Ciò che ci è
stato inculcato fin dalla più tenera età dalla nostra civiltà costruita sugli
abusi di potere, è il catechismo delle
separazioni: le forme più diverse del regime diurno e schizogenico della
razionalità industriale e calcolante hanno fatto che sì che la nostra vita
andasse a pezzi e che non fosse più possibile recuperarne il senso, o perlomeno
una traccia di senso che non può riposare in altro che nella sua integrità e
globalità.
Oggi occorre disimparare il che vuol dire
soprattutto e prima di ogni altra cosa superare ed abbattere le scissioni che
tengono in scacco la nostra esperienza. Da quelle tra vita e lavoro e tra mente
e corpo (macro) a quella più sottili tra tutte le celle che compongono la
triste agenda della nostra vita(micro). Quelle che designano i programmi delle nostre
giornate, in un continuo andirivieni tra confini e cesure che impediscono di
godere appieno ciò che ci accade.
Anzitutto
sul terreno dell’educazione questo significa cercare di abbattere una delle più
terribili separazioni che garantiscono il soggiogamento sistematico dei più
piccoli e la loro consegna ad un regime disciplinare e manipolatorio: la separazione tra scuola e mondo,
tra dentro e fuori, tra soggettività
partecipativa e soggettività in perenne attesa di contribuire attivamente,
tra minore e maggiore, tra testa, cuore e pancia, tra discipline conoscitive che sono artatamente
separate senza preoccuparsi del legame vitale da cui derivano.
Per quanto
mi riguarda, oggi più che mai il legame tra lavoro e vita, tra ruolo e
soggetto, tra piacere e sacrificio, tra
corpo e pensiero, tra maschile e femminile, tra diurno e notturno, è
necessario sia costantemente recuperato in pratiche vitali di coinvolgimento
integrale di ciascuno di noi.
La parcellizzazione spazio-temporale della nostra
esistenza sta raggiungendo livelli mai sperimentati, la solitudine e l’anomia
la fanno da padrone, ma soprattutto sono le frontiere che anziché diluirsi si
consolidano, le
specializzazioni, le suddivisioni gerarchiche delle disponibilità che
lentamente fanno delle nostre vite degli spezzatini immangiabili.
La dittatura delle agende, del tempo programmato,
l’assassinio dell’imprevisto, l’impossibilità di sfuggire alle maglie della prigionia che noi stessi ci
infliggiamo sta diventando insostenibile. Mai come oggi la parola d’ordine deve essere liberare lo spazio
e il tempo, dischiuderli all’inedito, all’indisciplinato, alla contaminazione,
alla deriva.
Recuperiamo,
contro le leggi dell’insegnamento e della cultura specializzata, il senso della
nostra esperienza, facendo di essa
il perno del vivere, delle sue intensità e della sua qualità, inaccettabili fin
tanto che non vi concorra l’intera compagine del nostro esserci (sentimenti,
pensieri, emozioni, sensazioni, immaginazione, intuizione).
Occorre
rifondare l’esperienza del sapere come sapere vivente e incarnato, della relazione come condivisione, ospitalità,
conflitto ma nella integrità del nostro esserci, non corazzati
in ruoli e in presunte professionalità che mirano al distacco e al
raffreddamento degli incontri e delle occasioni.
Occorre
porre al centro del vivere la ricerca del piacere,
dell’eros, dell’affermazione vitale, dell’espressività piena, del contatto, del
creare (situazioni, habitat, opere che restituiscano ciò che promettono in
termini di partecipazione e di reciprocità).
Superare le separazioni e le gerarchie, specie nei rapporti umani, nei
campi dell’esercizio dell’esserci qui
ed ora, memori e espansivi, significa uscire dalle gabbie e poter
risperimentare la densità del vivere nella sua pienezza.
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