A distanza di meno di un mese fra loro, eventi
traumatici in due Paesi-chiave della regione del Sahel quali il Mali e il Ciad,
hanno rinnovato dubbi e incertezze sulla strategia di stabilizzazione della
regione: una strategia che si era avviata con apparente successo nel 2013 con
l’intervento franco-ciadiano nel Nord del Mali, ma si è poi trascinata per otto
anni fino ad oggi con risultati deludenti. Nonostante la messa in opera di
dispositivi politico-militari sempre più articolati e dispendiosi, non si è
riusciti ad aver ragione del fenomeno jihadista, né ad arrestarne la diffusione ad altri Paesi prima
immuni come il Burkina Faso o il Niger. Alla fine di aprile l’uccisione del
Presidente del Ciad, Idriss Déby, attribuita alternativamente a una offensiva
dei ribelli ciadiani del FACT provenienti dalla Libia e appartenenti a un’etnia
(i Tebu) emarginata dal potere, oppure a militari dissidenti della medesima
etnia del Presidente, ha prodotto a Parigi reazioni di sgomento. Nonostante la
sua corruzione, il nepotismo e la progressiva deriva autoritaria del suo
regime, Déby era ritenuto uno dei più solidi alleati della Francia nella
regione e, soprattutto, un vero pilastro delle operazioni militari contro le
forze islamiste. Nei trent’anni dalla sua presa del potere, egli aveva
modellato attorno alla sua persona un regime d’impronta pretoriana, imperniato
su una forza armata ritenuta fra le più efficienti del continente, anche se
dispersa su troppi fronti non sempre coerenti. Déby l’aveva impiegata in
avventure militari probabilmente mirate a costituire una propria autonoma area
di influenza, con escursioni nel Congo durante la cosiddetta “guerra mondiale
africana”, poi verso il Sudan e infine verso la Repubblica Centrafricana, dalla
quale egli era stato alla fine estromesso. Più pragmaticamente, dal 2013 Il
Presidente del Ciad era di nuovo entrato nell’orbita di Parigi, offrendo a
Hollande un insostituibile appoggio in Mali e sostenendo poi tutte le
operazioni condotte dai francesi contro i jihadisti del Sahel attraverso la
cosiddetta “Operazione Barkhane”, mediante la quale l’intervento militare
focalizzato sul Mali era stato di fatto esteso all’intera regione. La sua
improvvisa caduta ha però svelato agli occhi dei francesi la fragilità di un
patto di sicurezza imperniato prevalentemente sul fattore militare e sul
sostegno a un “uomo forte”, piuttosto che su un retroterra politico e sociale
solido, dotato di regole democratiche e di successione certe e sostenibile su
se stesso.
Se la
scomparsa di Déby ha inferto un colpo pesante agli aspetti militari
dell’influenza francese nel Sahel, il nuovo “golpe” in Mali, per opera degli
stessi militari che avevano già provocato ad agosto la caduta del Governo
legittimo presieduto da Ibrahim Boubacar Keita, ha svelato le difficoltà e le
insufficienze politiche alla base dell’instabilità non solo del Mali, ma anche
degli altri Paesi della regione. Paradossalmente, proprio il Mali che
rappresenta adesso l’epicentro delle crisi politiche del Sahel, era invece
riuscito per circa un ventennio, dall’inizio degli anni ‘90 fino a quasi tutta
la prima decade del 2000, ad accreditarsi come il principale protagonista delle
cosiddette “transizioni democratiche” che, nel nuovo clima della fine della
guerra fredda e dietro l’impulso di Mitterrand, avevano coinvolto (a eccezione
del Ciad) diversi Paesi della regione, sia pure con tempi sfasati e difficoltà
di percorso. Il regolare svolgimento di elezioni politiche non è stato privo di
effetti positivi nel Paese, riuscendo quantomeno a radicare nella popolazione
un certo attaccamento alle forme e alle prerogative dell’Assemblea Nazionale.
Né la classe politica, né la società civile sono però riuscite ad estendere la
partecipazione democratica oltre i confini della capitale e delle provincie
meridionali (dove peraltro si concentra il 90% della popolazione del Paese),
restando sostanzialmente insensibili alle domande, d’inclusione politica ma
soprattutto di servizi e sviluppo, delle popolazioni delle regioni centrali e
settentrionali, diverse etnicamente e già percorse da pulsioni separatiste.
Questo profondo divario interno, ancor più politico e sociale che etnico, era
stato una delle cause principali della progressiva perdita di controllo, già
durante il 2011, di ampie porzioni del Paese, poi culminato l’anno successivo
con la sollevazione indipendentistica da parte di movimenti tuareg, già in
parte contaminati dall’ideologia islamista.
