Per le strade di Glasgow marcia il variopinto esercito dei
“ragazzi del futuro” che reclamano a gran voce che “non c’è più tempo” e “il
tempo è adesso” per invertire la tendenza, finora irreversibile,
all’inquinamento e al surriscaldamento che sta portando ad un cambiamento
climatico che determina catastrofi sempre più estese e gravi, con
conseguenze devastanti per la vita sul Pianeta. Nel frattempo le istituzioni
politiche internazionali appaiono in tutta la loro nuda impotenza,
incapaci di indicare soluzioni idonee, paralizzate dai veti e dai calcoli di
convenienza delle grandi potenze, non disponibili a rinunciare alla produzione
di energia attraverso fonti fossili.
Ciononostante tutti si sbracciano a reclamare la “transizione
ecologica” a prefigurare un cambiamento graduale verso un’economia
finalmente green, ma attraverso quali scelte concrete ed entro
quanto tempo, tutto ciò resta irrimediabilmente vago e si parla del 2050, che è
solo l’ulteriore salvifica (per i compiacenti media) e fatidica data in cui
tutto si deve compiere. Nel frattempo nei singoli Paesi ogni governo e
istituzione regionale e locale dovrebbe applicare regole di tutela ambientale e
cambiamento nelle priorità di sviluppo (meglio di non sviluppo) in direzione
degli obiettivi macro, quindi: stop all’inquinamento da trasporto su
gomma, potenziamento del trasporto collettivo su ferro, delle piste
ciclabili, economia circolare abbattendo le emissioni per combustione di
rifiuti, edilizia a risparmio energetico e soprattutto stop al consumo di
suolo.
Quando però si “scende sul terreno” per verificare che le politiche
concrete siano coerenti con gli obiettivi enunciati, osserviamo che tutto
diventa abbastanza nebuloso, relativo, molte volte assolutamente incoerente.
Non si smette di costruire strade e di programmare nuovi tronchi autostradali,
cosicché mai si cambierà seriamente sistema di trasporto, rinunciando a puntare
su auto e camion; quand’anche si potenziano le centrali solari, il più delle
volte si fa installando chilometri di pannelli su aree verdi, magari
sottraendole all’agricoltura, le centrali per la combustione di rifiuti non si
spengono mai, la trivellazione dei mari e del suolo per
cercare petrolio non termina; dappertutto si intensifica il taglio di alberi
con diverse motivazioni, non sempre oggettive, disboscando interi corsi di
fiumi, i piani urbanistici dei comuni e quelli degli enti intermedi e delle
regioni consentono ogni possibile deroga alle norme per la
limitazione del consumo di suolo.
Cosicché oggi si arriva al punto che il più piccolo comune decide di
impiantare nella propria area una piattaforma logistica di
decine di migliaia di metri quadri, senza preoccuparsi delle conseguenze per lo
stato idrogeologico, per la congestione che si determina nella mobilità. Ognuno,
soprattutto coloro che godono di particolare potere d’influenza in un
territorio, se possiede un’area decide cosa farci senza più nemmeno chiedere il
permesso: si abbattono alberi e manufatti per realizzare edifici, lì dove un
tempo si svolgevano attività agricole, perfino dove le aree hanno destinazioni
vincolate. È un far west, una giungla, in cui gli amministratori
pubblici o sono succubi di questi interessi oppure vengono semplicemente
accantonati, per mettere nei posti chiave personale politico allineato che tace
e approva senza troppo pensare. Tutto questo in nome degli assiomi “sviluppo e
occupazione” che sono il mantra dietro cui si nascondono scelte troppe volte
scellerate.
