In Europa la crescita economica, strettamente dipendente dall’aumento di
produzione e dal consumo delle risorse, ha generato e continua a generare
effetti dannosi sull’ambiente naturale, erodendo la biodiversità, alterando la
stabilità climatica, la salute e il benessere umano. Gli attuali modelli
prevalenti di produzione e consumo non sono più sostenibili.
Sono questi alcuni dei messaggi chiave che emergono dal rapporto
dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) “Crescita senza crescita economica” pubblicato nel
2021. Messaggi molto rilevanti poiché per la prima volta un’istituzione europea
conferma che non possiamo avere una crescita senza fine in un pianeta finito
ovvero con risorse limitate.
L’unica soluzione a disposizione dei decisori politici è ripensare e
immaginare un’idea nuova di progresso. Partendo da questa convinzione, l’EEA ha
avviato un insieme di studi prospettici sui fattori di transizione e le
narrative per il cambiamento.
Nel dibattito online svoltosi il 22
febbraio scorso si sono riuniti responsabili politici, ricercatori e organizzazioni
della società civile per discutere i risultati del rapporto dell’EEA. Al
dibattito, tra gli altri, hanno partecipato Hans Bruyninckx, Direttore dell’EEA
e il consigliere di Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea,
nonché vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo e il
contrasto ai cambiamenti climatici.
Nel corso del dibattito sono stati presentati i principali risultati
scientifici di questo studio di briefing e si è discusso di
come questi possono o dovrebbero contribuire a plasmare le decisioni prese a
livello dell’UE e degli Stati membri. I messaggi chiave del Rapporto dell’EEA
sono i seguenti.
§
È in corso la ‘Grande Accelerazione’ della perdita di biodiversità, del
cambiamento climatico e delle varie forme di consumo di risorse e inquinamento.
Essa è strettamente collegata alle attività economiche e alla crescita
economica ed è quindi di natura totalmente antropica.
§
Numerose evidenze scientifiche dimostrano, con studi globali su decenni,
che il cosiddetto “disaccoppiamento” completo e durevole tra crescita economica
e consumo di risorse/inquinamento non sarebbe possibile, nonostante esso
costituisca il quadro di riferimento principale delle politiche ambientali
europee e internazionali (Wiedmann et al., 2015; Magee e Devezas,
2016; Ward et al., 2016; Schandl et al., 2017; Hickel e
Kallis, 2019; EEB, 2019; Vadén et al., 2020).
§
La circolarità dell’economia al 100% è fisicamente impossibile, si può
parlare al più di “quasi-circolarità”. L’economia “circolare” potrebbe non
portare verso la sostenibilità se le misure di circolarità continueranno ad
alimentare la crescita economica portando all’aumento del consumo complessivo
di materiali.
§
L’economia della ciambella (Raworth, 2017), del benessere (Fioramonti,
2016), della semplicità e sufficienza (Alexander, 2015; Trainer, 2020), la
post-crescita (Daly, 2014; Jackson, 2021), la decrescita (Demaria et
al., 2013) sono alcune delle alternative alle concezioni economiche più
comuni e preponderanti fondate sulla crescita e offrono preziose
interpretazioni e intuizioni per ripensare e riorganizzare il progresso.
§
Il Green Deal europeo e altre iniziative politiche per un
futuro sostenibile richiedono non tanto soluzioni tecnologiche che aumentano il
consumo di risorse, ma soprattutto cambiamenti nelle pratiche sociali e nei
modelli di produzione e consumo.
§
La crescita è radicata culturalmente, politicamente e istituzionalmente (la
fede e la dipendenza da essa sembra tutt’altro che scalfita anche dalla crisi
del Covid-19). Il cambiamento richiede di affrontare queste barriere in modo
democratico. In questo senso le tante comunità che vivono in modo semplice
offrono ispirazione per l’innovazione sociale.
I nuovi studi prospettici dell’EEA evidenziano come sia prioritario affrontare
il cambiamento con un approccio olistico che adotti la scienza della
complessità, la prevenzione, la transizione e trasformazione strutturale, l’ecosystem
based management (EEA, 2017, 2018, 2019, 2020a, 2020b).
Tra gli studi prospettici in cantiere, uno di prossima pubblicazione,
denominato “Agriculture as care”, riguarda i sistemi alimentari, basi di ogni
attività economica. Questi risultati europei trovano ottima assonanza con gli studi che anche in Italia si stanno conducendo dal 2017 sulla
resilienza dei sistemi alimentari secondo il paradigma socioecologico e
transdisciplinare tratteggiato ora anche dalle analisi prospettiche dell’EEA,
andando oltre i singoli schemi: quello dell’uso efficiente di risorse e quello
della sicurezza alimentare.
In particolare lo studio sistemico dello spreco alimentare individua
proprio nei modelli di sovrapproduzione economica (EU DG Research, 2020; EEA,
2021) e nelle disuguaglianze (EEA, 2019; 2020a) le cause primarie dei suoi
enormi impatti ambientali, sociali e sulla sicurezza alimentare (Moore, 2010;
Hickey e Ozbay, 2014).
