Non smette di stupire la protesta dei contadini in India, che da mesi continua ininterrotta e proprio quando sembra prossima all’esaurimento, ecco che si rilancia, in modi sempre sorprendenti. Perché la novità è che da ieri, 22 luglio e fino al 13 di Agosto, questa mobilitazione di contadini, piccoli proprietari insieme ai braccianti, senza distinzione di censo o di caste – la più grande, compatta, organizzata rivendicazione di equità e giustizia che mai sia stata espressa nella storia del pianeta – avrà il diritto di rappresentare pubblicamente le proprie sacrosante ragioni nel Kisan Sansad, che letteralmente significa ‘Parlamento Contadino’ e tra l’altro in coincidenza con la sessione estiva del ‘normale’ Parlamento indiano che si è riaperto proprio qualche giorno fa.
Breve
ripasso di quasi otto mesi d’ininterrotta mobilitazione, che il nostro sito sta
seguendo in effetti dagli inizi, spesso riproponendo l’autorevole opinione di
un profondo conoscitore dell’India rurale come P.N. Sainath e attingendo ogni
volta che è possibile dal magnifico Public Archive of Rural India (PARI ) il website da lui stesso
fondato.
Era il 26
novembre scorso, quando dalle campagne del Punjab e dell’Haryana calarono verso
la capitale indiana delle vere e proprie carovane di trattori per quella che
venne chiamata Delhi Chalo, la ‘presa di Delhi’ appunto, da parte
di migliaia di piccoli agricoltori determinati a far sentire le proprie ragioni
circa l’inaccettabilità di quelle tre leggi frettolosamente approvate dal Parlamento
indiano un paio di mesi prima, per velocizzare la liberalizzazione di un
settore che nonostante la crisi, più volte denunciata in relazione ai tanti
casi di suicidio, assorbe il 65% della forza lavoro del subcontinente – e da
cui dipende di fatto la sussistenza di circa 900 milioni di
persone.
Particolare
non da poco: approfittando dello ‘stato d’eccezione’ che particolarmente in
India si è venuta a creare con la pandemia, quella votazione era avvenuta senza
alcun confronto con i sindacati, e persino ignorando il parere di alcuni
governi locali, in primis appunto quello del Punjab.
La protesta dei contadini indiani riguarda tre leggi
che sono state ratificate il 20 settembre scorso al Parlamento indiano, bypassando il normale iter
procedurale: senza alcuna preventiva consultazione con i vari governi degli
stati principalmente interessati, né con le organizzazioni sindacali.
In sintesi il nuovo quadro legislativo dovrebbe (nel punto di vista del
Governo) introdurre una radicale modernizzazione nel settore agricolo
dell’India, in tre specifiche aree:
– quella della commercializzazione dei prodotti agricoli, sostituendo al
sistema dei “mandi” (ovvero mercati generali statali) una totale
liberalizzazione
– quella dei prezzi e dei servizi agricoli
– quella della materie prime considerate essenziali
In pratica l’obiettivo sarebbe liberalizzare, con l’ausilio anche di
piattaforme on line, un settore obiettivamente molto arretrato, in sofferenza
da tempo (come testimoniano le decine di migliaia di suicidi per debiti ogni
anno), caratterizzato da una proprietà terriera molto frammentaria (oltre l’86
per cento di chi lavora nell’agricoltura possiede appezzamenti di terra sotto i
due ettari), e in qualche misura tutelato da una forte presenza dello Stato. Il
“prezzo minimo di vendita statale” che il Fronte Contadino vorrebbe di nuovo
garantito, rappresentava una minima tutela non solo rispetto alle fluttuazioni
del libero mercato, ma anche in considerazione di condizioni climatiche sempre
meno prevedibili.
Con la liberalizzazione da poco varata, i lavoratori del settore agricolo
perderebbero anche queste minime tutele, e sarebbero alla mercé della grande
distribuzione privata.
Una data non
qualunque, quel 26 novembre, perché nello stesso giorno era previsto l’ennesimo
sciopero generale del sub-continente: a incrociare le braccia in tutti i
possibili settori, dai colletti bianchi del pubblico impiego agli addetti alle
pulizie e alle più umili mansioni, furono in 250 milioni, numeri che solo
l’India può permettersi contando anche sulla formidabile capacità organizzativa
di una miriade di sindacati, che all’occorrenza riescono a stemperare le
differenze in formidabili coalizioni.
Fu un Delhi
Chalo per modo di dire perché arrivati alla periferia dell’immensa
metropoli, in particolare a Singhu, i trattori vennero accolti dalle cannonate
d’acqua delle forze dell’ordine, e le foto dei sikh con i loro meravigliosi
turbantoni, tra loro parecchi anziani, letteralmente inzuppati nonostante il
freddo di fine novembre, vennero riprese da parecchie testate non solo in India
– e non fu una buona pubblicità per il Governo Modi.
E comunque i
disagi degli inizi furono presto superati con la più formidabile organizzazione
e fin dai primi momenti del suo sparso insediamento tutt’intorno a Delhi,
il Kisan Andolan (movimento contadino) si presentò al meglio:
una coalizione di decine di comitati e organizzazioni sindacali, compattamente
uniti sotto la sigla del Samyukt Kisan Morcha, mirabilmente
coordinati fra di loro nel più genuino spirito di comunità, sewa (=
servizio), pratica del langar (condivisione del cibo). E
talmente consapevoli del potere manipolatorio dei media da attrezzarsi fin da
subito di un proprio canale live, il Kisan Ekta Morcha dal
quale parlare dritto in camera, autoriprendersi nelle loro assemblee, e insomma
farsi capire da chiunque avesse voglia di capire – e il messaggio continuamente
ribadito era: noi da qui non ci spostiamo fino a che non verranno abrogate
quelle tre leggi.
Una storia
che per le sue componenti di maturità, consapevolezza, totale pacifismo nella
resistenza, ci è sembrata fin da subito così importante e bella, da meritare un
vero e proprio webinar, che intitolammo Trolley Times,
anche per rendere omaggio all’omonima testata cartacea che un gruppo di
giovanissimi media-attivisti avevano fondato per raccontare la straordinaria
vitalità di questo movimento. Eravamo già verso la fine di marzo, e nonostante
i molti momenti critici (per esempio il non piccolo tributo di vite umane,
durante l’inverno più freddo che Delhi abbia sofferto da anni, per non dire
degli scontri che il 26 gennaio avevano caratterizzato il Republic Day
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