Gli imprenditori immobiliari ridisegnano
le città. Chiedono che lo stato si faccia da parte ma lo invocano quando si
tratta di reclamare sicurezza. Ai movimenti spetta dimostrare che un modello di
investimento così intensivo è fragile
Il capitalismo e la pianificazione statale hanno una relazione complicata.
L’ideologia capitalista sostiene che lasciar decidere ai mercati le questioni
economiche, sociali e ambientali sia la cosa migliore da fare, e che la scelta
del consumatore sia la cartina di tornasole più equa ed efficiente della
volontà popolare. Per decenni deregulation è stata la parola
d’ordine delle classi dirigenti aziendali, e i politici conservatori a tutti i
livelli hanno perseguito l’obiettivo di ridurre l’intervento dello stato.
Grover Norquist, dell’organizzazione di destra Americans for Tax Reform, ha
dichiarato di voler restringere il governo «fino al punto di poterlo trascinare
in bagno e gettarlo nello scarico della vasca». Questo è quello che dice il
capitalismo, ma non ciò che fa. I capitalisti e i politici conservatori sono
rapidissimi a invocare maggior intervento statale quando si tratta di sfruttare
le sue funzioni carcerarie o la sua potenza militare, espressioni del potere
statale che negli anni hanno fatto lievitare i budget locali, statali e
federali. Le grosse società amano poi i regolamenti complicati che tengono alla
larga la competizione delle società più piccole, perché possono assumere
eserciti di avvocati per farsi largo nella giungla, mentre i loro competitor
restano impantanati nel fango. L’espansione di questo genere di potere statale
che aumenta le disuguaglianze e sopprime il dissenso lo considerano un lavoro
ben fatto.
A livello di pianificazione urbanistica e politiche di sfruttamento del
territorio, la retorica e la realtà sono ugualmente male abbinate. I
capitalisti fanno richieste molto specifiche e serie allo stato, senza le quali
farebbero fatica ad avere successo sul lungo periodo, o anche semplicemente
giorno per giorno. Vogliono che lo stato investa quote fisse di capitale nelle
infrastrutture che favoriscono i loro profitti. Vogliono inoltre che il governo
assicuri un certo livello di supporto alla popolazione per favorirne la
riproduzione sociale, così da avere una forza lavoro in buona salute da poter
sfruttare. Senza questi investimenti – pianificati, pagati e coordinati dallo
stato – non avrebbero basi su cui lavorare.
Le contraddizioni della pianificazione
capitalista
Guardando più da vicino, tuttavia, emergono alcuni punti di frattura. Nel
suo classico del 1986, Planning the
Capitalist City, Richard Foglesong analizza la relazione tra
il capitalismo e la pianificazione urbana così come si è evoluta negli Stati
uniti dal periodo coloniale fino agli anni Venti. Foglesong costruisce il libro
attorno a due assi principali: uno lo chiama «la contraddizione della
proprietà», e l’altro «la contraddizione della democrazia capitalista».
La contraddizione della proprietà sorge poiché i capitalisti chiedono allo
stato determinati interventi di pianificazione per rendere possibile la loro
modalità di accumulazione, ma negano l’utilità della pianificazione in quanto
tale, come fosse una specie di malattia socialista. E soprattutto, a parte
alcuni principi fondamentali, i capitalisti urbani non vogliono le stesse cose
che vogliono gli urbanisti. Le loro richieste rompono nettamente con la loro
linea industriale. Le aziende manifatturiere reagiscono negativamente a quei
regolamenti ambientali che limitano la loro capacità di sfruttare il terreno,
l’acqua e l’aria senza conseguenze legali. Ma sono largamente favorevoli a
interventi pianificati per calmierare i prezzi crescenti della terra e delle
abitazioni, vedendo la terra come un costo nel processo di produzione e i
prezzi delle case come un motivo per i lavoratori per mobilitarsi
collettivamente per richiedere un aumento dello stipendio.
Gli immobiliaristi, d’altro canto, sono favorevoli a regolamenti ambientali
che limitano l’inquinamento, poiché vedono lo smog e la sporcizia come fattori
che abbassano il valore dei loro immobili. Ma non sarebbero altrettanto felici
di vedere lo stato imporre controlli sugli affitti o costruire case popolari di alta qualità, dato che
queste misure minacciano il loro modello di business. I pianificatori urbani,
dunque, devono giocare su un doppio tavolo: andare incontro alle richieste tra
loro in competizione dei due tipi di capitalisti, senza per questo pianificare
troppo – cosa che li farebbe impazzire entrambi.
