Come sarà capitato di notare a chiunque abbia visto almeno una partita di calcio in vita sua, può succedere che alcuni calciatori si buttino a terra non appena un avversario gli si avvicina. Cercano il fallo, è chiaro. E non lo fanno in un momento qualsiasi. Lo fanno quando l’avversario arriva in corsa verso di loro, o quando i loro corpi si sfiorano appena. In altre parole, alcuni calciatori hanno una spiccata capacità di intravedere quando si sono create le circostanze giuste per ingannare lo sguardo esperto dell’arbitro, facendogli sembrare che quella caduta sia proprio la conseguenza dell’impatto con l’avversario.
Quello che stanno inconsapevolmente facendo è
sfruttare la capacità innata dell’arbitro (posseduta in quanto essere umano,
non in quanto direttore di gara) di mettere insieme due eventi che avvengono
uno dopo l’altro. Il nostro cervello, infatti, si è evoluto sviluppando una
particolare propensione a leggere nessi di causa-effetto tra elementi vicini
nel tempo o nello spazio. Se accade una cosa e subito dopo ne accade un’altra,
saremo portati a pensare che la prima avrà causato la seconda: se un calciatore
corre verso un altro e questo cade, probabilmente sarà a causa della spinta del
primo.
Questa particolare abilità, di mettere insieme due eventi
che si susseguono tra loro, si è rivelata fondamentale per la sopravvivenza
della nostra specie. Tanto per i nostri avi quanto per noi abitanti del mondo
contemporaneo, saper anticipare le possibili conseguenze di un evento ci
permette di evitare eventi potenzialmente pericolosi. Al nostro cervello
bastano pochissimi elementi e non più di una frazione di secondo per leggere un
nesso di causa-effetto. È sufficiente intravedere un paio di occhi in mezzo a
un cespuglio o sentire un rumore improvviso per farci scattare verso un riparo
sicuro. Non c’è tempo per chiedersi se quello nel cespuglio sia effettivamente
un leone – o se il clacson che ha suonato ce l’avesse proprio con noi – perché
qualche secondo può fare la differenza tra la vita e la morte: prima mi scanso,
e poi magari capisco se il pericolo era reale.
Il nostro cervello si è evoluto sviluppando una
particolare propensione a leggere nessi di causa-effetto tra elementi vicini
nel tempo o nello spazio.
Questo modo “rapido” di prendere decisioni funziona
molto bene finché gli elementi in gioco sono pochi, ma quando lo scenario nel
quale dobbiamo prendere la decisione è più complesso, i giochi iniziano a farsi
duri. Nel libro Grammatica del vedere. Saggi su percezione e
Gestalt di Gaetano Kanizsa (il Mulino) vengono descritti una serie di
studi classici della Gestalt – un’influente corrente psicologica sviluppata a
partire dal Novecento. Questo tipo di ricerche ha dimostrato da un lato come il
nostro cervello abbia sviluppato la capacità di leggere nessi tra elementi in
modo così fine che tende a vedere regolarità di continuo (o a sforzarsi di
cercarne una anche laddove non c’è, come nella pareidolia, l’illusione
subcosciente che ci porta a percepire forme note in profili casuali: è il
motivo per cui, per esempio, la facciata di una casa con due finestre e una
porta può istintivamente ricordarci un volto); dall’altro lato, questi studi
hanno dimostrato che il nostro cervello fa però molta fatica a mettere insieme
cause ed effetti lontani nel tempo.
Nella vita di tutti i giorni, questo si traduce nel
fatto che, di solito, ad una nostra azione seguono subito le sue conseguenze, e
così ci ritroviamo facilmente in grado di individuare la causa in quella nostra
azione. Ma se le conseguenze sono lontane nel tempo, ci sarà difficile
coglierne (o ammetterne) il nesso. Probabilmente, molte persone smetterebbero
subito di fumare se potessero vedere in tempo reale come ogni boccata trasforma
i loro polmoni, o se perdessero rapidamente la capacità di respirare a pieno.
Così come molti di noi mangerebbero di meno se la pancia ci si allargasse
visibilmente ad ogni boccone. Quando gli effetti sono lontani (nel tempo o
nello spazio) dalle scelte che li hanno determinati, tendono ad essere
considerati come distaccati.
Più sono complicate le scelte, più è necessario uno
sforzo per trovare una risposta adeguata. Ma il nostro cervello non è
spontaneamente portato a dispendere energie. Quando può, tende a ridurre al
minimo gli sforzi aumentando al massimo il rendimento. Ad esempio, se non
abbiamo tutte le informazioni a disposizione per perdere una decisione, non sta
lì ad aspettare: scegliere rapidamente quel che sembra intuitivamente corretto
fa risparmiare energie. Per farlo, utilizza specifiche strategie, delle
scorciatoie mentali (dette euristiche) che hanno il vantaggio di
farci risparmiare tempo e fatica sulle scelte semplici, ma che possono
trasformarsi in trappole mentali sistematiche, ovvero bias cognitivi,
quando le scelte si inseriscono in un contesto più complesso. Il termine bias
cognitivo è molto utilizzato nell’ambito della psicologia e
dell’economia cognitiva e indica proprio la tendenza sistematica a deviare da
un giudizio ritenuto razionale e a fornire un’interpretazione non oggettiva
delle informazioni.
