Anche Jeremy Corbyn, in risposta
all’invito lanciato da Greta Thunberg e fatto proprio da Fridays for future, ha
chiesto al governo inglese di proclamare lo stato di emergenza climatica.
L’emergenza per il clima rivendicata dal movimento non va confusa con lo stato
di emergenza definito dalla Legge 225/92 che per far fronte a un disastro
assegna alla protezione civile, per periodi limitati, poteri di deroga ad
alcune delle leggi vigenti. E’ un’emergenza più profonda, generale e duratura,
che nasce dalla consapevolezza che mancano pochi anni al momento in cui il
cambiamento in corso diventerà irreversibile, rendendo il pianeta, nel giro di
pochi decenni, invivibile per tutti. Quell’emergenza è un obiettivo politico,
tanto semplice quanto drastico: tutto ciò che concorre a perpetuare o aggravare
i cambiamenti climatici in corso va bloccato nel più breve tempo possibile e
tutto ciò che consente di contenerne il trend va realizzato al più presto.
Tutti gli altri obiettivi di ordine sociale ed economico vanno subordinati a
questa regola, bilanciando gli inconvenienti a cui questo cambio di passo può
dar luogo con i benefici che se ne possono ricavare. Non è un principio
astratto, a cui ci si può sottrarre con continui rinvii, come hanno fatto
finora tutti i politici di governo e di opposizione. Per questo va articolato a
vari livelli – locale, aziendale, settoriale, nazionale, europeo e planetario –
a ciascuno dei quali si dovranno costruire comitati e coordinamenti per
definire, rivendicare e imporre obiettivi specifici: un processo attraverso cui
il movimento potrà strutturarsi, estendersi e affermarsi. Alcune cose sono già
chiare: entità e tempi della riduzione delle emissioni climalteranti sono stati
fissati dall’accordo di Parigi (ma forse sono insufficienti; e comunque
superano gli impegni – Ndc – assunti da molti governi, che a loro volta non
rispettano nemmeno quelli). Ma finché quegli obiettivi non saranno tradotti in
cose da fare e in cose da non fare più, a ciascuno dei livelli considerati,
anche tutti quegli impegni rischiano di rimanere sulla carta. Greta sostiene
spesso che i governi sanno benissimo che cosa si deve fare – glielo dicono gli
scienziati – ma non lo fanno. Non è così; i politici ascoltano poco gli
scienziati (hanno altro da fare), anche perché quegli obiettivi vanno tradotti
in piani e progetti che collidono con tutto ciò che sta alla base dei loro
piccoli o grandi poteri; e poi, una transizione così radicale crea scontento,
non solo tra chi trae i maggiori benefici dal mondo attuale, ma anche tra chi
teme di perdere il poco che ha senza scorgerne i vantaggi. Per questo, ad
articolare quegli obiettivi dobbiamo pensarci noi, il movimento, a partire da
dove stiamo, lavoriamo, studiamo.
