domenica 12 maggio 2019

Il cibo buono fa bene all’Europa - Manlio Masucci


Una politica agricola comune potrebbe concorrere in maniera determinante allo sviluppo di sistemi alimentari sostenibili e al rilancio del progetto di integrazione dell’Ue. Una proposta ambiziosa, destinata a scontrarsi con le numerose sfide che caratterizzano il settore: dal cibo spazzatura a basso costo che inonda i nostri mercati ai trattati commerciali di nuova generazione, dall’illegalità diffusa allo sfruttamento dei lavoratori al sistema dei sussidi pubblici che agevolano la grande produzione standardizzata di massa. Abbiamo chiesto a Olivier De Shutter, co-presidente dell’Ipes-Food, già commissario speciale dell’Onu per il diritto al cibo e attuale membro del Comitato per i diritti economici sociali e culturali dell’Onu, come poter affrontare questi problemi in un momento in cui la fiducia dei cittadini nell’Ue sembra essere ai minimi storici.

De Shutter, i cittadini sono vessati dalla crisi economica e spesso scelgono di risparmiare comprando cibo di pessima qualità a basso costo. Come convincerli che non è questa la soluzione migliore?
La soluzione non è solo dire alle persone di mangiare cibo più sano. Dobbiamo rendere l’opzione salutare più semplice per tutti, specialmente per le fasce a basso reddito. Ciò significa utilizzare una serie di strumenti – pianificazione urbana, incentivi fiscali (ad esempio tasse sulle bevande zuccherate o Iva zero su frutta e verdura) e appalti pubblici – per costruire ambienti alimentari sani. Abbiamo bisogno di una adeguata rete di sicurezza sociale. Le calorie a buon mercato non possono più sostituire le politiche sociali, che devono essere ricostruite e ridisegnate per affrontare le cause profonde della povertà e promuovere l’accesso a un cibo sano per tutti.

L’Europa sta approvando nuovi trattati commerciali che aprono le porte a ondate di cibo spazzatura alimentando sistemi produttivi non sostenibili. Qual è la vostra posizione?
Il modello commerciale dell’Ue promuove lo scambio di merci a volumi sempre crescenti, nonostante le contraddizioni con gli obiettivi di salute e sostenibilità. Ad esempio, l’accordo di libero scambio con il Giappone si basa su maggiori opportunità di esportazione nei settori ad alta emissione delle carni e dei prodotti lattiero-caseari. In parole povere, l’Ue e i suoi Stati membri devono ripensare completamente questo modello.

Il rapporto sostiene la necessità di ricostruire la fiducia nell’Ue. Una nuova politica alimentare potrebbe essere il veicolo di rilancio del progetto europeista?
Il cibo è fonte di grande preoccupazione per i cittadini. Agendo in questo settore e rispondendo a ciò che i cittadini vogliono – cibo sano, sostenibile e prodotto localmente – l’Ue può affermare la sua rilevanza e importanza. L’idea di una politica alimentare è intrinsecamente più democratica delle attuali politiche settoriali. Spostando l’attenzione dall’agricoltura al cibo, una più ampia gamma di parti interessate può essere significativamente coinvolta nella progettazione e valutazione delle politiche.

In che modo una nuova politica alimentare può avvantaggiare i lavoratori del settore? In Italia si registra il fenomeno degli immigrati obbligati a lavorare nei campi in condizioni di simil schiavitù. Come affrontare l’illegalità diffusa?
Gli attori più potenti del settore alimentare sono in grado di far pressione sui salari e sulle condizioni di lavoro. A farne le spese sono i braccianti agricoli, il personale del fast food e gli addetti alla consegna. Ciò avviene nell’Ue e in tutto il mondo. Una politica alimentare comune affronterebbe questo problema su tre fronti. In primo luogo, oltre che applicare la dovuta diligenza agli importatori di prodotti alimentari, accelererebbe le riforme già in corso a livello europeo per reprimere le pratiche commerciali sleali e gli abusi di potere degli acquirenti nelle catene di approvvigionamento. In secondo luogo, obbligherebbe gli operatori a rivelare i veri costi della produzione alimentare, consentendo di rendere visibili gli impatti negativi sul benessere dei lavoratori.In terzo luogo, una politica alimentare comune rimetterebbe a fuoco le politiche dell’Ue a sostegno del sistema alimentare alternativo e delle iniziative di filiera corta per garantire i giusti introiti agli agricoltori e ai lavoratori del settore alimentare.

In Italia il 15% della superficie coltivata è biologica ma circa il 97% degli incentivi pubblici va all’agricoltura convenzionale. Siamo inoltre ben al di sopra della media europea nel consumo di pesticidi. Una politica comune potrebbe contribuire a migliorare questa situazione?
Una politica alimentare comune consentirebbe di ridurre i pesticidi e le esposizioni chimiche pericolose utilizzando vari strumenti politici, con una crescente ambizione nel tempo. I passi per innalzare la vocazione ambientale della PAC verrebbero combinati con misure necessarie per sviluppare sistemi agroecologici diversificati e a basso input attraverso la ricerca, con un migliore monitoraggio del suolo e con un giro di vite sugli EDC (interferenti endocrini chimici) presenti negli imballaggi alimentari. Con normative più stringenti, e dimostrando i benefici delle alternative agroecologiche, l’Ue non sarebbe più ostaggio di soluzioni a breve termine. Pertanto, a lungo termine, l’Ue potrebbe eliminare gradualmente l’uso sistematico di pesticidi nocivi come il glifosato.

I giovani italiani guardano con sempre maggior interesse alla terra per opportunità di lavoro mentre i mercati contadini stanno crescendo anche nelle grandi città. Come può una politica alimentare comune sostenere questo processo?
Costruire catene di approvvigionamento più brevi e più eque è uno dei cinque obiettivi chiave di una politica alimentare comune. Esistono già gli strumenti per sostenere le vendite dirette e le filiere corte (ad esempio nell’ambito dello sviluppo rurale), ma sono raramente adottati dagli Stati membri e attuati male. Nell’ambito di una politica alimentare comune, maggiori finanziamenti sarebbero destinati a queste iniziative e a strutture locali per sostenerle attraverso, per esempio, Consigli locali per la politica alimentare e politiche alimentari urbane. Gli Stati membri sarebbero obbligati a sviluppare strategie coerenti per sostenere filiere corte e iniziative territoriali. Gli strumenti di sostegno dell’Ue sarebbero, infine, ridefiniti per essere più accessibili per i piccoli agricoltori e per le iniziative alimentari locali.

Articolo pubblicato anche su L’Extraterrestre, il manifesto


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