(attenti alla data)
13 agosto 2020
Il turismo è
un danno. Non è una voce significativa dell’economia sarda, se non nel senso
che la condiziona pesantemente, ben al di là della ricchezza netta che produce
sull’isola.
Le
misurazioni economiche, prese in grande considerazione dai mass media e dalla
politica (beninteso, selezionando quelle che fanno comodo), sono qualcosa di
simile a una superstizione. Eppure, anche le loro feticistiche risultanze
assegnano al turismo – come settore economico – un ruolo sostanzialmente
marginale, in Sardegna.
Se teniamo
conto solo del PIL, siamo sotto il 10%, a volte sensibilmente sotto. Possiamo
aggiungerci un po’ di indotto diretto e indiretto, qualcosa di “sommerso” o di
“informale” (vendite dirette ed esentasse di beni di consumo ai turisti, per
esempio), ma le dimensioni non cambiano di tanto.
E questo
senza considerare le magagne, quelle che gli economisti che ne sanno tendono a
catalogare come “esternalità” (perché non entrano nella composizione dei prezzi
e non incidono sulle variabili che loro scelgono per i propri calcoli). Per
esempio, l’aumento della spesa pubblica per smaltimento rifiuti, gestione di
acque nere e acque reflue, il traffico automobilistico e i problemi connessi,
il consumo dei luoghi e delle risorse, le spese di recupero dei turisti
distratti, e via elencando.
Per di più,
una parte consistente del reddito prodotto dal turismo in Sardegna non resta
affatto in Sardegna. I grandi gruppi alberghieri non hanno la loro sede fiscale
sull’isola, così come anche le altre grandi aziende del settore (in primis, i
trasporti). I profitti prodotti in Sardegna dal flusso turistico sono dunque una
frazione, e non sempre la più grande, del totale. In Sardegna restano salari da
fame e qualcosa nel commercio e nell’accoglienza (con una notevole incidenza
delle case in locazione, ossia della pura rendita).
Inoltre
bisogna valutare le distorsioni e le conseguenze sociali e culturali di natura
più strutturale che la dipendenza dal turismo genera. Su questo tema da anni si
sono accumulati studi di varia collocazione disciplinare che mettono in
discussione il modello stesso del turismo consumista così come si è imposto
dalla seconda metà del Novecento a oggi.
La pretesa
che la Sardegna “viva di turismo”, come spesso si sente pontificare da
“esperti” più o meno probabili (ma sempre ascoltati), è dunque una sciocchezza.
O qualcosa di peggio, in alcuni casi.
Guardando
alla faccenda dentro la cornice della pandemia e delle sue conseguenze, non si
può non rilevare, con amarezza, che nemmeno questa circostanza drammatica ed
eccezionale ci ha insegnato qualcosa. In Sardegna per settimane si è temuta la
crisi del settore turistico, si sono fatti discorsi a volte anche abbastanza
seri sulla necessità di rivedere paradigmi, riorganizzare il settore,
riflettere sulla sua portata e sulla sua natura, salvo dimenticare tutto ai
primi sbarchi consistenti di forestieri da aerei e traghetti.
L’orgia
della settimana di ferragosto sta spazzando via ansie e preoccupazioni per il
futuro, come la sospirata dose di eroina mette a tacere i campanelli d’allarme
di un organismo debilitato dalla dipendenza.
Solo che
l’effetto della dose sarà breve, se non brevissimo, e dopo ci ritroveremo punto
e a capo, ma più poveri e con gli stessi problemi di sempre.
Per altro,
anche qui si riconosce un sintomo di subalternità strutturale, quando le
preoccupazioni generalizzate sono rivolte agli effetti di eventuali nuove
chiusure causa virus sulle attività ricreative e turistiche, mentre si sorvola
sul divieto ancora vigente di svolgere sagre e feste patronali, di celebrare
ricorrenze tradizionali, mettendo in atto – come è successo in modo plateale e politicamente
significativo con l’Ardia di Sedilo del
luglio scorso – una militarizzazione del territorio “mirata” (ossia, rivolta
alla popolazione locale).