Nel tentativo di venirne a capo, i pianificatori urbani si confrontano con
la contraddizione capitalismo-democrazia. I capitalisti veri – quelli che
possiedono i mezzi di produzione, non semplicemente quelli che la pensano come
loro – sono sempre una minoranza numericamente. In un governo repubblicano e in
un’economia capitalista, i pianificatori devono includere la working class nel
loro processo o rischiano una crisi di legittimità. Allo stesso tempo,
tuttavia, a loro è affidato il compito di placare i capitalisti per i quali è
pensato il funzionamento del sistema. Per superare questo dilemma, le città
hanno elaborato complicati sistemi di controllo dello sfruttamento di suolo
(nel quale il parere pubblico è incoraggiato ma non vincolante) e commissioni
pubbliche di pianificazione urbana (che sono generalmente piene di esperti del
settore immobiliare ed élite imprenditoriali).
Secondo questo modello, il principale compito dei pianificatori urbani è
quello di tenere a bada queste due contraddizioni; nessuna delle due può essere
risolta, ma entrambe possono essere gestite. È una scommessa complicata. Da
loro ci si aspetta che intervengano in un certo modo sullo sfruttamento di
suolo, ma senza poter fare cambiamenti radicali. Questo processo deve essere
aperto al pubblico, mentre simultaneamente si deve garantire alle élite
dominanti il controllo sul potere decisionale. È un lavoro davvero ingrato.
L’ascesa dello stato immobiliare
Cinque anni fa, stavo spiegando un libro di Foglesong in un seminario di
geografia, e uno studente ha alzato la mano per fare una domanda. «Sembrerebbe
che una parte importante del modello sia la competizione tra il capitalismo
industriale e capitalismo immobiliare», ha giustamente osservato. «Come
funziona ora che il capitale industriale e quello immobiliare non sono più
concentrati nelle stesse mani?». Si trattava di una buona domanda.
Il mondo è più industrializzato che mai – gli Stati uniti sono certamente
una nazione industriale, e l’industria rappresenta una grossa fetta
dell’economia nazionale in termini di output annuale. Ma nel corso della
seconda metà del ventesimo secolo, la produzione industriale statunitense è
stata oggetto di un’intensa riorganizzazione geografica. Prima di tutto, dopo
la Seconda Guerra Mondiale gli impianti di partizione e assemblamento si sono
spostati dalle vecchie città del nord alle più nuove città del sud, nelle
periferie e nelle zone rurali. Negli anni Settanta e fino a tutti gli anni
Novanta, la velocità e l’ampiezza della delocalizzazione sono aumentate, molti
impianti hanno lasciato definitivamente il paese.
Negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila è comparsa una nuova
forma di espansione industriale, che ha visto la crescita dei gruppi della
logistica per coordinare il complesso flusso di beni in entrata e in uscita
dalle città. Questa nuova forma di attività produttiva tende ad avere luogo nei
dintorni delle aree metropolitane (in modo da avvantaggiarsi di prezzi più
bassi dei terreni, e per facilitare l’afflusso di beni). E quando è localizzata
in città spesso occupa terre di proprietà pubblica.
Nel frattempo, una “cascata di soldi” è piovuta sul
settore immobiliare, attualmente valutato a livello globale intorno ai 217
trilioni di dollari – rendendo le proprietà immobiliari la forma di bene
proprietario più diffusa a livello mondiale. Negli Stati uniti, gli acquisti di
case sono in calo da cinquant’anni, gli affitti medi sono più che raddoppiati
negli ultimi vent’anni, mentre i salari sono rimasti stagnanti. In alcune
città, i prezzi delle case sono aumentati di oltre il 50 percento negli ultimi
cinque anni. Diversi tipi di crisi abitativa coesistono nelle città di tutto il
paese.
