Sociologo,
antropologo, docente alla Facoltà di Scienze Sociali dell’Università di Scienze
Umane Marc Bloch di Strasburgo, il pensatore francese David Le Breton (Le Mans,
1953) incarna come pochi dei suoi contemporanei la migliore tradizione
intellettuale del suo paese. In Italia ha pubblicato molti libri di successo,
come Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, Il mondo a piedi. Elogio della marcia e Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, in cui punta su forme concrete di resistenza di fronte alla
disumanizzazione del presente.
Mi permetta una domanda piuttosto elementare per
cominciare: lei definisce il silenzio come forma di resistenza, ma da dove
nasce il rumore?
Gran parte del nostro rapporto con il rumore deriva
dallo sviluppo tecnologico, specialmente nella sua natura più portatile:
portiamo sempre addosso dispositivi che ci ricordano che siamo connessi, che ci
avvisano quando abbiamo ricevuto un messaggio, che organizzano i nostri orari
fondati sul rumore. Questa situazione è venuta a combinarsi con quelle che
avevano già preso forma del secolo XX come abitudini contrarie al silenzio, in
special modo nelle grandi città, governate dal traffico e da numerose varietà
di inquinamento acustico. In questo contesto, il silenzio implica una forma di
resistenza, un modo di mantenere una dimensione interiore al sicuro dalle
aggressioni esterne. Il silenzio ci permette di essere consapevoli della
connessione che manteniamo con questo spazio interiore, la rende visibile,
mentre il rumore la nasconde.
Un altro modo che abbiamo di connetterci con il nostro
interiore è camminare, che si svolge nello stesso silenzio.
Forse
il problema più grande è che, alla comunicazione, sono stati tolti i meccanismi
propri della conversazione ed è diventata altamente utilitaria, basata su
dispositivi portatili. E la pressione psicologica che sopportiamo per
accumularli è enorme.
È più facile coltivare e incoraggiare il silenzio in
Oriente che in Europa e negli Stati Uniti, per esempio?
Sì,
nella tradizione giapponese c’è una nozione molto importante di disciplina
interiore che si è cristallizzata in sistemi di pensiero come la filosofia zen.
Diciamo che in Oriente sono molto avanti, ma le invasioni contro le quali
conviene opporre resistenza, sono già le stesse.
Che cosa risponderebbe a coloro che sostengono che il
silenzio è una confessione di ignoranza?
Il
silenzio è l’espressione più vera ed effettiva delle cose innominabili. E la
consapevolezza che ci sono determinate esperienze per le quali il linguaggio
non serve o non basta, è un aspetto decisivo della conoscenza. In questo
senso, le tradizioni come il
cristianesimo, in cui il silenzio è molto importante, sono rivelatrici: la
saggezza è finalizzata a comprendere ciò che non può essere detto, ciò che
trascende il linguaggio. In questa stessa tradizione, il silenzio è un
modo di avvicinarsi a Dio, che si può anche interpretare come conoscenza.
Possiamo usare il silenzio per conoscere meglio noi stessi, per isolarci dal
rumore. E questo è un valore da rivendicare nel presente.
A proposito di fuggire da sé stessi, penso alla
psicologia costruttivista e agli autori come Jean Piaget. Sarebbe possibile
formulare una psicologia della decostruzione per la personalità?
Sì, è
possibile arrivare a questo attraverso una disciplina, esercitandosi nel
silenzio. Come ti ti raccontavo, in Giappone questa disciplina è una cosa molto
comune. Possiamo andare aprendo nella nostra routine quotidiana, buchi per il
silenzio, per meditare e incontrarci con noi stessi e, con la disciplina
adeguata, questi buchi saranno ogni volta maggiori. La mia più grande
esperienza in questo senso, quella definitiva, è stata sul Cammino di Santiago:
quando finalmente sono arrivato a Compostela, ho capito di essermi
completamente trasformato dopo molti giorni in marcia e in assoluto silenzio. È
stata una rinascita.
Sì,
camminare nelle città, vagare senza una meta concreta. Non solo Balzac, anche
Flaubert lo sosteneva. E per i situazionisti divenne una questione
fondamentale. Camminare è un altro
modo di diventare consapevoli di sé stessi, di ricomporsi nel proprio corpo,
nel respiro, nel silenzio interiore. C’è chi, nel Medioevo, si riuniva a
camminare nel deserto, ma la
pratica del camminare nelle città è associata al piacere. Si tratta di godere
di ciò che si percepisce, di deliziarsi con le attrazioni che la città ti offre
attraverso i sensi. È un’attività edonistica. Anche Jean
Baudrillard e gli intellettuali che si mossero sulla scia di Sartre la
definirono in questo modo, come una pratica contraria al puritanesimo.
È a causa di questa peculiare resistenza che chi
cammina senza meta viene considerato folle?
Esatto,
ed è per questo che il camminare,
così come il silenzio, è una forma di resistenza politica. Non appena esci di
casa e ti muovi, ti ritrovi immediatamente condizionato da criteri
utilitaristici che chiariscono perfettamente dove devi andare, da che parte e
in che modo.
Camminare
per camminare, eliminando dalla pratica qualsiasi tipo di apprezzamento
inutile, con una decisa intenzione di contemplazione, implica una resistenza
contro quell’utilitarismo e, contemporaneamente, anche contro il nazionalismo,
che è il suo principale benefattore. Camminare ti permette di avvertire la
bellezza della Cattedrale, il gatto giocoso che lì si nasconde, i colori del
tramonto, senza altro fine, perché questo è tutto il suo fine: la
contemplazione del mondo. Di fronte a un utilitarismo che concepisce il mondo
come mezzo di produzione, il camminatore assimila il mondo contenuto nelle
città come un fine in sé stesso. E questo, ovvio, è contrario alla logica
imperante. Da qui il legame con la follia.
Tuttavia, con le trasformazioni in centri commerciali,
e penso nel cuore della stessa Málaga, le città non sono diventate i peggiori
nemici dei camminatori?
Sì, non
ha tutti i torti. In effetti, tutte
le grandi città, siano esse Parigi o Tokyo, sono già diventate aree commerciali.
È molto importante che le città trovino un equilibrio tra le risorse che
garantiscono la loro prosperità e la qualità della vita di coloro che risiedono
in esse. Altrimenti, le città diventano entità disumanizzanti. Il fatto di
camminare per le strade senza alcun interesse a comprare o spendere soldi,
vagando senza meta, qua e là, solo per il gusto di farlo, è anche un modo di
renderle più umane, di ribellarsi agli ordini che convertono tutte e ognuna
delle interazioni umane in un processo economico.
Tornando al silenzio, l’industria culturale non è
stata uno dei principali canali del rumore nell’ultimo mezzo secolo?
Sì, è
così. Sono d’accordo. Nel mio libro Du Silence ho trattato questa
questione. Perché, alla fine, l’industria culturale diventa una forma di potere
politico. Un’attività culturale dovrebbe essere orientata sull’incontro con sé
stessi, al riconoscersi dentro, allo stabilire un dialogo intimo senza uscire
dal sé, aiutandosi con gli strumenti che la cultura
dovrebbe mettere a disposizione. Abbiamo, invece, una cultura che è sempre più
di massa e meno di persone, una cultura in cui è impossibile riconoscersi.
Attraverso il silenzio è importante anche opporre resistenza alle forme
invasive della cultura.
(Fonte:
blog del proyecto lemu, fonte originale: Diario
de Sevilla
Traduzione per
Comune-info: I’x Valexina)
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