambiamenti che si stanno verificando nell’Artide hanno un
impatto anche su di noi che viviamo più a sud, perché sta modificando i
pattern di migrazione» conclude Mark Hebblewhite. «Sappiamo che nell’Artide la
velocità dei cambiamenti climatici è doppia rispetto alla media mondiale, e
questo significa che la situazione artica è una finestra sul nostro
futuro: stiamo assistendo a qualcosa che tra 20, 40 anni si verificherà
anche nelle latitudini in cui viviamo. E dovrebbe essere una chiamata alle
armi, dovremmo allarmarci tutti per quello che sta succedendo. Più
a sud magari ancora non vediamo i cambiamenti, ma se iniziamo a impostare
archivi di big data come l’Arctic Animal Movement Archive avremo una base di
dati solida con cui osservare e documentare i cambiamenti che si verificano. La
cosa più importante di questi studi è quella di portare evidenze di questi
drammatici cambiamenti ai Governi e spingerli a fare qualcosa. Le persone che
vivono nell’Artide vedono la situazione con i loro occhi ma da sole non possono
fare niente per fermare il riscaldamento globale, chi può e deve fare qualcosa
sono quelli che non vivono nell’Artide ma in Nord America, in Europa e in
Asia».
Note
1. IPCC. Special
report on the ocean and cryosphere in a changing climate. Chapter 3:
Polar regions
2. Berner, LT., et al. Summer warming explains widespread but not uniform
greening in the Arctic tundra biome. Nature communications, 2020
3. Davidson, S. C., et al. Ecological insights from three decades of animal movement
tracking across a changing Arctic. Science, 2020
4. Mayor, Stephen J., et al. Increasing phenological asynchrony between spring
green-up and arrival of migratory birds. Scientific Reports, 2017
5. Post, E. e. Forchhammer M.C. Climate change reduces reproductive success of an Arctic herbivore
through trophic mismatch. Philosophical Transactions of the
Royal Society B: Biological Sciences,2008
6. Gurarie, E., et al. Tactical departures and strategic arrivals: Divergent
effects of climate and weather on caribou spring migrations.
Ecosphere, 2019
7. Bonnet, T., et al. The role of selection and evolution in changing
parturition date in a red deer population.PLoS biology, 2019
8. Jennewein, J.S., et al. Behavioral modifications by a large-northern herbivore to
mitigate warming conditions. Movement ecology, 2020
9. Brivio, Francesca, et al. Forecasting the response to global warming in a
heat-sensitive species. Scientific reports, 2019
10. In Italia ISPRA con 30 anni di
monitoraggio degli uccelli migratori in Italia ha osservato che molte specie stanno anticipando la data di migrazione
primaverile in risposta ai cambiamenti climatici
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