La crisi
militare in Ciad e quella politica in Mali, ai due poli più sensibili del
nucleo dei Paesi del Sahel, hanno costituito una spia eloquente delle
difficoltà dei Paesi della regione, nonché della crescente frustrazione dei
francesi che li hanno sostenuti militarmente, certo anche a difesa dei propri
interessi. Esse, però, sono solo la parte emergente di un complesso di
situazioni critiche irrisolte che riguardano l’intera fascia del Sahel e, in
modo particolare, quella sua porzione più omogenea che si estende dalla
Mauritania fino al Ciad (a Est, il Sudan e l’Eritrea risentono anche e
soprattutto delle diverse dinamiche geopolitiche del Corno d’Africa). Lo stesso
Sahel, d’altronde, comincia a essere definito quale entità geopolitica e non
più soltanto geo-climatica, proprio da una crisi generalizzata: la siccità e la
carestia che colpirono tutti i Paesi della regione, fino al Corno d’Africa e
all’Etiopia, nel biennio 1972/1973. Fu proprio quella gravissima crisi
climatica e umanitaria a causare lo spostamento di grandi masse di popolazioni
nomadi e semi-nomadi (Tuareg, Tebu, Peul/Fulani..) verso sud. Il loro
stanziamento nelle aree settentrionali dei Paesi saheliani fu la causa
scatenante di conflitti con le popolazioni preesistenti di agricoltori e
pescatori per il controllo dell’acqua e delle risorse del territorio,
producendo – con le parole di Mario Giro – “effetti che sono durati decenni,
sconvolgendo il fragile equilibrio sociale ed economico dell’area”. Un secondo
periodo di svolta per la regione si colloca tra la fine degli anni ‘90 e il
2011. Esso fu segnato prima dalle ricadute verso sud dell’offensiva islamica
fondamentalista in Algeria che, sconfitta politicamente e militarmente, finì
per ripiegare verso la regione sahariana e saheliana trovandovi scarsi
controlli, nuove opportunità legate a ogni tipo di traffici illegali e fresche
occasioni di reclutamento fra i giovani, spesso appartenenti alle etnie
sradicate e disposti ad accogliere un’ideologia radicale capace di canalizzare
al tempo stesso frustrazione, rivolta ed autoaffermazione. Ancora più
dirompenti, com’è ben noto, sono state le conseguenze della caduta di Gheddafi.
Essa ha provocato, insieme con l’aumento delle migrazioni attraverso il
Mediterraneo, un altrettanto importante riflusso verso sud dei giovani
immigrati subsahariani restati senza lavoro, delle milizie reclutate in Mali,
Niger o Ciad e già al soldo di Gheddafi, e naturalmente una incontrollabile
circolazione di armamenti: la prima miccia dell’insurrezione del 2012 in Mali
fu per l’appunto accesa da gruppi armati Tuareg, smobilitati dalla Libia e
alleatisi con formazioni jihadiste.
Anche
da questa sintesi sommaria emerge la difficoltà di identificare focolai precisi
di crisi, da estirpare con interventi militari chirurgici o curare con
politiche più inclusive. Anche se ciascuno dei Paesi del Sahel presenta le
proprie specificità, forti similarità di struttura li accomunano sotto il
profilo sociale e geopolitico. Fra questi: il divario fra nord e sud; l’impatto
degli spostamenti di popolazione degli anni ‘70 che ne modificarono il profilo
etnico e la composizione economica, gettando il seme dei conflitti d’interesse
fra le popolazioni nomadi e semi-nomadi e quelle stanziali; l’influenza,
infine, delle insorgenze islamiste provenienti dall’Africa settentrionale, che
(non diversamente da quanto accaduto in Iraq e in Siria) hanno trovato alimento
dal fallimento delle primavere arabe e della rivoluzione libica,
sovrapponendosi ai conflitti intra e inter-comunitari preesistenti. E’ il caso
dei Tuareg in Mali, dei Peul in quasi tutti i Paesi del Sahel o infine dei Tebu
insorti in Ciad contro il regime di Déby.
