Ho deciso di prendermi un’ulteriore settimana di vacanza dai temi
riguardanti la pandemia. E lo faccio ponendomi, e ponendovi, una domanda in
apparenza peregrina: che cosa vuol dire “essere autentici”?
Cercando risposte, alla fin fine torneremo a parlare anche di pandemia. Ma,
magari, avendo raccolto un paio di idee in più lungo il percorso.
Dunque. Viviamo per la maggior parte del tempo in ambienti artificiali.
Frequentiamo mondi virtuali. Ci sforziamo di corrispondere a una quantità di
attese riguardanti la forma fisica, il successo e il gradimento sociale.
Proviamo ad accordarci a una mole ugualmente grande di strampalati imperativi,
espliciti o impliciti – da “dimostra meno anni di quelli che hai” a “guadagnati
più like su Facebook”. Siamo bersagliati dalle notizie false e facciamo fatica
a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
Gerarchie ripensate
E magari ogni tanto ci capita di pensare che niente di tutto ciò ha davvero a
che fare con noi. Con quello che siamo. Magari ci capita di pensarci più
spesso, in questo periodo strano in cui molti dei nostri comportamenti
abituali, e anche molti dei nostri automatismi più consolidati, hanno dovuto
subire drastici cambiamenti. E in cui le gerarchie di priorità che abbiamo date
per scontate, e alle quali ci siamo adeguati senza troppo pensarci, non
appaiono più così granitiche e inconfutabili.
Sembra che, per gli psicologi e per diversi filosofi del novecento,
l’essere “autentici” abbia a che fare con il mantenere uno stretto contatto con
i propri valori, con le proprie esperienze, con la propria storia personale,
con i propri desideri. E nel comportarsi di conseguenza, a prescindere da
quanto forte sia la pressione sociale a conformarsi. In sostanza, e per dirla
in modo molto, molto sbrigativo, tra autentico e inautentico correrebbe lo
stesso discrimine che c’è tra profondo e superficiale, tra interiore ed
esteriore, originale/creativo e artefatto/stereotipato. E tra sincero e
insincero.
Eppure l’autenticità continua ad apparire come un concetto elusivo. Per
provare a delineare un po’ meglio la questione, Michael H. Kernis e Brian M.
Goldman, due ricercatori dell’università della Georgia, pubblicano nel 2006 una
ricerca ampia e citatissima, intitolata _A multicomponent conceptualization of autenthicity__, theory and research._
Partono da Socrate e Aristotele per arrivare a Nietzsche e a Kierkegaard, a
Heidegger e a Sartre, e devo dire che raramente in un lavoro di tema
psicologico ho visto citati tanti filosofi. E poi suggeriscono che ciò che
chiamiamo autenticità non sia un costrutto unitario, ma il risultato
dell’interazione di quattro componenti: consapevolezza di sé, elaborazione
obiettiva (unbiased processing), comportamento, orientamento relazionale.
Tutto ciò, in estrema sintesi, significa conoscere se stessi, anche nei
lati meno luminosi (è la precondizione per riuscire a lavorarci sopra). E poi:
saper ragionare su se stessi in modo obiettivo, senza farsi illusioni e senza
attivare meccanismi di autodifesa che distorcono la realtà. E ancora: scegliere
di comportarsi in modo onesto e naturale, in accordo con i propri sentimenti e
le proprie inclinazioni (attenzione: autenticità non significa cercare il
proprio vero sé in modo compulsivo) e senza sentirsi obbligati a compiacere gli
altri per ottenere ricompense di qualsiasi tipo. Infine, essere aperti,
sinceri, affidabili nelle relazioni e capaci di intimità nelle relazioni più
strette.
Imparare a raccontarcela giusta
Dopo aver verificato l’efficacia di questo modello, Kernis e Goldman vanno a
indagare i vantaggi dell’”essere autentici”. E verificano che c’è una buona
correlazione positiva con una maggior resistenza allo stress, con una migliore
capacità di pianificare e affrontare problemi, con una minore competitività,
con una maggiore indipendenza e una più consistente autostima. In generale, con
un maggior benessere psicologico, e con una maggior sensazione soggettiva di
benessere.
Due dettagli interessanti: le persone più autentiche tendono anche a
interpretare in modo più benevolo o a minimizzare comportamenti del partner che
potrebbero essere letti anche in chiave negativa. E sono di norma genitori più
autorevoli e meno autoritari.
L’idea di “vivere una vita autentica” sta davvero diventando popolare, se
anche il Sole24 Ore, che di solito si occupa di questioni assai diverse, dedica
un lungo articolo, che merita di essere
letto, a “uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano: la comprensione
profonda del proprio ‘io’ e del suo posto nel mondo”. E sottolinea “che il
valore di sé è, prima di tutto, valore nei confronti della nostra stessa
coscienza”. Insomma: dovremmo imparare a raccontarcela giusta, a proposito di
noi stessi e del nostro stare nel mondo.
Per chi volesse misurarsi direttamente con la questione dell’essere
autentici, Huffington Post propone, a partire da un’altra ricerca prodotta da tre
università (Harvard, Columbia, Northwestern), un elenco di dieci abitudini inconfondibili delle persone autentiche. Può valere
la pena di dare un’occhiata.
Il punto più interessante, credo, è il numero 8, e riguarda la qualità
della motivazione. Cioè dell’energia che ci anima in quello che facciamo.
Ci sono due tipi di
motivazione: quella esterna, o estrinseca, è attivata dal desiderio di ottenere premi
(soldi, riconoscimenti) o di evitare punizioni. Quella interna, o intrinseca, è
attivata dalla sensazione che ciò che facciamo va bene, è giusto e ha un senso
per noi. La motivazione intrinseca, molto più potente, sembra appartenere alle
persone autentiche.
Esercizio radicale
Sull’essere autentici, tuttavia, restano moltissime questioni aperte. Scientific American ne elenca alcune. Per
esempio: siamo più autentici quando nel comportamento seguiamo le nostre
emozioni, o quando ci accordiamo ai nostri valori? Ed è possibile che ci
consideriamo più “autentici” semplicemente quando ci sentiamo più calmi,
liberi, amorevoli ed entusiasti?
In sostanza, le persone sarebbero troppo complicate, sfaccettate e spesso
conflittuali per poter valutare l’autenticità di qualcuno alla luce di un suo
(forse inafferrabile) “vero sé”. D’altra parte, perseguire una condizione in
cui ci sentiamo calmi, amorevoli, liberi ed entusiasti non sembra poi così
male.
A chi volesse sciogliere velocemente ogni dubbio, Psychology Today propone
un esercizio radicale di autenticità e consapevolezza (e anche un buon rito scaramantico): “Scrivi il tuo necrologio. Che cosa ci
metti dentro?”.
L’articolo è recentissimo, e si può pensare che la bizzarria della proposta
rifletta anche lo spirito del tempo, e l’esperienza che tutti stiamo vivendo.
Di fatto, la pandemia ci mette a stretto confronto con la nostra fragilità
e con la nostra finitezza. Potremmo trovare un esito fertile e produttivo,
però, nella misura in cui tutto questo ci invita anche a ragionare su qual è la
nostra parte più vera, a capire dove sta, e che cosa vorrebbe.
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