Il recente ennesimo disastro ecologico causato dall’affondamento di una nave cargo al largo delle coste dello Sri Lanka, ripropone prepotentemente la questione ambientale e in particolare dell’enorme quantità di plastica prodotta e dispersa nelle acque del globo. Dopo giorni di incendio, la nave affonda disperdendo enormi quantitativi di plastica e petrolio nell’oceano e sulle spiagge. È stato stimato che negli oceani la quantità di materiale inorganico immesso dall’uomo è ormai maggiore di quella di materia organica, costituita da pesci e alghe. Le microplastiche presenti nel ciclo dell’acqua sono ormai diffuse ovunque e fanno parte dell’alimentazione dei pesci (costituendo una sorta di plancton tossico) e tramite questi della nostra. L’invenzione della plastica, salutata quale grande progresso del XX secolo, si sta rivelando un vero e proprio cavallo di Troia per la salute umana. Un materiale che ha insitauna contraddizione dovuta al fatto che, a dispetto della lunga durata, viene impiegato per la produzione di oggetti usa e getta. Quello della plastica è solo uno dei problemi ambientali che ci vengono posti dalle sfide per il futuro e che pongono l’attuale modello di sviluppo sul banco degli imputati. La cosa bizzarra, quasi uno scherzo del destino, è che continuando secondo il modello espansivo perseguito finora, la catastrofe si abbatterà sullo stesso genere umano che ne subirà direttamente le conseguenze e potrebbe autoestinguersi. La Terra sopravvivrà a tutti gli stress cui la stiamo sottoponendo, ma si può dire la stessa cosa per il genere umano? Il nostro è un genere che provoca la propria estinzione e questa è una peculiarità della nostra specie, che pur si distingue per l’uso della razionalità. Siamo una specie che fa tabula rasa dell’ambiente circostante, alla stregua di quei virus che non si adattano all’organismo che occupano e lo distruggono. L’evoluzione segnata da un progressivo adattamento all’ambiente sta cambiando verso e si rovescia nel proprio opposto.
Occorre,
allora, riflettere se questa sia una caratteristica umana ovvero pertenga a una
cultura specifica di una parte dell’umanità. Lo stesso termine Antropocene
viene messo in discussione da qualche studioso che non condivide questa
indiscriminata attribuzione di responsabilità al genere umano. D’altra parte,
se la responsabilità è capillarmente diffusa, allora non vi è una vera e
propria responsabilità; è semplicemente il portato della natura umana. E, come
lo scorpione che punge la rana che lo traghetta dall’altra parte del fiume,
nulla si può contro la propria natura. Nel rifiutare tale paradigma Jason Moore
conia un termine cacofonico ma efficace nel porre la questione su un binario
più idoneo: Capitalocene. Moore non rifiuta il concetto di Antropocene su basi
scientifiche e geologiche, ma contrappone il termine Capitalocene a quello di
un Antropocene alla moda, per porre la dovuta attenzione alle origini
e alle forze che hanno scatenato la crisi ecologica del XXI secolo[1]. Il ricorso
generalizzato al termine Antropocene, avulso da un’analisi scientifica, per
Moore, ha lo scopo di nascondere il nodo delle disuguaglianze, della
mercificazione, dell’imperialismo e di cancellare le specificità storiche del
capitalismo, attribuendole alla generalità degli esseri umani. I cambiamenti
climatici e la crisi ambientale rappresentano la quintessenza dello spirito
predatorio del capitalismo con il corollario della colonizzazione di aree
periferiche che, da una parte subiscono la depredazione di risorse naturali e
materie prime, dall’altra subiscono gli effetti del cambiamento climatico e
dell’inquinamento in forma più deflagrante rispetto ai paesi industrializzati.
Quando il capitale mira alla conquista di nuovi territori, sia per motivi di
estrazione di risorse che di allargamento del mercato, consuetudini ed
equilibri secolari vengono spazzati via e ogni cosa viene sottoposta alla
logica delle leggi del mercato e della competizione spinta.