SISTEMI ALIMENTARI OPPRESSIVI E FRAGILI
I sistemi alimentari odierni determinano infatti enormi pressioni su tutte
le sfere ambientali e in particolare sulla biosfera, da cui dipende il loro
funzionamento.
I sistemi alimentari industriali guidati dai modelli economici prevalenti
(e dalla disponibilità di combustibili fossili a prezzo relativamente basso)
sono i maggiori fattori di superamento dei limiti ecologici planetari e delle
relative soglie di sicurezza, con le attività legate alla zootecnia intensiva
come principale determinante delle diverse tipologie d’impatto (Steffen et
al., 2015; Willett et al. 2019; Rockströmet al.,
2020). I
l superamento di questi limiti comporta forti instabilità sociali ed
economiche. Per la perdita di integrità biologica (stimata sulla base della
velocità di estinzione delle specie) potrebbe già largamente essere avvenuto il
superamento sia della soglia di sicurezza che dell’ancor più allarmante soglia
di incertezza e forse di non ritorno.
I sistemi alimentari sono i principali responsabili di superamento della
maggior parte dei limiti planetari (Campbell et al., 2017;
Gordon et al., 2017) quali l’alterazione dei cicli naturali dei
nutrienti-fertilizzanti azoto, fosforo e potassio, il consumo eccessivo di
suolo (per la cui gestione è urgente un’equa regolamentazione) e di acqua (per
cui le previsioni di disponibilità sono inquietanti), mentre il loro contributo
al cambiamento climatico arriva fino a circa un terzo del totale, considerando
anche gli effetti indiretti (IPPC, 2019; Crippa et al., 2021) e con
fabbisogni energetici crescenti.
I sistemi alimentari incidono per circa un terzo sull’impronta ecologica
mondiale che è di circa 2,8 ettari globali pro capite ovvero 1,6 volte la
biocapacità disponibile sul pianeta (GFN, 2021), con grandi squilibri (per
esempio gli USA hanno un’impronta pro capite 10 contro 1 dell’India).
I sistemi alimentari impegnano da soli circa metà della biocapacità
globale. In parallelo i sistemi alimentari sono tra i maggiori imputati dello
sviluppo di epidemie zoonotiche tramite i loro impatti sugli ecosistemi (IPBES,
2020; Di Marco et al., 2020; Wallace, 2016, 2020) e co-fattori
di più ampie sindemie (Horton, 2020) essendo responsabili di
gravissimi squilibri sanitari che coinvolgono la maggior parte delle persone
nel mondo, molto spesso associati a guerre e migrazioni. Incrociando infatti i
dati delle organizzazioni delle Nazioni Unite (FAO, IFAD, UNICEF, WFP e WHO)
emerge come circa due terzi della popolazione mondiale soffra di gravi e spesso
opposti squilibri nutrizionali: 12% denutrito, 27% malnutrito, 27%
sovralimentato e malnutrito.
Inoltre meno del 33% della popolazione mondiale è attualmente
autosufficiente grazie a cibo locale (Kinnunen et al., 2020) e in
Italia l’autosufficienza è sotto l’80%. Al contempo nel sistema alimentare
globale si spreca almeno il 50% delle calorie prodotte (in Italia almeno il
60%), considerando oltre a perdite e rifiuti anche la sovralimentazione (dovuta
spesso a prodotti industriali iper trasformati) e soprattutto la perdita netta
nella conversione di risorse edibili operata dagli allevamenti animali (Vulcano
e Ciccarese, 2019; ADA, 2020).
Questo spreco impegna da solo circa un terzo della biocapacità globale,
senza considerare anche altre forme di spreco quali gli usi non alimentari di
prodotti edibili, le perdite prima dei raccolti, le perdite di acqua potabile.
L’impronta ecologica dello spreco alimentare sistemico in Italia (e in Europa)
arriva ad almeno il 50% della biocapacità ed è in buona parte collegato alle
importazioni (soprattutto frumento, soia, mais per i mangimi o olio di palma,
ma ormai anche frutta e verdura in parte non trascurabile).
La sovrapproduzione di surplus alimentari è talmente alta da eccedere anche
il tasso di aumento della popolazione e dei fabbisogni mondiali, tanto che il
cibo prodotto (a scapito dell’ambiente) basterebbe ampiamente per tutti, ma i
meccanismi economici prevalenti determinano una distribuzione fortemente
ineguale delle risorse. Nonostante l’aumento globale di produzione, negli
ultimi 50 anni la biocapacità disponibile pro capite si è comunque mediamente
dimezzata (WWF, 2020). Pur essendo le previsioni di aumento demografico
tendenzialmente in alleggerimento, le dinamiche economiche hanno portato negli
ultimi decenni all’urbanizzazione e a una pressione demografica globale
insostenibile.
