L'evanescenza
dell'antinomia fra Unione Europea e Stato nazionale è dimostrata dal
progressivo affermarsi, nelle pratiche di lotta dei movimenti sociali e nella
teorizzazione intellettuale alternativa, del paradigma dei beni comuni.
Se
corrispondesse a realtà l'interpretazione di chi pensa che siamo di fronte ad
un attacco ai diritti del lavoro, ai diritti sociali e ai servizi pubblici,
portato avanti dal grande capitale finanziario e dall'oligarchia che governa
l'Ue (parte vera), a cui si contrappongono gli Stati nazionali, quali luoghi di
contrasto e garanti della protezione sociale (parte illusoria), non si
comprenderebbe l'enfasi posta in modo sempre più marcato da parte dei movimenti
sociali sul tema dei beni comuni.
Sarebbe
sufficiente ricorrere alle antiche categorie di 'pubblico' e 'privato' o di
'Stato' e 'mercato' per comprendere i termini del conflitto, gli schieramenti e
decidere la propria collocazione.
Ma che la
situazione sia notevolmente differente, lo dimostra il fatto che, nell'ipotesi
sovranista, quelle che vengono messe in acerrima contrapposizione sono due
istituzioni pubbliche, Unione Europea e Stato nazionale.
Come non
concordare sul fatto che l'Unione Europea, concepita in modo a-democratico, sia
di fatto un potere oligarchico al servizio dei grandi interessi finanziari?
Ciò che
tuttavia stupisce è la mancanza di 'consecutio logica' nel ragionamento: se
l'Unione Europea è stata voluta dagli Stati nazionali, i quali hanno
contribuito a scrivere, approvare e ratificare tutti i trattati, che ne hanno
determinato il percorso, perché ciò che vale per l'Unione Europea non è
altrettanto applicabile agli Stati nazionali?
Il motivo, a
mio avviso, sta nel continuo attardarsi, da parte dei sovranisti, sulla
nostalgia dei 'Trenta gloriosi' e dello stato sociale keynesiano; una sorta di
remake di 'Good Bye Lenin' 1 in
salsa europea, che non permette di comprendere le profonde modificazioni
intercorse nella fisionomia e funzione degli Stati dentro il capitalismo
iper-finanziarizzato.
Ma, per
fortuna di tutti, è la realtà a produrre le accelerazioni necessarie.
L'esperienza
dei movimenti sociali alternativi, praticata negli ultimi due decenni, contro
l'invadenza del mercato e contro la messa a valore finanziario dell'intera
società, ha evidenziato come, non solo le istituzioni pubbliche ai diversi
livelli non abbiano costituito alcun argine alla stessa, bensì come si siano
progressivamente poste al servizio dell'espansione dei grandi interessi
finanziari nella mercificazione della vita e della natura.
Sottoposte
alla doppia tenaglia del mercato e di un pubblico trasformato in braccio armato
dello stesso, le pratiche sociali dei movimenti hanno messo sotto attacco non
solo l'appropriazione privata dei beni e della ricchezza collettiva, bensì il
concetto stesso di 'proprietà', in quanto pernicioso in sé del diritto
all'accessibilità e alla fruizione dei beni.
Nasce da
queste considerazioni l'introduzione, nella teoria e nella pratica politica dei
movimenti, del concetto di 'beni comuni', come qualcosa che rappresenta
l'opposto dei 'beni privati', ma che va molto oltre quello di 'beni pubblici'.
Così come la necessità di contrastare le privatizzazioni, non ricorrendo al
vecchio e inefficace concetto di 'nazionalizzazione', bensì introducendo la
categoria della 'socializzazione'.
E, a
completamento -ancora parziale- dell'innovazione teorica, la riflessione sul
'comune', come altro dal 'privato' e dal 'pubblico'.
Ciò a cui
stiamo assistendo, nella teoria e nella pratica delle lotte, è il superamento
della logica binaria -proprietà pubblica o privata- che ha dominato negli
ultimi due secoli la riflessione occidentale, con la ricerca di una nuova forma
di razionalità, capace di incarnare i profondi cambiamenti intervenuti, che
investono la dimensione economica, sociale, culturale e politica.