Il movimento è partito dagli studenti che potrebbero costituire in ogni scuola o dipartimento un comitato per l’emergenza climatica e promuovere – confrontandosi con i tecnici e gli esperti che lo sostengono – iniziative come la conversione energetica dell’edificio (alimentazione elettrica, riscaldamento e isolamento termico); una mobilità pubblica ed economica, soprattutto per chi viene da lontano; l’utilizzo dello stabile fuori dell’orario didattico e, soprattutto, una riprogrammazione della didattica. L’educazione ambientale non è una “materia” da aggiungere alle altre; deve scaturire da una revisione di tutte le discipline curriculari, e di lì irradiare su tutto il territorio una cultura ambientale e civica aggiornata: raggiungere le famiglie e le associazioni civiche, ambientaliste e culturali già presenti. Con queste si potrà lavorare per elaborare – sempre con il supporto di tecnici ed esperti disponibili, che sono tanti e in gran parte soffrono di essere inutilizzati – piani di massima per la conversione energetica del quartiere, dei condominii, dei servizi, per il potenziamento del trasporto pubblico a livello territoriale, per la salvaguardia del suolo e della biodiversità (verde pubblico) e, appoggiandosi ai GAS (Gruppi di acquisto solidale) presenti, di conversione a un’alimentazione sostenibile. Gli istituti che si metteranno su questa strada avranno un ruolo trainante su tutti gli altri. E non sarà necessario aver coinvolto tutto il territorio per porsi come interlocutore dell’emergenza climatica nei confronti del Comune. Molte delle richieste relative a questo livello sono già state studiate o sono facilmente formulabili. Ma conta il metodo: per ciascuna di esse deve esserci un comitato o un coordinamento in grado di svilupparle, di seguirne l’iter, di promuovere la mobilitazione e, soprattutto, di coinvolgere quei cittadini e lavoratori che si ritengono a rischio, definendo insieme a loro le condizioni di una transizione che non li danneggi. La conversione ecologica è innanzitutto questione di partecipazione. E così anche a livello nazionale ed europeo: elezioni e post-elezioni possono essere l’occasione per stabilire contatti e di programmi comuni con i movimenti di altri paesi dell’Unione; per poi chiamare a confronto le forze politiche che formeranno il nuovo parlamento. Una cosa è certa: il movimento per il clima e la sua forza continueranno a crescere perché saranno sempre più gravi ed evidenti le conseguenze dell’attuale inerzia. Il problema è non farsi trovare impreparati nel momento in cui tutti saranno costretti a riconoscerne le ragioni.
Il movimento è partito dagli studenti che potrebbero costituire in ogni scuola o dipartimento un comitato per l’emergenza climatica e promuovere – confrontandosi con i tecnici e gli esperti che lo sostengono – iniziative come la conversione energetica dell’edificio (alimentazione elettrica, riscaldamento e isolamento termico); una mobilità pubblica ed economica, soprattutto per chi viene da lontano; l’utilizzo dello stabile fuori dell’orario didattico e, soprattutto, una riprogrammazione della didattica. L’educazione ambientale non è una “materia” da aggiungere alle altre; deve scaturire da una revisione di tutte le discipline curriculari, e di lì irradiare su tutto il territorio una cultura ambientale e civica aggiornata: raggiungere le famiglie e le associazioni civiche, ambientaliste e culturali già presenti. Con queste si potrà lavorare per elaborare – sempre con il supporto di tecnici ed esperti disponibili, che sono tanti e in gran parte soffrono di essere inutilizzati – piani di massima per la conversione energetica del quartiere, dei condominii, dei servizi, per il potenziamento del trasporto pubblico a livello territoriale, per la salvaguardia del suolo e della biodiversità (verde pubblico) e, appoggiandosi ai GAS (Gruppi di acquisto solidale) presenti, di conversione a un’alimentazione sostenibile. Gli istituti che si metteranno su questa strada avranno un ruolo trainante su tutti gli altri. E non sarà necessario aver coinvolto tutto il territorio per porsi come interlocutore dell’emergenza climatica nei confronti del Comune. Molte delle richieste relative a questo livello sono già state studiate o sono facilmente formulabili. Ma conta il metodo: per ciascuna di esse deve esserci un comitato o un coordinamento in grado di svilupparle, di seguirne l’iter, di promuovere la mobilitazione e, soprattutto, di coinvolgere quei cittadini e lavoratori che si ritengono a rischio, definendo insieme a loro le condizioni di una transizione che non li danneggi. La conversione ecologica è innanzitutto questione di partecipazione. E così anche a livello nazionale ed europeo: elezioni e post-elezioni possono essere l’occasione per stabilire contatti e di programmi comuni con i movimenti di altri paesi dell’Unione; per poi chiamare a confronto le forze politiche che formeranno il nuovo parlamento. Una cosa è certa: il movimento per il clima e la sua forza continueranno a crescere perché saranno sempre più gravi ed evidenti le conseguenze dell’attuale inerzia. Il problema è non farsi trovare impreparati nel momento in cui tutti saranno costretti a riconoscerne le ragioni.
[Da Pressenza]
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