Il che vale
anche per i disservizi e i problemi concreti a cui siamo purtroppo più
abituati, ma che vengono a galla solo quando incidono sulla stagione turistica.
Così i trasporti esterni e interni sono un vero problema solo quando toccano i
flussi di vacanzieri, idem per la condizione delle strade, o per le carenze di
illuminazione pubblica, o di arredi urbani, o per le magagne della rete idrica.
Per restare
su questo terreno con un esempio, in questi giorni a Nuoro manca l’acqua. In pieno agosto, in giornate
torride. Non mi interessa nemmeno sapere a cosa sia dovuto il disservizio,
certo è che è una cosa inaccettabile. Anche perché Abbanoa, il gestore pubblico
(?), non è che brilli per tempestività e chiarezza nell’informazione alla
cittadinanza (a parte il resto). Ma Nuoro, evidentemente, non conta gran che,
come meta turistica.
È un
episodio specifico che spiega bene cosa siano la dipendenza e la subalternità,
quando entrano a far parte in modo costitutivo della stessa amministrazione
della cosa pubblica, dei beni essenziali, dei servizi vitali ai cittadini e
della percezione che i cittadini stessi, spesso, hanno di queste cose.
La
preoccupazione della politica (spinta dai gruppi di interesse più robusti) e
degli stessi mass media non è mai rivolta alle esigenze e i problemi strutturali
che affliggono la Sardegna. Che sono considerati inevitabili e tutto sommato
attribuibili a colpe ancestrali dei sardi stessi. Come sappiamo, discendono
invece da una gestione politica essenzialmente clientelare e cialtronesca. Ma
in questo senso non sono mai un problema.
A tutto ciò
si sommano, come una sorta di piaga biblica ricorrente, le stagionali
dichiarazioni di vip e influencer assortiti, amanti della loro bella “isoletta
africana” (cit.). Se non ne
rilasciano di propria iniziativa, i nostri mass media sono subito pronti a
sollecitarle.
Persino
laddove si intravveda una sincera intenzione di essere benevoli con la Sardegna,
emerge, non tanto in controluce a dire il vero, il paternalismo del buon
colonialista. Esempio tipico e sempre molto in voga, quello di Beppe
Severgnini, editorialista ed opinionista che gode di moltissima considerazione
in Italia e ovviamente ancor di più nel possedimento d’oltremare sardo.
Poco importa
se le sue dichiarazioni siano costantemente infarcite
di fastidiosi luoghi comuni e a volte di vere e proprie corbellerie (studiare
un po’ di storia, ma seriamente, please!).
Non mancano
mai anche altre perle. A cui si risponde come si può, dentro i meccanismi del
gioco social, senza però cambiare nulla nella nostra condizione di fatto.
Sollevare
dubbi e muovere obiezioni su questo terreno è sempre mal visto
dall’establishment politico-affaristico nostrano, salvo quando non ci sia da
fare un po’ di gazzosa e di propaganda a buon mercato (come nella querelle
tardo-primaverile tra il presidente Solinas e il sindaco di Milano Sala).
L’intellettualità sarda con voce in capitolo dorme o è in vacanza o parla
d’altro. Chiedersi il perché è ormai un esercizio stucchevole.
Fatto sta
che tutto questo è ampiamente condizionato dal peso che siamo soliti dare al
turismo nel discorso pubblico, al di là delle evidenze fattuali e di qualsiasi
analisi ragionevolmente lucida e onesta della situazione.
Finché non
capiremo che prima di tutto è necessario garantire ai residenti in Sardegna
servizi decenti, trasporti, cultura, diritti, non risolveremo mai la questione.
Da lì bisogna cominciare. È l’unica condizione necessaria affinché anche il
settore turistico diventi qualcosa di diverso e di finalmente virtuoso,
incastonato in un contesto economicamente vitale, socialmente più giusto e
politicamente emancipato.
Altrimenti,
le cose resteranno come sono e il turismo continuerà ad essere solo un elemento
di distorsione socio-economica, di subalternità politica e culturale e anche,
per molti versi, un mezzo di distrazione di massa.
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