lunedì 6 maggio 2019

Senza avversari non c’è gara - Annamaria Testa



Vorrei ricordare un concetto elementare: senza avversari non c’è gara e dunque non c’è vittoria. Non c’è merito, né credito, né gloria, né talento. Senza avversari non esistono il calcio e la pallacanestro e il tennis e la scherma, gli scacchi e la dama, la briscola e il gioco delle bocce, Risiko e Monopoli. Via le Olimpiadi, comprese quelle invernali. Via Sanremo. Via le gare di Formula 1, e qualsiasi altra competizione a cui si può pensare.
In effetti, è solo grazie all’esistenza dei tuoi avversari che puoi giocare la tua partita. E poi dai, senza il rischio di perdere non ci sarebbero neanche il piacere e l’orgoglio di vincere, no? In effetti, più il tuo avversario è grande, più importante può essere la tua vittoria.
Sembra però che la fantasia di eliminare gli avversari, e di farlo in modo definitivo, stia diventando pervasiva. Nelle tifoserie, comprese quelle dei genitori alle partite di calcetto tra ragazzini. Nella politica, ambito nel quale peraltro l’azzeramento degli avversari ha un nome inequivocabile e spaventoso: dittatura.

Sinapsi in competizione
Forse abbiamo le idee confuse. Perfino al livello terminologico. Così, tendiamo a identificare ogni concorrente con un rivale, ogni rivale con un nemico, ogni competizione con un conflitto.
Parliamo di competizione quando diversi soggetti (entità, individui o gruppi) si propongono di raggiungere un medesimo obiettivo, in una situazione in cui non tutti possono farcela. Competere è naturale, e anche il fatto che siamo nati così come siamo (e non altrimenti) è la conseguenza di una serie di competizioni vinte (e qui non posso non linkarvi questo). Perfino le sinapsi (le connessioni tra neuroni) del nostro cervello sono in competizione tra loro.
La competizione ha a che fare con la vita, con gli esseri viventi e (se diamo retta a Darwin) con l’evoluzione. Riguarda il procurarsi cibo, acqua, territorio, possibilità di accoppiamento, risorse, e il raggiungere obiettivi. Ma nel competere non c’è niente di personale: se cibo, acqua eccetera sono abbondanti, se l’obiettivo è accessibile e non esclusivo, non ci sono avversari e dunque non c’è competizione.
Anche la nostra evoluzione come specie si gioca sullo scegliere di volta in volta l’alternativa più opportuna tra competere e cooperare, e magari sull’integrazione tra i due comportamenti (coopetition). Negli ultimi decenni, peraltro, la componente cooperativa è stata ampiamente rivalutata dagli studiosi.
I termini antagonista, avversario e rivale sono considerati sinonimi, e nell’uso corrente lo sono. Così come senza avversario non c’è gara, senza antagonista non c’è storia: se togliete di mezzo la balena bianca, Achab se ne resterà a ubriacarsi in qualche sordida taverna di Nantucket, e voi non potrete più leggervi quel capolavoro che è Moby Dick.
Ma “rivale” ha, mi sembra, una sfumatura differente, e implica un antagonismo protratto nel tempo, interiorizzato e radicato tanto da durare perfino quando i motivi originari della competizione (anche quest’altro link cinematografico è d’obbligo) sono ampiamente superati e, forse, dimenticati.
E qui, si tratti di individui o di gruppi, c’è sì qualcosa di personale, che riguarda l’identità. Contrastiamo un rivale non solo per quello che di importante può sottrarci, ma anche per quello che è, e che rappresenta.
Ci può essere rivalità tra fratelli e tra compagni di partito, tra schieramenti politici diversi, tra squadre, tra artisti, tra imprese, tra città o tra nazioni. Proprio perché la rivalità è personale, è facile che nasca dalla contiguità. La rivalità spinge a dare il massimo e a non mollare (questo può essere un vantaggio) ma anche ad agire in maniera stupida, avventata, ostinata o eccessiva, e ad assumere livelli maggiori di rischio quando si prendono decisioni.

Sconfitta per tutti
E poi: a trasformare un rivale in un nemico contro cui armarsi e combattere ci vuole in attimo, e può bastare una quantità anche omeopatica di paranoia. Così – ne abbiamo già parlato – ci si trova infilati in un’escalation conflittuale da cui diventa impossibile uscire. Alla fine, bum!, perdono tutti. Meglio starci attenti.
Un’altra cosa a cui bisognerebbe stare attenti è il comportamento paradossale di chi, da una parte, sogna di vaporizzare gli avversari. O di asfaltarli, di azzerarli… scegliete voi il termine: vi verranno in mente diversi esempi. E dall’altra sente il bisogno di inventarsi o reinventarsi ogni giorno un nuovo nemico. E va a sceglierselo, ovviamente, inerme e impossibilitato a combattere ad armi pari. Dai, è un comportamento da vigliacchi che evitano di gareggiare lealmente, e da sbruffoni che sentono tuttavia il bisogno di battersi i pugni sul petto strillando ho vinto, ho vinto.

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