Chi ha
riflettuto sulle crisi del Sahel non ha perciò esitato a parlare di un vero e
proprio “sistema di conflitti”: non perché dietro di loro si celi un’unica mano
invisibile o una singola matrice di tipo ideologico, religioso oppure
politico-economico; ma perché le loro motivazioni fondamentali tendono a
riflettersi da Paese a Paese, con protagonisti che appartengono spesso a etnie
affini o ricoprono ruoli analoghi e attraverso una fitta rete di relazioni
etniche, claniche, religiose, sociali ed economiche che superano lo spazio dei
confini nazionali e riproducono, in altra forma, quella funzione di
crocevia di popolazioni e culture che il Sahel aveva svolto prima dell’epoca
coloniale. Mentre il concetto di “sistema” rimanda a questa profondità e
complessità di cause e relazioni, i conflitti saheliani fanno sempre più
emergere la percezione che esso rappresenti il vero “confine” dell’Europa, la
linea di faglia intorno alla quale i due continenti si confrontano sulle grandi
questioni strategiche delle materie prime e dell’energia, degli squilibri
demografici e delle migrazioni e, infine, della lotta al terrorismo. Una
percezione, questa, in parte corretta ma potenzialmente fuorviante, qualora
implicasse la prescrizione illusoria che questa linea di frontiera potesse
essere controllata mediante un vallo securitario e militare. Com’è stato però
osservato, in quella regione l’ordine politico non procede secondo le logiche
dello spazio cartesiano, ma risente di una concezione dello spazio e della
politica diversa, legata alla circolazione, alle alleanze e ai diritti di
passaggio.
Analoga
fluidità sembra riscontrarsi in un ultimo aspetto delle crisi saheliane: la
loro posizione in un quadro geopolitico più ampio, in cui la competizione tra
grandi potenze è perseguita attraverso il controllo su aree e risorse
strategiche. L’appartenenza dei Paesi del Sahel all’area d’influenza francese,
indiscussa dopo l’indipendenza e rinsaldata sul piano geopolitico dalla Guerra
Fredda, e su quello economico/finanziario dal Franco CFA e da quel coacervo
d’interessi economici fra la Francia e le classi politiche africane cui si è
dato l’appellativo di Françafrique, si è mantenuta ma ha subito una
visibile erosione. Ai fattori d’instabilità esterni e interni, si è aggiunta
una sempre più diffusa disaffezione e insofferenza degli strati più giovani
della popolazione verso i legami di dipendenza dalla metropoli, resi più palesi
dalla diffusione intrusiva dei dispositivi militari francesi dopo il 2012. A questo
graduale deterioramento Macron ha cercato di porre rimedio, stimolando una
maggiore implicazione dei Paesi del Sahel nel contrasto al terrorismo (G5),
incoraggiando la cooperazione di altri soggetti europei e annunciando una
riforma del meccanismo monetario del Franco CFA. A questi sforzi, che
testimoniano della difficile evoluzione dei legami post-coloniali verso un
rapporto meno esclusivo, ha fatto riscontro la crescita degli interessi
economici e/o strategici di altre potenze grandi o medie. In gran parte
desertici e soggetti a periodiche siccità, carestie e gravi crisi umanitarie, i
Paesi del Sahel sono però ricchi di risorse e materie prime pregiate: uranio in
Niger, oro e petrolio nel Fezzan e in Ciad, possibili giacimenti di petrolio e
gas in Mali e Mauritania e, soprattutto, quelle “terre rare” richieste dalle
produzioni più innovative e oggetto di un’aspra contesa fra la Cina e gli Stati
Uniti. Mentre gli Stati Uniti, pur non sempre consonanti con l’approccio della
Francia, hanno comunque fornito un importante supporto logistico e
d’intelligence alle operazioni militari mantenendo anche alcune basi operative
nel Sahel in Niger e in Ciad, la Cina si è guardata bene dall’andare oltre un
sostegno declaratorio al G5, perseguendo un approccio geo-economico che ha
accuratamente evitato il coinvolgimento politico-militare, pur non rifuggendo
dall’assumere rischi su mercati di frontiera come il Mali o il Sud Sudan.
Diverso l’approccio dei russi che – non in grado di competere con i cinesi sul
piano commerciale o finanziario – hanno offerto i propri servizi sul mercato
loro più congeniale, quello militare e della sicurezza. Dopo aver a lungo
abbandonato il continente africano che pure aveva costituito, con numerosi e
cruenti conflitti per procura, uno dei teatri più mobili e con maggior libertà
di manovra della guerra fredda, essi si stanno di nuovo affacciando
assertivamente sull’Africa: l’enfasi del primo vertice Russia-Africa sulla
cooperazione militare è stata confermata dalle intrusioni “ibride” dei contractors
della “Wagner” in Libia a fianco di Haftar, e in forma meno palese ma diffusa
anche nel Sahel, attraverso programmi di formazione in Mali, che pare abbiano
implicato proprio l’attuale leadership golpista, rapporti non chiari con gli
insorti ciadiani e, soprattutto, un aperto sostegno al Governo centrafricano.