Ciò sia nel Sud del mondo sia tanto più nel Nord dove i dati (quali limiti
ecologici planetari, biocapacità disponibile e impronta ecologica) mostrano che
la saturazione delle potenzialità naturali locali è per lo più avvenuta da
tempo e i consumi ordinari si basano in buona parte sulle risorse del Sud
globale, oltre che sulla degradazione del proprio ambiente ecologico e sociale.
Ciò è riconosciuto dall’Agenda di sviluppo sostenibile ONU 2030 con gli
obiettivi globali di salute e pianificazione riproduttiva. Agenda che però
richiama ancora obiettivi di crescita economica, causa delle enormi distanze
attuali nel raggiungimento di tutti gli altri obiettivi (O’Neill et al.,
2018). Come la crescita economica anche quella demografica oltre un certo
livello risulta contro-producente per la qualità della vita e per la
biodiversità.
La veloce diffusione di pandemie è esemplificativa di questa fase e
direttamente connessa oltre che al sovrasfruttamento delle risorse ecologiche
anche alla densità della popolazione e dei traffici. Purtroppo nel dibattito
pubblico la questione demografica viene negletta e non compresa nella sua
rilevanza, per via di interessi opposti che si trovano a convergere diventando
una posizione prevalente su questo tema.
Insieme a quello del produttivismo-consumismo e dell’esasperazione tecnologica,
quello demografico è un fattore interdipendente, fondamentale e ineludibile
(Chertow, 2008) di questa necessaria e urgente trasformazione culturale.
Trasformazione secondo cui l’umanità è chiamata a comprendere il proprio
impatto e prima di tutto ad accettare e a rispettare, più che guidare e gestire
(stewardship) lo spazio vitale di tutte le altre comunità ecosistemiche
e i limiti comuni di equilibrio (Kallis, 2019).
Sarebbe opportuno trattare il tema in modo il più possibile informato,
consapevole e condiviso piuttosto che trovarsi a doverlo affrontare in modo
forzato dall’urto con i limiti naturali o imposto da politiche autoritarie.
Per affrontare la pressione demografica sono necessarie formazione
scolastica, salute riproduttiva, uguaglianza di genere, potenziamento e difesa
dell’educazione delle donne e dei diritti al controllo del proprio corpo,
redistribuzione equa della ricchezza e giustizia sociale, pensioni e sanità
pubblica, promozione culturale e cambiamenti nello stile di vita.
PROTEZIONE CONVIVIALE DELLA BIODIVERSITÁ
Come conseguenza delle pressioni economiche esercitate sugli ecosistemi, la
Terra sta infatti subendo una perdita di biodiversità eccezionalmente rapida e
sempre più specie vegetali e animali sono minacciate di estinzione e ancor più
in cattivo stato di conservazione, ora più che in qualsiasi altro periodo della
storia umana. Si stima che quelle a rischio di estinzione potrebbero essere
circa 1 milione, un quarto di tutte quelle accertate (IPBES, 2019; IUCN, 2019).
L’indice del pianeta vivente (abbondanza delle popolazioni) segna un
preoccupante calo del 70% in media negli ultimi 50 anni (WWF, 2020).
Le estinzioni di specie animali documentate finora sono 765, di cui 79
mammiferi, 145 uccelli, 36 anfibi. Secondo la “lista rossa” dell’Unione
internazionale per la conservazione della natura 1.199 mammiferi (il 26% delle
specie descritte), 1.957 anfibi (41%), 1.373 uccelli (13%) e 993 insetti (0,5%)
sono minacciati di estinzione; così come il 42% degli invertebrati terrestri,
il 34% degli invertebrati di acqua dolce e il 25% degli invertebrati marini
sono considerati a rischio di estinzione.
In Italia le specie animali minacciate di estinzione sono 161 (138
terrestri e 23 marine), pari al 28% delle specie valutate, tra cui circa il 31%
dei vertebrati (ADA, 2020). Circa il 90% del sovrasfruttamento globale di
specie ittiche, almeno il 30% della degradazione della sostanza biologica nei
suoli e circa il 70% della perdita mondiale di habitat è riconducibile alle
attività antropiche alimentari nel loro complesso, tra cui spicca la
deforestazione per allevamenti animali intensivi (Campbell et al.,
2017; Gordon et al., 2017).
Il sistema alimentare globale è quindi il fattore principale di erosione
della biodiversità, con l’agricoltura industriale che da sola rappresenta la
minaccia per 24.000 (86%) delle 28.000 specie fin qui accertate come a rischio
di estinzione (UNEP-Chatam House, 2021). I principali tipi di processi
attraverso cui avviene questa degradazione sono il cambio di uso del suolo,
l’estrazione diretta di biodiversità, l’inquinamento, il cambiamento climatico
e l’immissione di specie aliene invasive.