E che
implicano una diversa considerazione della cittadinanza, per il rapporto che si
istituisce fra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli,
modificando la configurazione stessa dei diritti e delle modalità del loro
esercizio.
Quando si
parla di beni comuni, ci si riferisce a beni e servizi, fisici o immateriali,
naturali o sociali, concreti o cognitivi, situati o eterei, locali o globali
che, in quanto necessari alla sopravvivenza in vita delle persone e/o
alla dignità e qualità della stessa, appartengono alle comunità viventi nei
loro diversi insiemi.
Sono quindi
beni che non possono, in alcun caso, essere gestiti secondo logiche di mercato,
perché non mercificabili, ma che, al contempo, vanno sottratti anche alla
potestà delle istituzioni pubblico-amministrative, perché nessuno può averne
titolarità esclusiva.
Come ha
scritto Stefano Rodotà: “I beni comuni tendono a configurarsi come l'opposto
della sovranità, non solo della proprietà” 2.
Il paradigma
dei beni comuni porta con sé una tale radicalità che può risultare ostico a chi
continua, anche a sinistra, a pensare allo Stato o alle istituzioni pubbliche
come autorità neutrali di garanzia, con il risultato di non coglierne la
portata rivoluzionaria, ma di considerarli come un ritorno nostalgico a forme
di proprietà arcaica. Ma come scrive ancora Rodotà: “Non è tanto il ritorno a
'un altro modo di possedere', ma la necessaria costruzione dell''opposto della
proprietà'”.3
I beni
comuni rimettono in campo concetti totalmente rimossi dalla dottrina e dalla
pratica neoliberale, riscoprendo il 'legame sociale'
della condivisione, a fronte della solitudine competitiva; il 'diritto al futuro', a fronte dello sguardo rivolto
all'indice di Borsa del giorno successivo; 'l'uguaglianza sostanziale'
dei diritti, a fronte delle gerarchie piramidali basate sull'accentramento
delle ricchezze; e 'la democrazia' come partecipazione,
a fronte della dittatura del pensiero unico del mercato.
Proprio in
questa direzione, i beni comuni non vanno considerati come 'cose' a sé stanti e
separate dalle relazioni sociali tra le persone, né come 'fattori' della
produzione, in qualche modo spendibili. Come ha scritto David Bollier: “I
'commons' non sono una definizione giuridica per 'l'interesse pubblico', quanto
una sorta di filosofia politica dotata di specifici approcci operativi e con
effetti a lungo termine, perché ci coinvolge pienamente in quanto esseri
umani”.4
Ne consegue
che i beni comuni non sono qualcosa di statico, classificabile una volta per
tutte, ma un repertorio di pratiche di lotta e di cittadinanza, di mutualismo e
di autogoverno, da parte di gruppi e comunità che li condividono e che, di
volta in volta, attraverso le pratiche sociali, ne estendono il campo. Basti
pensare alla recente tematica dei beni comuni urbani e del neomunicipalismo,
che identifica l'intera città come sistema-bene comune.
Così come
abbiamo visto per la ricchezza sociale prodotta, la riappropriazione sociale
dei beni comuni diviene la base per la costruzione di un'alternativa di
società, che rimetta il mercato al posto che gli compete, quello di luogo di
compravendita paritaria di beni fra persone, e restituisca alla gestione
partecipativa delle comunità locali, beni comuni naturali e sociali, il cui
accesso, fruizione e gestione partecipativa rendono la democrazia un'esperienza
reale e non una vuota formalità.
* estratto
da Marco Bersani,“Europa alla deriva”,
DeriveApprodi, Roma, 2019
[1] Good Bye Lenin, esilarante film tedesco del 2003,
ispirato al fenomeno post-riunificazione dell'Ostalgie; regia di Wolfgang
Becker, casa di produzione X-Filme Creative Pool.
[2] S.
Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari 2012
[3] Ibid.
[4] D.
Bollier, La rinascita dei commons. Successi e potenzialità del movimento
globale a tutela dei beni comuni, Stampa alternativa, Viterbo
2015
Nessun commento:
Posta un commento