Anche se recenti interpretazioni giornalistiche vi intravedono un disegno volto
a scalzare l’egemonia francese, le incursioni russe in Africa non sembrano per
ora appoggiarsi su una coerente strategia, pur svolgendo azione di disturbo e
contribuendo a conferire maggior profondità alla presenza militare ai bordi del
Mediterraneo, questa è corrispondente a un’antica e mai sopita aspirazione
russa.
L’attuale,
rinnovato interesse dell’Unione Europea verso il Sahel si fonda sulla
percezione che l’instabilità di questa regione sia legata a quella della Libia,
e che entrambe pongano serie minacce all’Europa stessa sotto il profilo della
sicurezza, del terrorismo e dei traffici illegali, fra cui soprattutto quello
degli esseri umani. Per questo il Sahel è stato riconosciuto nel 2019 come una
priorità strategica dell’UE, comportando l’avvio di numerose iniziative di
sostegno alle forze armate e di sicurezza locali, mediante iniziative di
formazione, il potenziale utilizzo (anche per gli armamenti) di un fondo come
la European Peace Facility e infine l’avvio di una task force operativa come la
Takuba, destinata a operare nel triangolo di frontiera fra Mali, Niger e
Burkina con la partecipazione volontaria di alcuni Paesi (fra cui anche
l’Italia). Proprio il doppio fallimento delle politiche sin qui condotte
soprattutto dalla Francia, politico in Mali e militare in Ciad, ha conferito
nuova forza alle voci di chi già criticava l’assoluta priorità conferita agli
aspetti militari e di sicurezza sugli altri elementi della strategia 35
Articoli e studi sui nuovi scenari internazionali per il Sahel, invocando un
più solido “pilastro politico” mirato a ri-conferire credibilità a Stati in
evidente perdita di consensi e di fiducia, rafforzando la loro capacità di
fornire servizi pubblici alle aree e alle popolazioni più marginali e di
svolgere un ruolo di mediazione pacifica nei conflitti locali intorno alle
risorse naturali, ruolo in cui sempre più spesso alle autorità centrali si sono
sostituiti gli stessi insorti jihadisti. L’accento sulla governance non è certo
nuovo ed era stato già indicato da Prodi, primo inviato per il Sahel delle
Nazioni Unite, fra i principali obiettivi strategici da perseguire. Questo
suggerimento non era poi stato messo in pratica, restando a uno stadio astratto
senza identificare specifiche pratiche di riforma, forse perché il timore di
destabilizzare i già precari Governi in carica aveva alla fine privilegiato un
approccio più pragmatico e appiattito sull’esistente. Nonostante i sempre più
forti richiami a una riforma delle strategie per il Sahel, si tratta di un nodo
politico che resta attuale, come dimostra l’atteggiamento oscillante tenuto sia
dagli organismi interafricani, sia dalla Francia verso le giunte militari
transitorie installatesi in Mali e in Ciad: apparentemente più rigido nel primo
caso, molto più accomodante nel secondo. Esso potrà essere sciolto solo con
un’iniziativa più incisiva da parte di tutti i soggetti politici internazionali,
coinvolgendo soprattutto molto di più, e non solo per quanto concerne gli
aspetti militari, sia i Paesi della Regione sia le organizzazioni regionali e
panafricane. Al riconoscimento, in gran parte acquisito, della gravità della
crisi sotto il profilo securitario, va aggiunta anche una maggiore
consapevolezza che essa sarà difficilmente risolta se non se ne affronteranno
anche le radici, che non rimandano solo a fattori esterni, ma anche a conflitti
interni e all’incapacità delle classi politiche locali ad affrontarli con
riforme inclusive. Anche l’Italia dovrebbe tener conto di questo nodo, nel
momento in cui una personalità del nostro Paese è stata chiamata all’incarico
di rappresentante dell’UE per il Sahel e in cui sembra inaugurarsi – con il recente
incontro a Bruxelles fra Draghi e Macron – un nuovo corso di collaborazione
italo-francese nella regione. Troppo riduttivo e probabilmente inefficace
apparirebbe un semplice trade off fra un’azione più solidale fra i due Paesi in
Libia e un nostro cenno di attenzione, ancora una volta soprattutto sul piano
militare, per il Sahel. Molto resta ancora da fare soprattutto in Europa,
affinché l’interesse politico verso la regione in tutti i suoi aspetti,
migrazioni comprese, sia condiviso da tutta l’Unione e non più soltanto
trainato da alcuni suoi membri come la Francia di Macron: ora più consapevole
dell’insostenibilità dei vecchi approcci verso le ex-colonie, ma in difficoltà
nell’articolare un piano d’azione che non equivalga a un puro e semplice abbandono.
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