Inoltre la FAO stima che negli ultimi cento anni si sia verificata una
perdita enorme di agrobiodiversità: quasi il 75% della diversità genetica di
specie coltivate e allevate è andato perso e l’alimentazione umana oggi si basa
per il 75% solo su 12 specie vegetali e 5 animali (FAO, 2019). Le api
domestiche e gli apoidei selvatici impollinano circa il 90% delle specie
vegetali presenti sul pianeta (75% di quelle di interesse alimentare),
garantendo circa il 35% della produzione agroalimentare.
Oltre il 40% delle specie di invertebrati, in particolare api e farfalle
che garantiscono l’impollinazione, sono a rischio di estinzione, causa
principalmente dei sistemi di produzione agroindustriale (FAO, 2019). Le
meta-analisi scientifiche mostrano che le aziende agricole più piccole, in
media, hanno rese più elevate e ospitano una maggiore biodiversità sia
colturale che non, sia a scala agricola che paesaggistica, rispetto alle
aziende agricole più grandi (Ricciardi et al., 2021).
Altre meta-analisi hanno dimostrato gli enormi benefici per la biodiversità
portati dai metodi di coltura agroecologici (Reganold e Wachter, 2016;
IPES-Food, 2016). Si consideri poi che la protezione della biodiversità globale
e locale è di importanza fondamentale per contrastare i cambiamenti climatici
in atto, i quali a loro volta stanno mettendo in forte pericolo la sicurezza
alimentare e idrica (Ortiz-Bobea et al., 2021).
Cambiamenti climatici che potrebbero anche essi venire affrontati molto più
efficacemente con approcci di decrescita economica (Keyßer e Lenzen, 2021)
riducendo i fabbisogni energetici e incrementando il benessere generale,
partendo dalla democratizzazione, dalla qualità del servizio pubblico e dalla
redistribuzione equa dei redditi e delle condizioni di accesso ai servizi
(Vogel et al., 2021; D’Alessandro. et al, 2020).
OECD – agenzia tedesca
Le politiche e le misure di protezione, rigenerazione e valorizzazione
della biodiversità (come le nature based solutions di cui
molto si discute) dovrebbero andare oltre il paradigma della crescita
economica, migliorando al contempo la prosperità e il benessere generali
(IPBES, 2019; IPBES-IPCC, 2021).
Le soluzioni basate sulla natura: non sono un’alternativa alla necessaria
decarbonizzazione, anche perché i tempi naturali di assorbimento dei gas serra
sono molto lunghi; esse devono coinvolgere una gamma sufficientemente ampia di
diversi ecosistemi; dovrebbero essere progettate in collaborazione con le
comunità locali nel rispetto delle popolazioni indigene e di tutti i diritti
sociali; infine, devono essere di supporto alla protezione della biodiversità,
dal livello del gene a quello dell’ecosistema, senza interventi che alterino le
reti trofiche e gli equilibri ecologici (Girardin et al., 2021).
Alterazioni ecologiche che vanno evitate anche per quanto riguarda quelle
che possono derivare anche dalla replicazione digitale e proprietaria dei genomi
dell’agrobiodiversità per sviluppi agroindustriali o da vari tipi di nuove
tecnologie genetiche che vengono rilasciate nell’ambiente naturale (gene
editing, gene drive).
In questo processo dovrebbero essere considerate anche le responsabilità
passate e presenti nella delocalizzazione globale degli impatti (CBD, 2021;
Marques et al., 2019) come quelli derivanti dal sovrasfruttamento
europeo e italiano di risorse alimentari importate. Responsabilità che si
ripercuotono nell’accrescimento delle disuguaglianze e dei debiti che
costringono i paesi del Sud globale a sfruttare la biodiversità per la
sopravvivenza (Dempsey et al., 2021).
È necessario fornire risorse per permettere la protezione e la
rigenerazione della biodiversità, eliminando i sussidi dannosi e riconoscendo
al contempo la fallacia della creazione di nuova crescita economica basata su
servizi e mercati finanziari della biodiversità, comprese le cosiddette
compensazioni per la distruzione del cosiddetto “capitale naturale” (Heinrich
Böll Foundation, 2014-2021) o il finanziamento di progetti dannosi come le
forestazioni di piantagioni monoculturali o rischiosi come le afforestazioni (IPBES-IPCC,
2021 per le colture bioenergetiche). Ciò comporta preferire l’uso di
lessico e metriche biofisiche, ecosistemiche e di benessere, tutelando, se
necessario anche giuridicamente, l’esistenza di valori e benefici
incommensurabili, non intercambiabili, altamente dipendenti dal contesto e a
uso non esclusivo. Comporta inoltre esplorare traiettorie partecipative, conviviali
e condivise nell’attuale formazione di scenari e quadri di riferimento
internazionali per azioni che siano effettivamente a protezione della
biodiversità e dei sistemi socioecologici congiunti (de Boef et al.,
2013; Heinrich Böll Foundation 2014-2021; Buscher e Fletcher, 2019; Otero et
al., 2020; Frainer et al., 2020). Ciò permetterebbe inoltre di
superare la contrapposizione tra land sparing e land
sharing integrando nelle classiche misure di protezione della
biodiversità una visione dinamica e proporzionata alla scala locale, tutelando
comunque le aree di riserva ad alto valore naturale e aumentando la
connettività delle reti ecologiche di conservazione globale.