Un fenomeno
cui, ad esempio, Mike Davis attribuisce i milioni di morti dovuti alle grandi
carestie che colpirono la Cina e l’India nel XVIII secolo. In nome del libero
mercato, furono annullati quei tradizionali sistemi di gestione del rischio
(come l’immagazzinamento di prodotti agricoli nella prospettiva di
fronteggiare periodi di scarsità) che culture millenarie avevano costruito fino
ad allora, con il risultato che, mentre la popolazione moriva di fame, treni
con derrate destinate all’Europa solcavano le terre indiane e cinesi[2]. Secondo
Davis, quello che oggi viene chiamato Terzo mondo è l’esito di squilibri di
reddito e ricchezza formatisi soprattutto nell’ultimo quarto dell’Ottocento,
quando le grandi masse contadine extraeuropee furono integrate nell’economia
mondiale. Lo sviluppo industriale di stampo capitalistico originato dalla
rivoluzione industriale ha provocato non solo la grande accelerazione nella
devastazione degli ecosistemi ma ha anche operato una torsione nelle economie e
negli assetti sociali a livello mondiale che nel XXI secolo mostra tutta la sua
drammaticità.
L’attuale
modello di sviluppo, consiste in un capitalismo che si foraggia grazie al
consumismo indiscriminato da parte delle popolazioni dei paesi industrializzati,
di cui ha modificato i comportamenti, realizzando quella mutazione
antropologica che Victor Lebow auspicava negli anni cinquanta, ossia che il
consumo rapido di merci non durevoli diventasse il nostro stile di vita. Il
feticismo delle merci è divenuto il nuovo imperativo. Secondo una visione
ancora dominante, qualsiasi idea di progresso e di sviluppo, o di ripresa da
fasi depressive come quella legata alla pandemia, non può che essere legata
alle parole d’ordine della crescita del prodotto interno lordo. Questa comporta
la produzione di merci attraverso l’estrazione e la trasformazione di risorse
naturali che, dopo un breve ciclo di vita, si trasformano in rifiuti. In
passato, tale modello è stato accolto come il più idoneo a garantire prosperità
per il maggior numero di persone. Ma il risultato conseguito è stato
decisamente al di sotto delle aspettative. Oggi, nonostante le grandi
contraddizioni prodotte dall’attuale paradigma, con crescente aumento della
disuguaglianza, della povertà, del disagio psicofisico, della precarietà non
solo lavorativa ma esistenziale, dell’incertezza rispetto al futuro (per alcuni
ricercatori persino la decrescita della natalità nell’Occidente ricco va
attribuita all’incertezza del futuro determinato dal riscaldamento climatico[3]) sembra
viga la rassegnazione indotta da quel motto coniato da Margaret Thatcher
secondo cui There is no alternative. Eppure, se non si vuole
precipitare nella catastrofe paventata dei cambiamenti climatici, occorre un
cambio di paradigma, come si sente auspicare da più parti. Il problema è dato
dal senso che si vuole attribuire a questo cambiamento. Se questo debba
consistere in un miglioramento tecnologico, quindi in una transizione verso
l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili che non costringa a ripensare il
dogma della crescita, ovvero se debba coinvolgere gli stili di vita degli
individui e, di conseguenza, riscrivere le regole del sistema economico.
Della prima
soluzione si parla molto e sembra essere scritta nell’agenda di molti paesi
industriali avanzati che pongono alla base dello sviluppo futuro il ricorso a
energie rinnovabili al fine di contenere gli effetti del riscaldamento
climatico. Che la sensibilità verso il clima abbia raggiunto un grado elevato
ce lo confermano sia le posizioni di molti politici che l’atteggiamento di
aziende che si spacciano per ecofriendly. Persino una multinazionale come Eni,
che estrae petrolio in Africa degradando l’ambiente e alimentando la corruzione
degli amministratori locali[4], o come i produttori
di acqua in bottiglie di plastica fanno del greenwashing, ossia si spacciano
per avere una sensibilità ambientalista in maniera surrettizia. La necessità di
una riconversione ecologica che incentivi la produzione di energia da fonti
rinnovabili per arrivare a un risultato di zero emissioni di gas serra è
impellente. Occorre però contemplare i rischi di una deriva che questa
riconversione implica, con conseguenze geopolitiche e sociali. Gran parte della
tecnologia più avanzata si basa sullo sfruttamento di quelle che vengono
definite terre rare: cobalto, litio, coltan, grafite, antimonio, oro, argento,
etc. Molte di queste si trovano in paesi economicamente poco sviluppati e
politicamente poco progressisti. Il rischio è quello di accentuare quello sfruttamento
economico col corollario del foraggiamento di governi autoritari e
dell’oppressione delle popolazioni locali che già affliggono molti paesi
dell’Africa, dell’America latina e dell’Asia e di incrementare, di conseguenza,
i flussi migratori verso i paesi benestanti come già sta avvenendo ora a causa
del cambiamento climatico. In un mondo globale, non si può pensare di isolare
gli effetti negativi in un singolo paese, non esiste più l’esternalità dei
costi (caratteristica tra le principali dello sviluppo capitalistico), dato che
per ogni spesa il conto verrà presentato a tutti, anche se, come per i
cambiamenti climatici e le pandemie, all’inizio il disagio asseconda la linea
della frattura di classe e colpisce i più svantaggiati. Quindi, l’estrazione
delle terre rare dovrebbe mettere in conto sia la riscrittura dei rapporti con
i paesi che le producono[5], che il
rispetto per l’ambiente nelle pratiche estrattive. Ciò si dovrebbe ripercuotere
anche sui costi dei prodotti finali, andando a modificare pratiche di
consumismo compulsivo che caratterizzano i paesi avanzati.
