venerdì 3 maggio 2019

Contro le scissioni, qui e ora - Paolo Mottana


Ciò che ci è stato inculcato fin dalla più tenera età dalla nostra civiltà costruita sugli abusi di potere, è il catechismo delle separazioni: le forme più diverse del regime diurno e schizogenico della razionalità industriale e calcolante hanno fatto che sì che la nostra vita andasse a pezzi e che non fosse più possibile recuperarne il senso, o perlomeno una traccia di senso che non può riposare in altro che nella sua integrità e globalità.
Oggi occorre disimparare il che vuol dire soprattutto e prima di ogni altra cosa superare ed abbattere le scissioni che tengono in scacco la nostra esperienza. Da quelle tra vita e lavoro e tra mente e corpo (macro) a quella più sottili tra tutte le celle che compongono la triste agenda della nostra vita(micro). Quelle che designano i programmi delle nostre giornate, in un continuo andirivieni tra confini e cesure che impediscono di godere appieno ciò che ci accade.
Anzitutto sul terreno dell’educazione questo significa cercare di abbattere una delle più terribili separazioni che garantiscono il soggiogamento sistematico dei più piccoli e la loro consegna ad un regime disciplinare e manipolatorio: la separazione tra scuola e mondo, tra dentro e fuori, tra soggettività partecipativa e soggettività in perenne attesa di contribuire attivamente, tra minore e maggiore, tra testa, cuore e pancia, tra discipline conoscitive che sono artatamente separate senza preoccuparsi del legame vitale da cui derivano.
Per quanto mi riguarda, oggi più che mai il legame tra lavoro e vita, tra ruolo e soggetto, tra piacere e sacrificio, tra corpo e pensiero, tra maschile e femminile, tra diurno e notturno, è necessario sia costantemente recuperato in pratiche vitali di coinvolgimento integrale di ciascuno di noi.
La parcellizzazione spazio-temporale della nostra esistenza sta raggiungendo livelli mai sperimentati, la solitudine e l’anomia la fanno da padrone, ma soprattutto sono le frontiere che anziché diluirsi si consolidano, le specializzazioni, le suddivisioni gerarchiche delle disponibilità che lentamente fanno delle nostre vite degli spezzatini immangiabili.
La dittatura delle agende, del tempo programmato, l’assassinio dell’imprevisto, l’impossibilità di sfuggire alle maglie della prigionia che noi stessi ci infliggiamo sta diventando insostenibile. Mai come oggi la parola d’ordine deve essere liberare lo spazio e il tempo, dischiuderli all’inedito, all’indisciplinato, alla contaminazione, alla deriva.
Recuperiamo, contro le leggi dell’insegnamento e della cultura specializzata, il senso della nostra esperienza, facendo di essa il perno del vivere, delle sue intensità e della sua qualità, inaccettabili fin tanto che non vi concorra l’intera compagine del nostro esserci (sentimenti, pensieri, emozioni, sensazioni, immaginazione, intuizione).
Occorre rifondare l’esperienza del sapere come sapere vivente e incarnato, della relazione come condivisione, ospitalità, conflitto ma nella integrità del nostro esserci, non corazzati in ruoli e in presunte professionalità che mirano al distacco e al raffreddamento degli incontri e delle occasioni.
Occorre porre al centro del vivere la ricerca del piacere, dell’eros, dell’affermazione vitale, dell’espressività piena, del contatto, del creare (situazioni, habitat, opere che restituiscano ciò che promettono in termini di partecipazione e di reciprocità).
Superare le separazioni e le gerarchie, specie nei rapporti umani, nei campi dell’esercizio dell’esserci qui ed ora, memori e espansivi, significa uscire dalle gabbie e poter risperimentare  la densità del vivere nella sua pienezza.

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