Faccio un “focus” sulla regione Emilia Romagna, non certo una
delle peggiori del nostro paese, ma fortemente condizionata dall’inquinamento
atmosferico che nella pianura padana raggiunge i livelli più alti d’Europa. La
produzione di Pm10 è a livelli elevatissimi mediamente in regione 78/88 µg/m³
(ARPA): serve un programma per la riduzione delle emissioni di CO2 e
delle polveri pericolose per la salute. Le emissioni di CO2 e il particolato
dipendono dall’uso di energia fossile, carbone, petrolio, metano, quindi dai
trasporti, dai riscaldamenti domestici, dalla produzione industriale e
agricola. In una regione tra le più industrializzate e produttive del Paese, la
riconversione dei sistemi produttivi, di mobilità e del ciclo edilizio sono
fondamentali, ma soprattutto la sostituzione del trasporto di persone e merci
dalla gomma al ferro che tarda a realizzarsi con l’intensità e nei tempi
previsti, mentre si continua a progettare e a promettere strade.
Il consumo di suolo è un’altra nota dolente. Nel triennio
2017-2020 ogni abitante della regione ha perso 3 mq di campagna, per un totale
di 1.500 ettari complessivi: il 20% dell’intero limite concesso fino al 2050,
secondo la legge regionale (nota
Legambiente su dati ISPRA). La legge urbanistica regionale 24/2017
al titolo II recita:
CAPO I Consumo del suolo a saldo zero
Art. 5 Contenimento del consumo di suolo
1. La Regione Emilia‐Romagna, in coerenza con gli articoli 9, 44 e 117 della
Costituzione e con i principi desumibili dagli articoli 11 e 191 del Trattato
sul funzionamento dell’Unione europea, assume l’obiettivo del consumo di suolo
a saldo zero da raggiungere entro il 2050.
Questo obiettivo certamente rilevante viene di fatto posto in discussione
attraverso numerose deroghe ed eccezioni. La legge, molto criticata già nella
fase di approvazione, ha previsto agli articoli 3 e 4 un periodo di adeguamento per
redigere i nuovi piani comunali (PUG) e di area vasta (ex province), attraverso
cui consumare fino al 3% del cosiddetto “territorio urbanizzato”, calcolato al
primo gennaio 2018. Nel triennio transitorio che si sta per concludere, dopo
già la proroga di un anno, il prossimo 31/12/2021 si sarebbero dovute
completare le previsioni espansive inserite nei piani precedenti che
successivamente alla scadenza decadranno definitivamente. Cosa accadrà se
questi termini non diventano effettivamente definitivi e obbligatori (qualcuno
pensa a nuove proroghe ed escamotage) senza deroghe, dal momento che in regime
transitorio, in soli tre anni, si è già “consumato” il 20% di un
obiettivo di consumo di suolo fissato in trent’anni?
In questo periodo si sono manifestate molte tendenze negative a eliminare
aree verdi vincolate per edificare in modo indiscriminato, si tagliano alberi
in misura sicuramente eccedente rispetto alle necessarie bonifiche e ciò dà
luogo a un commercio di legname molto fruttuoso per le società che svolgono
queste attività: lucrano margini notevoli dalla rivendita in pallets del
legno e quindi spingono per tagliarne sempre di più, molte volte i comuni
chiudono gli occhi. Nel frattempo le fasce boscate previste per mitigare
l’impatto dell’inquinamento automobilistico e aereo non vengono realizzate,
sono costi che le imprese appaltanti non intendono sostenere!
La mancata entrata a regime della legge, pur con tutti i suoi rilevanti
limiti, e l’assenza di un serio monitoraggio di quel che accade nei territori
stanno determinando una situazione di anarchia edificatoria mai
riscontrata in misura così diffusa. Ecco, quando parliamo dei grandi obiettivi
per contenere l’incremento delle temperature sulla terra al mitico “grado e
mezzo” dovremmo porci in primo luogo l’obiettivo che ciò si possa raggiungere
solo se nei singoli territori si cominci davvero a cambiare politiche e
priorità nei modelli economici.
Questo articolo è stato pubblicato
suI Fatto Quotidiano l’11 novembre
2021
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