Con la concentrazione delle proprietà immobiliari e la delocalizzazione
delle industrie, la relazione tra il capitale urbano e la pianificazione
urbanistica è cambiata in modo significativo. Se le aziende manifatturiere non
fanno più la parte dei potenti sostenitori capitalisti che chiedono di
abbassare i costi delle terre e delle case in città, gli urbanisti che si
scontrano con la «contraddizione della proprietà» restano in balia degli
immobiliaristi e dei loro piani di cementificazione, che puntano a far
aumentare sempre più i prezzi dei terreni e delle proprietà. Anche quando
provano a risolvere problemi urbanistici che hanno poco a che fare direttamente
con il mercato immobiliare – l’educazione, i trasporti, i parchi, etc. – gli
immobiliaristi fanno pressione per ottenere interventi di pianificazione che
favoriscano le loro speculazioni.
I pianificatori che hanno a che fare con «la contraddizione
capitalismo-democrazia» sono portati sempre più ad assegnare ruoli di controllo
agli immobiliaristi nelle stesse istituzioni di pianificazione. La commissione
pianificatrice di New York, per esempio, è quasi interamente composta da
persone con esperienza nel settore immobiliare: costruzione, promozione,
vendita, leggi o ingegneria. La voce di dissenso più comune tra i commissari è
quella di Michaelle de la Uz, una sviluppatrice di case no-profit – un modello
differente, certamente, ma ancora parte dell’ecosistema dell’immobiliarismo
urbano.
Questo è un vero stato immobiliarista: un governo allineato con le
necessità e le domande di uno specifico settore del capitale, e ben
sintonizzato per assicurare che le azioni di governo siano calibrate a favore
del profitto dei costruttori, proprietari terrieri e speculatori. Come per
altri settori statali (il welfare, il sistema detentivo, il comparto militare,
eccetera), il settore immobiliare non è totalizzante, ma la sua influenza è
particolarmente forte a livello locale, dove vengono prese la maggior parte
delle decisioni sulle terre statunitensi.
Qualunque problema sia affrontato dai pianificatori, le soluzioni proposte
dagli immobiliaristi prevedono quasi sempre lo sviluppo di quartieri di lusso
come fattore chiave – anche quando il problema è la mancanza di abitazioni a
prezzi accessibili. I pianificatori del settore immobiliare hanno il compito di
aumentare i prezzi di mercato: o perché sono troppo bassi e gli investitori li
vogliono più alti, o perché sono già alti e una loro deflazione potrebbe far
crollare un bilancio fatto di castelli di carte. Lavorare sul ridurre la
speculazione e incentivare l’offerta di case popolari e accessibili a tutti
sembra un proposito assurdo per un regime di pianificazione il cui primo
assunto è che il guadagno futuro passa attraverso la crescita immobiliare.
In questo sistema, la gentrificazione è una caratteristica, non una falla.
È sicuramente una forza economica e sociale, ma è anche un prodotto dello stato
– un processo pianificato di reinvestimento canalizzato e dislocamento mirato.
I pianificatori urbani, tuttavia, non sono semplicemente degli strumenti
passivi del governo. La maggior parte di loro ha scelto questa professione
perché voleva avere un impatto positivo sulle città. Molti hanno un background
radicale e vedono la pianificazione come un mezzo per imporre un controllo al
caos capitalistico. Ma sotto le restrizioni dello stato immobiliare, produrre
spazio per propositi che non siano il profitto è una sfida enorme.
Tuttavia è una cosa possibile, e che i pianificatori non faranno da soli.
Se vogliamo che essi si comportino diversamente, dobbiamo esercitare pressione
politica per sfidare i loro dirigenti: i politici che decidono i capi delle
agenzie, ovviamente, ma anche l’industria immobiliare.
Concentrandosi così intensivamente in un settore specifico, il capitale
immobiliare si è esposto a una vulnerabilità unica. I movimenti militanti
contro la gentrificazione possono minacciare la capacità degli immobiliaristi
di realizzare profitti, trasformando la crisi immobiliare da fenomeno sulle
spalle degli inquilini a peso per i proprietari terrieri, i costruttori e gli
investitori. Non è un compito facile, ma è necessario se vogliamo combattere,
il Real Estate State, lo stato immobiliarista.
*Samuel Stein sta svolgendo un PhD in geografia al CUNY Graduate Center. Ha
scritto Capital City: Gentrification and the Real Estate State.
Questo articolo è uscito su Jacobinmag.
La traduzione è di Gaia Benzi.
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