Le analisi integrate energia–informazione-struttura-biodiversità applicate
agli agroecosistemi confermano come i mosaici complessi dei paesaggi
agroecologici tradizionali continuano a garantire un’elevatissima conservazione
della biodiversità e mettono in luce le potenti sinergie tra metabolismo
sociale, ecologia del paesaggio e proliferazione della biodiversità
(Marull et al., 2020).
BIOECONOMIA QUASI-CIRCOLARE FUORI DALLA CRESCITA
Ultimamente l’utilizzo economico delle biomasse (cosiddetta “bioeconomia”)
è in aumento per via dello sfruttamento o della coltivazione, oltre che per gli
scopi tradizionali, anche come materie prime alternative a quelle fossili e
minerali o per processi di assorbimento delle emissioni serra.
Come già avvenuto nel recente passato, ciò può portare a concorrenza
nell’uso di risorse già scarse come l’acqua e il suolo (naturale e agricolo
produttivo), nonché ad aumenti della perdita di biodiversità, delle
speculazioni finanziarie, dei prezzi e dell’insicurezza alimentare (Vulcano e
Ciccarese, 2019; EEA, 2020a; Stenzel et al., 2021).
È indispensabile prima di tutto affrontare la questione in un’ottica
termodinamica prima che econometrica, tornando quindi alla definizione
originale di bioeconomia come economia basata sull’aderenza ai principi
biofisici (Georgescu-Roegen, 1971, 2003).
In questo senso le evidenze scientifiche mostrano che per garantire
sicurezza alimentare e ambientale è necessario accordare priorità alle misure
trasformative di prevenzione strutturale degli sprechi sistemici (vedi in
seguito) rispetto a quelle di bioeconomia “circolare” quali riciclo e recupero
degli scarti (Vulcano e Ciccarese, 2019).
Queste ultime possono essere utili se adeguatamente calibrate, ma non sono
sufficienti e un’eccessiva attenzione su di esse rischia di essere
contro-producente, oltre che di coprire e ritardare l’attuazione di interventi
di prevenzione strutturale.
Le azioni di prevenzione non strutturale dei rifiuti alimentari sono invece
fondate soprattutto sull’introduzione di nuove tecnologie. Questi interventi
aumentano l’efficienza dei processi industriali nel breve periodo, evitando gli
effetti negativi dello smaltimento, ma creandone di ulteriori per la loro
applicazione, per lo più delocalizzati (Brand e Wissen, 2013).
Parallelamente essi aumentano i costi, diminuiscono il senso di
responsabilità dei cittadini nei confronti dello spreco e del valore del cibo e
tendono ad aumentare complessivamente il consumo di risorse e gli effetti
negativi (paradosso di Jevons). Studi approfonditi dimostrano che così si
possono vanificare i vantaggi del riciclo in termini di impatti negativi
totali, i quali possono addirittura aumentare in particolare quando mancano
appropriate misure di regolamentazione del settore privato (Valenzuela e Böhm,
2017; Zink e Geyer, 2017).
In generale i processi bioeconomici dovrebbero almeno essere realmente
sostitutivi e non aggiungersi a quelli già esistenti, incrementando così la
domanda di risorse e le dimensioni economiche complessive. Se resta inalterato
il paradigma di crescita i processi di recupero e riciclo alimentare hanno
bisogno della sovrapproduzione e sovraofferta di eccedenze per svilupparsi,
espandendo i confini della mercificazione (Krones, 2019) e accelerando
(Valenzuela e Bohm, 2017) o essendo ancillari (Lindenbaum, 2016) al medesimo
sistema di mercato.
Un meccanismo basato su estrazione di profitto economico da ogni processo
biofisico e non, produttività unitaria, competizione, concentrazione e stimoli
al consumo. La priorità per prevenire lo spreco deve andare alla prevenzione
delle eccedenze. Quindi i processi sostitutivi nell’uso delle eccedenze
dovrebbero comunque essere limitati e orientati verso il più completo livello
di rinnovabilità delle risorse (Hausknost et al., 2017).
Per esempio le nuove iniziative di bioeconomia non dovrebbero portare
all’estrazione di residui colturali che altrimenti contribuirebbero alla
materia organica del suolo e quindi alla sua fertilità alimentare
(Holmatov et al., 2019). Per garantire la rinnovabilità delle
risorse alimentari è necessario ridurre la produzione di eccedenze e la densità
dei fabbisogni a limiti minimi “fisiologici” determinati in base alle capacità
naturali locali e ai metodi agroecologici di rigenerazione quasi-circolare e di
sufficienza, che usano più parsimoniosamente le risorse, proteggono e
valorizzano la diversità biologica e la pluralità culturale (visione
bioregionale olistica).