La
riconversione ecologica sarebbe, quindi, un’arma spuntata se non accompagnata a
modifiche negli stili di vita. E siamo alla seconda questione che va letta in
perfetta sinergia con la prima. Occorre rigettare quella visione che identifica
il benessere con il consumo di merci e impostare un’esistenza prospera non
legata alla crescita indefinita del consumo di beni. Per l’economista Tim
Jackson, la prosperità non si realizza attraverso un crescente possesso
materiale ma ha a che fare con l’eliminazione della fame, mira a dare
una casa a tutti, a porre fine alla povertà e all’ingiustizia e a dare speranza
in un mondo più pacifico[6]. Nonostante
tutta la tecnologia di cui disponiamo e la ricchezza economica prodotta nel
mondo, la prosperità come definita da Jackson è tutt’altro che compiuta e
rimane un miraggio per quella metà più povera della popolazione mondiale che
guadagna il 7% dei redditi totali, mentre l’1% che si situa al vertice della
piramide possiede il 50% della ricchezza globale[7]. Kate
Raworth, nel constatare il fallimento dell’attuale modello economico, propone
un’economia della ciambella, una raffigurazione grafica che rappresenta l’area
sicura ed equa, quella della ciambella appunto, entro cui si deve muovere
l’azione dell’uomo: superare le privazioni critiche dell’umanità senza produrre
degrado ambientale[8].
Abbandonando il modello neoliberale che, calibrato sull’analisi microeconomica,
ha come riferimento il breve periodo, l’economia deve tornare a ragionare in
termini di lungo periodo. Raworth e Jackson concordano nel rifiutare il Pil
quale indice del benessere e nel coniugare esigenze redistributive, egalitarie
e ambientali come punti cui un’economia che si pone come fine quello della
prosperità umana.
L’imperativo
della crescita ha dato forma all’economia moderna che si basa soprattutto sulla
produzione di beni materiali ma non si cura delle condizioni reali che sono
alla base di una vita appagante. D’altra parte, gli indicatori per definire una
vita soddisfacente riportano tutti a dati quantitativi incentrati sul possesso
di beni. Per contrastare il fenomeno della disutilità marginale del consumo
(l’ennesimo bene acquisito ci offre un grado di soddisfazione decrescente) e
della saturazione del mercato, si è ricorso all’obsolescenza programmata e a
massicce campagne di marketing che presentino un nuovo bene come altamente
desiderabile e imprescindibile per la realizzazione personale. Lo
psicanalista Jacques Lacan, non a caso, definiva discorso del
capitalista quello proprio di un regime che pone a fondamento di sé
l’imperativo sregolato del consumo di consumo e che fonda
un’etica antit-etica a quella weberiana del sacrificio del godimento nel
presente per garantire l’accumulazione e un profitto futuro[9]. Il
capitalismo, nel rendere fattuale tale discorso, produce e introduce nel
mercato oggetti che anziché soddisfare la domanda l’alimentano compulsivamente,
realizzando una forma di assoggettamento e non di liberazione. Il prodotto
primario del discorso del capitalista consiste nell’insoddisfazione resa
permanente, in quanto la soddisfazione prodotta dal possesso di un oggetto
lascia presto il posto all’anelito di possederne uno nuovo in un loop che
coinvolge l’intera esistenza individuale e collettiva. Il portato di
questo discorso, per dirla con Lacan, o della mercificazione dei
rapporti sociali, per dirla con Marx, è un mondo invaso dalle merci che non
arrecano reali benefici ai loro possessori, del tutto schiavi di un
comportamento compulsivo e autolesionista. Per Lacan, il discorso del
capitalista è più una manifestazione della pulsione di morte che
un’espressione della volontà di realizzare il desiderio. Il taglio
psicanalitico di questa critica al capitalismo ha il pregio di illuminare
l’attuale sistema egemone sotto una luce che ne evidenzia le pulsioni
liberticide e autodistruttive.
