Gli Israeliani hanno aderito al movimento vegetariano e vegano forse più
che in qualsiasi altro Paese nel mondo sviluppato. Questa è una buona cosa; se
considerate la durata della sofferenza e il numero di vittime, è giusto dire
che gli animali sono le principali vittime della Storia.
Credo che i vegani israeliani si preoccupino veramente degli animali. Non
c’è dubbio che molti di loro combattono anche per altre cause: nel 2011,
centinaia di migliaia di Israeliani sono scesi in piazza per protestare contro
le crescenti disparità economiche, dando vita a uno dei movimenti sociali più
forti nella storia del Paese. La tragedia delle proteste sociali in Israele,
tuttavia, è che sottolineano quanto gli Israeliani siano disposti a chiudere un
occhio su una delle più immorali violazioni dei diritti umani: l’oppressione e
l’occupazione decennale di milioni di Palestinesi da parte di Israele.
Scegliendo di combattere per cause più popolari, molti Ebrei israeliani
accettano di continuare a vivere in una sorta di dissociazione. Serve come
mezzo per liberare le loro coscienze dall’indifferenza e dalla passività di
fronte alle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati.
Vorrei suggerire alcune spiegazioni accademiche socio-psicologiche
sui motivi per cui molti Ebrei israeliani evitano di protestare contro
l’occupazione, mentre sono molto espliciti e a proprio agio rispetto ad altre
cause.
Una prima spiegazione sono i molti muri sociali e fisici esistenti tra
Israeliani e Palestinesi. Questi muri si manifestano fisicamente con la
barriera di separazione, ma anche con le scuole separate, con i quartieri e le
istituzioni che fungono da barriere emotive, cognitive e culturali. Il
risultato è una distorsione della realtà che ha lo scopo di giustificare
l’occupazione e di disumanizzare i Palestinesi.
Da uno studio del 2010 sulle implicazioni dell’occupazione nella società
occupante, sappiamo che molti Israeliani usano vari meccanismi di difesa
per smorzare i sensi di colpa riguardo l’oppressione dei Palestinesi. I
meccanismi di difesa psicologica li aiutano a mantenere la propria percezione
di sé come ” esseri umani buoni “, mentre nelle vicinanze avvengono azioni
ed eventi terribili.
Quando le persone sono esposte a informazioni che sanno di non poter
sopportare, se ne allontanano . Questo stato di negazione può essere
un’auto-bugia involontaria. È un sapere e contemporaneamente un non
sapere.
In “States of Denial: Knowing about Atrocities and Suffering”, uno studio
esauriente sulla sociologia della negazione, Stanley Cohen si riferisce a
questo tipo di negazione come un modo per tenere nascoste a noi stessi quelle
verità da cui ci sentiamo sfidare e su cui chiudiamo gli occhi. In quanto
tale, la negazione funge da protezione dai costi morali provocati da un nostro
riconoscimento e da una nostra assunzione di responsabilità.
L’occupazione è incompatibile con l’uguaglianza. Di fronte ai gravi abusi e
alle violazioni dei diritti umani come quelli documentati da Breaking the
Silence, B’Tselem e altri, il fatto di comprendere che nella nostra
società gli esseri umani possano agire in modo così crudele agendo
nel nostro nome, può provocare un dolore significativo. Come
sostengono Feagin e Vera nella loro teoria sulle emozioni di un gruppo
privilegiato in una società razzista, ciò crea confusione morale e vergogna.
Cercare di affrontare la contraddizione tra ciò in cui la gente crede –
l’uguaglianza, l’amore e la gentilezza – e quello che ci si aspetta che
facciano (lottare per questo) può avere un pesante effetto psicologico, che è
ciò che le persone cercano di evitare.
Soldati israeliani arrestano Avner Gvaryahu, direttore di Breaking the Silence, in un tour delle colline di South Hebron, il 31 agosto 2018. (Nasser Nawaja, B’Tselem)
Più si diventa consapevoli dell’ingiustizia, più è difficile ignorare le
conseguenti questioni e sentimenti morali e politici. La dissonanza
cresce. I membri di gruppi privilegiati possono sentirsi in colpa sapendo di
non stare agendo per cambiare la realtà ingiusta, e spesso usano la negazione
come meccanismo di difesa. Come tali, cause popolari come il veganismo possono
agire come sostituto di una vera resa morale; così facendo le persone si
anestetizzano contro il dolore causato dalla colpa di fronte all’occupazione.
Secondo Cohen, una realtà sociale in cui un gruppo è in conflitto con un
altro gruppo, in cui Israele controlla militarmente milioni di Palestinesi,
necessita di consenso sui sentimenti personali. Quando un membro del
gruppo solleva punti interrogativi sullo status quo, lui o lei rischia la
condanna, l’allontanamento sociale e, eventualmente, anche l’ostracismo o il
boicottaggio sociale. Per evitare questo risultato, la ricerca ha scoperto che
alcuni cercheranno di evitare di esprimere questi sentimenti e altri
attiveranno un meccanismo per prevenire lo sviluppo di sensi di colpa.
Protestare, o anche parlare contro l’occupazione, può metterci a rischio di
bullismo da parte dei nostri amici e della società.
Scegliendo una causa “più facile” per cui lottare, alcuni Israeliani hanno
deciso di poter avere tutto. Mostrando compassione per gli animali e le loro
sofferenze, possiamo vivere restando ciechi al dolore degli umani. Aderendo
a una causa più popolare, decine di Israeliani sono in grado di non sentirsi
responsabili e in colpa per non fare nulla sull’occupazione, di evitare di
pagare un prezzo nella vita sociale e familiare e soprattutto di evitare di
vivere in uno stato emotivo-cognitivo di sofferenza.
Rachel Shenhav-Goldberg è una israeliana che vive in Nord America. Ha un
dottorato in scienze sociali presso l’Università di Tel Aviv e un
post-dottorato presso l’Università di Toronto. La sua ricerca si concentra
sull’antirazzismo in Israele e sull’antisemitismo nel Nord America. È anche
facilitatrice di gruppo ed è volontaria presso il New Israel Fund in Canada.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni
schiavitù” – Invictapalestina.org
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