giovedì 16 maggio 2019

Il silenzio come resistenza politica - Pablo Bujalance


Sociologo, antropologo, docente alla Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Scienze Umane Marc Bloch di Strasburgo, il pensatore francese David Le Breton (Le Mans, 1953) incarna come pochi dei suoi contemporanei la migliore tradizione intellettuale del suo paese. In Italia ha pubblicato molti libri di successo, come Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondoIl mondo a piedi. Elogio della marcia e Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, in cui punta su forme concrete di resistenza di fronte alla disumanizzazione del presente.
Mi permetta una domanda piuttosto elementare per cominciare: lei definisce il silenzio come forma di resistenza, ma da dove nasce il rumore?
Gran parte del nostro rapporto con il rumore deriva dallo sviluppo tecnologico, specialmente nella sua natura più portatile: portiamo sempre addosso dispositivi che ci ricordano che siamo connessi, che ci avvisano quando abbiamo ricevuto un messaggio, che organizzano i nostri orari fondati sul rumore. Questa situazione è venuta a combinarsi con quelle che avevano già preso forma del secolo XX come abitudini contrarie al silenzio, in special modo nelle grandi città, governate dal traffico e da numerose varietà di inquinamento acustico. In questo contesto, il silenzio implica una forma di resistenza, un modo di mantenere una dimensione interiore al sicuro dalle aggressioni esterne. Il silenzio ci permette di essere consapevoli della connessione che manteniamo con questo spazio interiore, la rende visibile, mentre il rumore la nasconde.
Un altro modo che abbiamo di connetterci con il nostro interiore è camminare, che si svolge nello stesso silenzio.
Forse il problema più grande è che, alla comunicazione, sono stati tolti i meccanismi propri della conversazione ed è diventata altamente utilitaria, basata su dispositivi portatili. E la pressione psicologica che sopportiamo per accumularli è enorme.
È più facile coltivare e incoraggiare il silenzio in Oriente che in Europa e negli Stati Uniti, per esempio?
Sì, nella tradizione giapponese c’è una nozione molto importante di disciplina interiore che si è cristallizzata in sistemi di pensiero come la filosofia zen. Diciamo che in Oriente sono molto avanti, ma le invasioni contro le quali conviene opporre resistenza, sono già le stesse.
Che cosa risponderebbe a coloro che sostengono che il silenzio è una confessione di ignoranza?
Il silenzio è l’espressione più vera ed effettiva delle cose innominabili. E la consapevolezza che ci sono determinate esperienze per le quali il linguaggio non serve o non basta, è un aspetto decisivo della conoscenza. In questo senso, le tradizioni come il cristianesimo, in cui il silenzio è molto importante, sono rivelatrici: la saggezza è finalizzata a comprendere ciò che non può essere detto, ciò che trascende il linguaggio. In questa stessa tradizione, il silenzio è un modo di avvicinarsi a Dio, che si può anche interpretare come conoscenza. Possiamo usare il silenzio per conoscere meglio noi stessi, per isolarci dal rumore. E questo è un valore da rivendicare nel presente.
A proposito di fuggire da sé stessi, penso alla psicologia costruttivista e agli autori come Jean Piaget. Sarebbe possibile formulare una psicologia della decostruzione per la personalità?
Sì, è possibile arrivare a questo attraverso una disciplina, esercitandosi nel silenzio. Come ti ti raccontavo, in Giappone questa disciplina è una cosa molto comune. Possiamo andare aprendo nella nostra routine quotidiana, buchi per il silenzio, per meditare e incontrarci con noi stessi e, con la disciplina adeguata, questi buchi saranno ogni volta maggiori. La mia più grande esperienza in questo senso, quella definitiva, è stata sul Cammino di Santiago: quando finalmente sono arrivato a Compostela, ho capito di essermi completamente trasformato dopo molti giorni in marcia e in assoluto silenzio. È stata una rinascita.
In Francia avete una grande tradizione del camminare con Balzac e la figura del flâneur.
Sì, camminare nelle città, vagare senza una meta concreta. Non solo Balzac, anche Flaubert lo sosteneva. E per i situazionisti divenne una questione fondamentale. Camminare è un altro modo di diventare consapevoli di sé stessi, di ricomporsi nel proprio corpo, nel respiro, nel silenzio interiore. C’è chi, nel Medioevo, si riuniva a camminare nel deserto, ma la pratica del camminare nelle città è associata al piacere. Si tratta di godere di ciò che si percepisce, di deliziarsi con le attrazioni che la città ti offre attraverso i sensi. È un’attività edonistica. Anche Jean Baudrillard e gli intellettuali che si mossero sulla scia di Sartre la definirono in questo modo, come una pratica contraria al puritanesimo.
È a causa di questa peculiare resistenza che chi cammina senza meta viene considerato folle?
Esatto, ed è per questo che il camminare, così come il silenzio, è una forma di resistenza politica. Non appena esci di casa e ti muovi, ti ritrovi immediatamente condizionato da criteri utilitaristici che chiariscono perfettamente dove devi andare, da che parte e in che modo.
Camminare per camminare, eliminando dalla pratica qualsiasi tipo di apprezzamento inutile, con una decisa intenzione di contemplazione, implica una resistenza contro quell’utilitarismo e, contemporaneamente, anche contro il nazionalismo, che è il suo principale benefattore. Camminare ti permette di avvertire la bellezza della Cattedrale, il gatto giocoso che lì si nasconde, i colori del tramonto, senza altro fine, perché questo è tutto il suo fine: la contemplazione del mondo. Di fronte a un utilitarismo che concepisce il mondo come mezzo di produzione, il camminatore assimila il mondo contenuto nelle città come un fine in sé stesso. E questo, ovvio, è contrario alla logica imperante. Da qui il legame con la follia.
Tuttavia, con le trasformazioni in centri commerciali, e penso nel cuore della stessa Málaga, le città non sono diventate i peggiori nemici dei camminatori?
Sì, non ha tutti i torti. In effetti, tutte le grandi città, siano esse Parigi o Tokyo, sono già diventate aree commerciali. È molto importante che le città trovino un equilibrio tra le risorse che garantiscono la loro prosperità e la qualità della vita di coloro che risiedono in esse. Altrimenti, le città diventano entità disumanizzanti. Il fatto di camminare per le strade senza alcun interesse a comprare o spendere soldi, vagando senza meta, qua e là, solo per il gusto di farlo, è anche un modo di renderle più umane, di ribellarsi agli ordini che convertono tutte e ognuna delle interazioni umane in un processo economico.
Tornando al silenzio, l’industria culturale non è stata uno dei principali canali del rumore nell’ultimo mezzo secolo?
Sì, è così. Sono d’accordo. Nel mio libro Du Silence ho trattato questa questione. Perché, alla fine, l’industria culturale diventa una forma di potere politico. Un’attività culturale dovrebbe essere orientata sull’incontro con sé stessi, al riconoscersi dentro, allo stabilire un dialogo intimo senza uscire dal sé, aiutandosi con gli strumenti che la cultura dovrebbe mettere a disposizione. Abbiamo, invece, una cultura che è sempre più di massa e meno di persone, una cultura in cui è impossibile riconoscersi. Attraverso il silenzio è importante anche opporre resistenza alle forme invasive della cultura.

(Fonte: blog del proyecto lemu, fonte originale: Diario de Sevilla
Traduzione per Comune-info: I’x Valexina)

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