Sarebbe però
errato inquadrare il capitalismo come una naturale autobiografia dell’umanità,
dato che ne costituisce solo una deriva patologica. Ce lo dimostra la sua breve
esistenza, nell’arco della storia umana, la sua limitata estensione geografica
agli albori, nonché il ricorso alla violenza per essere poi imposto come
modello egemone sia economico che culturale. Non ci sarebbe stato, infatti, il
capitalismo, senza l’appoggio dello stato nazionale che attraverso la
prevaricazione, la violenza coloniale e imperialista lo ha esteso, fin dal XVII
secolo, in tutto il globo. Solo apparentemente, con l’ideologia neoliberale
tornata in voga alla fine degli anni Settanta del XX secolo, si è consumato il
divorzio tra lo stato e il capitalismo, o il mercato che dir si voglia. In
realtà lo stato, per quanto minato nella sua autonomia da organismi
sovranazionali e da imprese multinazionali, ha potenzialmente ancora la barra
del timone e ancora la esercita secondo quelle modalità contraddittorie che,
come notava James O’Connor[10], devono garantire l’accumulazione del
capitale e la propria legittimazione di fronte alle masse. Ma quella barra
potrebbe essere girata fino a invertire una tendenza che, lasciata allo
spontaneismo del capitale, porterebbe all’autodistruzione.
La crisi
ecologica non è semplicemente l’ennesima crisi prodotta da un sistema che dalle
crisi è sia dominato che dipendente (l’accumulazione riprende più forte dopo
ogni crisi). Potrebbe essere quella che porta al collasso l’umanità, alla
stregua di quanto è successo sull’isola di Pasqua, paradigma di un sistema
chiuso collassato a causa dell’uso indiscriminato delle risorse[11]. Per questo
rappresenta anche l’occasione per uscire da una logica produttiva qual è quella
capitalista. Certo è che non possiamo aspettarci un processo spontaneo. Lo
stato è l’arena del conflitto di interessi contrapposti e, senza la formazione
di una coscienza collettiva antagonista a questo modello economico, sarà
difficile non soccombere alle sirene di una transizione energetica che non
mette minimamente in discussione lo stile di vita e che si guarda bene dal
ridisegnare le priorità che devono dettare i nostri comportamenti collettivi e
individuali. Anche perché il potenziale messo in campo dal capitale per
conservare un business as usual, in termini di opinion maker e
di compenetrazione con il potere politico, è imponente. La democrazia, se fatta
agire, ha la potenzialità di poter realizzare gli interessi della collettività
e non dei potentati economici. Ma, per farla funzionare, occorre prepararsi e
battere il capitale a cominciare da quel campo della cultura che l’ha visto
egemone negli ultimi quarant’anni. Un nuovo pensiero critico è quanto mai
urgente, le risorse culturali e tecnologiche ci sono, occorre solo spingerle
verso una nuova fase in cui l’egemonia sia al servizio dei molti e non dei
pochi. In sostanza verso un sistema socialista, non declinato nel verso di
quello storico sperimentato nell’Europa dell’est nel XX secolo, ma finalizzato
a creare prosperità a livello globale nei limiti tracciati dalla ciambella.
[1]
Jason W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo
nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, 2017.
[2]
Mike Davis, Olocausti tardovittoriani. El Nino, le carestie e la
nascita del terzo mondo, Feltrinelli, 2001.
[3] É
la tesi di uno studio americano publicato nel marzo 2021 da “Population and
environment” ad opera di Sabrina Helm, Joya Kemper e Samantha K. White dal
titolo No future, no kids – no kids, no future?
[4]
Cfr.
http://www.popoli.info/easyne2/Primo_piano/Eni_in_Africa_un_bilancio_negativo.aspx
e https://www.amnesty.it/nigeria-scoperte-gravi-negligenze-parte-shell-ed-eni/
[5]
Agli interessi che ruotano intorno all’estrazione del litio si deve il golpe in
Bolivia con il conseguente esilio del presidente Evo Morales. Cfr.
https://rebelion.org/el-litio-y-la-soberania-mexico-y-bolivia/
[6] Tim
Jackson, Prosperità senza crescita. I fondamenti dell’economia di
domani, Edizioni Ambiente, 2017,.
[7]
Ibidem
[8]
Kate Raworth, L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come
un’economista del XXI secolo, Edizioni Ambiente, 2017.
[9]
Massimo Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica
psicoanalitica, R. Cortina Editore, 2010.
[10] James
O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Einaudi, 1979.
[11] Jared
Diamod, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere,
Einaudi, 2005.
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