Questi metodi già dal breve periodo mostrano numerosi vantaggi
socio-ecologici e rese comparabili ai modi industriali che a fronte di elevate
rese immediate tendono a depauperare velocemente le risorse, mentre nel
medio-lungo periodo o già in situazioni critiche le rese agroecologiche possono
essere maggiori (IPES-FOOD, 2016; Schrama et al., 2018; Eyhorn et al.,
2019; Lowder et al., 2021). Inoltre i bassi tassi attuali di
circolarità dovuti all’impiego di complesse infrastrutture industriali
confermano che minore è la scala e maggiore è l’efficacia dei processi di
riciclo/rigenerazione e delle connesse reti di innovazione sociale
(Garnett et al., 2015; Piques e Rizos, 2017; EEA, 2021).
Facilitando questi approcci si permetterebbe a una bioeconomia realmente
quasi-circolare di non produrre vari tipi di effetti complessi di retroazione
sistemica (EEB, 2019) che rendono improbabile il “disaccoppiamento” completo,
ostacolano l’efficacia delle politiche in atto e bloccano il cambiamento (EEA,
2021). Queste retroazioni sono interconnesse e si autorafforzano in spirali
perverse, apparentemente in modo controintuitivo.
Storicamente lo sviluppo di nuove tecnologie sempre più elaborate, specie
quelle proprietarie o che sono state sussunte al lavoro collettivo, è diventato
il principale fulcro nell’estrazione di nuova crescita economica e finanziaria
(Bakker et al., 2017). Esso ha quindi sorpassato gli altri fattori
che si inter alimentano: l’espansione demografica, il sovrasfruttamento e
impoverimento della forza lavoro, produttiva e riproduttiva (Griffith et
al., 2018); fattori che restano comunque tuttora attivi in proporzioni e
distribuzioni diverse tra il Nord e il Sud Globale. Al raggiungimento di
eccessive complessità di scala, le necessità esponenziali di risorse e la
saturazione della domanda portano alla diminuzione dei margini di produttività,
a cui i modelli prevalenti rispondono usualmente con l’indebitamento e
l’aumento di efficienza tecnologica di alcuni settori nell’uso unitario delle
risorse.
Ciò genera il cosiddetto effetto “rimbalzo” (Glansdorff e Prigogine, 1971;
Polimeni et al., 2007). L’efficienza favorisce l’aumento di scala
dei processi, la diminuzione dei costi unitari e di conseguenza aumenta la
promozione e la domanda fino a generare aumenti netti dei consumi di risorse e
degli impatti negativi, molto spesso delocalizzati globalmente o in altri
settori economici (UNEP, 2018; IPBES, 2019; EEA, 2020b, 2021; ISTAT, 2021). In
parallelo avviene la valorizzazione dello status posizionale delle merci che
allarga le disuguaglianze nella società e soggioga con l’illusione che la
ricchezza filtri dall’alto verso il basso.
Ciò prosegue finché vi sono risorse disponibili a un costo che ne renda
conveniente l’utilizzo, poi l’innovazione tecnologica produce un nuovo salto in
avanti esasperando consumi e impatti complessivi. Tali cicli di amplificazione
rendono il sistema globale sempre più dissipativo, fragile e instabile per
minimi disturbi non riconosciuti, predisposto a subire traumi e crisi repentine
(come nel caso del Covid-19).
Essendo attualmente l’espansione della società limitata da vincoli
biofisici esterni, i miglioramenti dell’efficienza potrebbero essere invece
utilizzati per esplorare insiemi alternativi di comportamenti più compatibili
con tali limiti, contenendo la perdita di diversità; la società dovrà così
negoziare nuove definizioni di desiderabilità attraverso adeguamenti culturali
e politici che portino a nuovi modi accettabili di vita (Giampietro e Mayumi,
2018). I miglioramenti dell’efficienza potrebbero derivare da un “effetto
rimbalzo” positivo generato da processi bioeconomici e culturali orientati al
principio di sufficienza (Alexander, 2015).
QUALE RESILIENZA
La complicata sfida di proteggere gli ecosistemi e al tempo stesso
garantire la sicurezza alimentare della popolazione globale in modo
“sostenibile” ha attirato una crescente attenzione da parte delle principali
istituzioni ambientali e dei governi. Negli ultimi anni il discorso si è
spostato dalla “produzione rispettosa dell’ambiente” alla “sostenibilità del
sistema alimentare”.
Ciò dovrebbe considerare e migliorare la “resilienza” dell’intero sistema
per riportarlo entro i limiti. Questa resilienza, troppo spesso definita e
richiamata in senso superficiale o strumentale, è però una caratteristica
indispensabile per il futuro sistema alimentare e più in generale, soprattutto
in un contesto di crescenti incertezze dovute ai cambiamenti ambientali e alla
variabilità che supera le abilità previsionali e gestionali.
In sintesi essa può essere vista come la capacità biologica, ecologica e
sociale di confrontarsi e adattarsi ai cambiamenti e ai disturbi, resistendo
anche a quelli imprevisti o potenzialmente destabilizzanti, tramite processi
ciclici di individuazione contingente, di autorganizzazione e di convergenza
tra scale diverse (Holling e Gunderson, 2001; Kupiec, 2019). Essa fonda il suo
potenziale rigenerativo sull’omogenea distribuzione dei benefici derivanti
dall’interconnessione tra un’elevata diversità di “agenti” (biologici, sociali,
…) e sull’osmosi con l’ambiente esterno.
Ciò può garantire lo scambio reciproco di caratteristiche multifunzionali
essenziali per far sì che l’intero sistema possa adattarsi ai cambiamenti o
creare le necessarie trasformazioni, specie in situazioni critiche. Si
riferisce perciò anche alla capacità di mutazione profonda di un sistema non
più sostenibile e instabile verso nuovi livelli di equilibrio.
Per raggiungere questi obiettivi ecologici e sociali occorre non solo
ridurre le pressioni derivanti dalla produzione, ma attuare una serie di
sostanziali cambiamenti economici e culturali, a partire da un immaginario
estetico e creativo che sappia elaborare positivamente le sensazioni oltre che
la razionalità, consapevole delle inerzie presenti come delle potenzialità che
possono essere sbloccate, prendendo spunto anche da visioni e prospettive
relazionali indigene e apparentemente minoritarie.
I mutamenti necessari, avviati in parallelo, si potenzierebbero
sinergicamente a vicenda. Essi riguardano, tra le altre cose: la struttura
delle intera filiera e il ruolo non più centrale del consumo individuale, della
competizione, del lavoro retribuito, del valore monetario e del profitto
privato nella società, penalizzando le attività che consumano più risorse
naturali e incentivando la redistribuzione della ricchezza; una partecipazione
paritaria e solidale delle persone basata sulla valorizzazione sociale delle
minoranze e delle innovazioni che vengono dai margini, lo sviluppo di capacità
relazionali, abilitanti e di autonomia più che su istruzione, controllo e
assistenza; sistemi collettivi di tutela, credito e scambio che riconoscano
equamente il valore della vita e del lavoro consapevole di cura dell’ambiente e
delle persone; conversione dei sistemi militari in servizi collettivi di
autodifesa dei beni comuni. In queste direzioni serve inter e post
disciplinarietà nell’educazione, nella formazione e nella ricerca-azione.
È URGENTE UNA TRASFORMAZIONE STUTTURALE
Le evidenze scientifiche più attendibili mostrano che per raggiungere la
resilienza e la salute socioecologica sia quindi primaria una trasformazione
strutturale dei sistemi alimentari, invocata ormai anche da molte istituzioni
internazionali con vari accenti (FAO, 2020 e altri in nota bibl.) e per cui la
finestra temporale disponibile potrebbe essere più stretta di quanto
comunemente ritenuto. Potrebbe essere necessario un periodo di transizione
verso la graduale rilocalizzazione dei sistemi alimentari in cui si integrino
sistemi locali e regionali così come potrebbe essere necessario fare
affidamento in un tempo molto più ristretto sulla resilienza dei sistemi
alternativi di piccola scala già esistenti (Berkes et al., 2003;
Walker e Salt, 2006, Fleming e Chamberlin, 2016). Per tornare entro le capacità
ecologiche la diffusione di queste pratiche sociali dovrebbe diventare molto
ampia e lo spreco sistemico dovrebbe essere probabilmente ridotto al 15-20%
ovvero ad almeno 1/3 dell’attuale a livello globale, a 1/4 in Italia (Vulcano e
Ciccarese, 2019). La conversione sarà tanto più efficace quanto saprà andare
oltre il consueto riformismo incrementale e le tendenze economico-culturali
ordinarie (soluzioni di mercato o solo istituzionali o centrate sul ruolo del
consumatore, …) verso orizzonti e principi di parsimonia, sobrietà, prosperità
e abbondanza frugali (Nelson e Edwards, 2021). In questo cambio di paradigma
economico-culturale emerge l’esigenza principale di rendere il valore del cibo
più un bene comune e meno una merce standardizzata e spettacolarizzata (EU DG
Research, 2020 e altri in nota bibl.). Le macro linee d’azione fondamentali
(interdipendenti e in parte sovrapposte) su cui potrebbe partire la
progettazione condivisa di scenari trasformativi sono sinteticamente:
§
democratizzazione ed equità dei valori e delle relazioni tra i soggetti,
dentro e fuori il sistema economico e alimentare (IPBES, 2019; EU DG Research,
2020; Nature Food, 2020; FAO, 2020);
§
riduzione selettiva, in termini assoluti prima che di efficienza, dei
consumi di prodotti/servizi e delle necessarie risorse materiali ed energetiche
(IPBES, 2019; EU DG Research, 2020; EEA, 2021), soprattutto per il Nord globale
e i ricchi;
§
riduzione consapevole della pressione demografica e dei fabbisogni
complessivi (SDGs ONU 2030 3.7 e 5.6; Kallis, 2019), soprattutto per il Nord
globale e i ricchi;
§
riduzione degli usi non alimentari umani (mangimi, carburanti, …) dei
prodotti edibili e delle relative risorse necessarie e limitate, tra cui il
suolo e l’acqua (EEA, 2020a);
§
diete sane per umanità e pianeta, preferendo prodotti vegetali e non
iperprocessati, riorientando quote e metodi produttivi e le relative risorse
(EEA, 2017; Willet et al., 2019; UNEP, 2021);
§
sviluppo di reti (autosufficienti e cooperative) alimentari locali,
ecologici, solidali e di piccola scala in grado di prevenire drasticamente gli
sprechi sistemici e gli impatti negativi (EEA, 2017; EU DG Research, 2020; FAO,
2018, 2020).
In particolare rispetto ai sistemi convenzionali si osserva una riduzione
media degli sprechi del 67% nel caso di sistemi alimentari regionali, biologici
e di medio-piccola scala e addirittura fino al 90% in media nel caso di reti
locali, agroecologiche, solidali (mutualistiche) e di micro-piccola scala
(Vulcano e Ciccarese, 2019; Sosna et al., 2019, Baker et
al., 2019). Questi processi dovrebbero tendere a svincolarsi sempre più
dalla captazione, dal condizionamento o dall’oscuramento che usualmente avviene
da parte dei modelli economico-culturali prevalenti (Giampietro e Funtowitz,
2020): si veda il caso del Food System Summit ONU 2021. Ciò può avvenire anche
aggirando gli ostacoli convenzionali (Sherwood et al., 2016) o
riempiendo di innovazione critica gli spazi vacanti (Van der Ploeg, 2016).
Sviluppando reti egualitarie di progettazione globale su cui fare affidamento,
si può riportare più diffusamente la produzione e la co-produzione a livello di
collettività locali (Kostakis et al., 2015). L’uso di tecnologie
quasi-circolari, paritarie e conviviali, può potenziare filiere più corte e
solidali, con opportunità di benessere territoriale, allo stesso tempo
riducendo l’impronta ecologica verso livelli di equilibrio.
Perciò è urgente riconvertire l’esistente, facilitare o
permettere lo sviluppo delle esperienze virtuose già avviate, replicarle
orizzontalmente secondo i diversi contesti (senza accrescere le singole
dimensioni, scale out), connetterle tra loro, preservare le varie
comunità che vivono in modo semplice e armonioso con l’ambiente naturale e
lasciarvisi ispirare.
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that can be considered as ‘pilots’, which have been found to be successful
include a national ‘fat tax’, a national case of achieving economies of scales
with respect to the organic food market, local alternative food supply networks
bringing consumers directly together with producers” – Sulla mercificazione
e la “spettacolarizzazione” del cibo che generano disuguaglianze e sui diversi
“regimi” alimentari si vedano tra gli altri: Nebbia, 1999, La violenza delle
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Policy Directions: support the development of diverse distribution networks
such as a territorial market approach that can help improve food system equity
and can strengthen the agency of producers and citizens, by empowering them vis
à vis concentrated agricultural supply chains and retail outlets dominated by
powerful transnational corporations.”
Oltre a quelli già citati in questo articolo, si ricordano tra gli altri
anche i rapporti: UNEP 2019 “Global earth outlook” (UN Environmental
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Nota a margine: versione personale dell’articolo istituzionale“Oltre la crescita economica. Protezione della biodiversità e resilienza
alimentare”
*Giulio Vulcano è laureato in Scienze ambientali all’Università della
Tuscia di Viterbo con una tesi sperimentale di analisi transdisciplinare e
sviluppo locale. Si è occupato di verifiche dell’impatto ambientale delle
grandi infrastrutture di mobilità presso l’agenzia ambientale della Toscana
(ARPAT). Ha svolto l’attività professionale di Pianificatore territoriale
abilitato e valutatore ambientale. Ha esperienza di educazione e formazione in
campo ambientale. È ricercatore presso l’Istituto Superiore di Protezione e
Ricerca Ambientale (ISPRA), dove ha maturato competenze nella Valutazione
Ambientale Strategica (VAS) di piani e programmi, sia nelle metodologie
tecnico-scientifiche che nei processi partecipativi e tecnico-amministrativi. Ha
una lunga esperienza di reti e percorsi di innovazione sociale e ambientale dal
basso (quali gruppi d’acquisto solidale e orti urbani condivisi). In ISPRA è
ora impegnato nell’area per la conservazione di specie, habitat, ecosistemi e
la gestione sostenibile del territorio e delle risorse agroforestali. Ha
realizzato una ricerca complessa sulla questione dello spreco alimentare
secondo un approccio sistemico finalizzato all’individuazione e all’attivazione
di misure di prevenzione strutturale. È autore di pubblicazioni scientifiche e
interventi a convegni. Il suo principale interesse di ricerca e azione è la
tutela e la rigenerazione dei sistemi socio-ecologici congiunti.
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