Le scorciatoie mentali adottate dal cervello umano
hanno il vantaggio di farci risparmiare tempo e fatica sulle scelte semplici,
ma possono trasformarsi in trappole mentali sistematiche quando le scelte sono
più complesse.
Daniel Kahneman e Amos Tversky sono stati tra i primi
scienziati a studiare questi meccanismi di decisione in un serie di ricerche
che hanno fatto la storia della psicologia e che sono brillantemente riassunte
nel libro Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman
(Mondadori, ne ha parlato approfonditamente Nicola Nosegno per Il Tascabile). Per spiegare
alcune delle decisioni “irrazionali” che caratterizzano l’essere umano, gli
autori propongono l’esistenza di due sistemi di pensiero: il primo è rapido,
istintivo ed emotivo e si basa sull’uso delle euristiche per valutare
velocemente una certa situazione. Il secondo, invece, è lento, logico e
razionale. Richiede uno sforzo maggiore, ma è meno predisposto a cadere
nei bias cognitivi. Insomma, decisioni come vaccinare se
stessi o i propri figli, acquistare prodotti geneticamente modificati, donare
gli organi o essere favorevoli all’energia nucleare sono scelte complesse che
richiedono più della frazione di secondo necessaria (ma, a volte, comunque non
sufficiente) all’arbitro di una partita di calcio.
Tutto tranne perdere
Immaginiamo di dover giocare ad un gioco in cui ci sono due opzioni:
(A) perdere 100€
(B) lanciare una moneta e perderne 200€ se esce testa o nulla se esce coda
Quale scegliete? E se invece le due scelte fossero:
(A) vincere 100€
(B) lanciare una moneta e vincerne 200€ se esce testa o nulla se esce coda
Come cambierebbe la vostra scelta?
In una serie di studi dell’Università della British Columbia e
dell’università di Stanford, sono state poste domande simili ad una serie di
volontari e si è osservato che la maggior parte delle persone preferisce
l’opzione B nel primo scenario e l’opzione A nel secondo. Eppure, dal punto di
vista matematico le due opzioni sono equivalenti. Il valore atteso dell’opzione
B (calcolabile considerando la probabilità dei due esiti del lancio della
moneta, ovvero 0.5×200 + 0.5×0) è uguale a 100, che è lo stesso valore atteso
dell’opzione A.
Questi studi indicano che, per noi esseri umani, i
rischi non sono tutti uguali. La possibilità di perdere fa molta più paura di
quanto non ci esalti la possibilità di vincere. Solitamente, le persone nel
primo caso preferiscono rischiare di perdere 200€ (opzione B), pur di sottrarsi
a una perdita inferiore ma inevitabile. Mentre nel secondo caso, preferiscono il
guadagno sicuro (opzione A).
Anche se le probabilità di vincita delle due opzioni
si equivalgono, siamo disposti a rischiare di più pur di non perdere. Questo è
il succo della cosiddetta avversione alla perdita, ovvero quella
trappola mentale che ci porta a valutare diversamente il rischio di una scelta
a seconda che le sue conseguenze siano viste in termini di perdita o di
vincita. Di fronte alla possibilità di grosse perdite, anche le persone
solitamente poco propense al rischio fanno scelte più azzardate pur di evitarne
le conseguenze negative.
Proprio perché siamo naturalmente avversi alla
perdita, la possibilità (anche recondita) che esista un legame tra un vaccino e
un possibile effetto collaterale grave ci prospetta uno scenario di perdita
talmente negativo che siamo disposti a rischiare tutto, anche di ammalarci, pur
di evitarlo. Contrarre una malattia è come un rischio passivo: se anche
succedesse, non dipenderebbe direttamente da una mia azione. L’effetto
collaterale di un farmaco è, invece, un rischio attivo: sono io che ho
attivamente scelto di assumerlo.
Di fronte alla possibilità di grosse perdite, anche le
persone solitamente poco propense al rischio fanno scelte più azzardate pur di
evitarne le conseguenze negative.
Diversi studi in campo psicologico hanno mostrato come
non agire sia spesso un’opzione preferibile, perché sembra sollevarci dalla
responsabilità morale delle conseguenze. Ma anche quella di non scegliere è una
scelta. Un altro esempio: in Inghilterra, Belgio, Austria, Spagna, Chile
ci sono molti più donatori d’organi che in Italia, Brasile, Stati Uniti e
Israele. Dipende dalla maggiore generosità d’animo delle persone che vivono nel
primo gruppo di paesi? No, perché anche in questo caso, di fronte a una scelta
così complessa, la cosa più semplice diventa “non scegliere”: nel primo gruppo
di paesi, infatti, viene richiesto di scegliere attivamente la possibilità di
non donare, mentre nel secondo gruppo di paesi, la scelta attiva è richiesta
solo se si vuole donare. In entrambi i casi, solo se si ha una forte opinione
favorevole o contraria si farà una scelta attiva. Altrimenti, non fare nulla ci
darà l’illusione di non essere responsabili delle conseguenze.
Così dicon tutte
Un fattore che complica non poco la nostra capacità di prendere decisioni
oggettive, è dato dalla quantità e dalla qualità delle notizie che circolano su
quell’argomento. Oggi siamo costantemente bombardati da una enorme quantità di
informazioni. Questa quantità di notizie influenza la nostra capacità di
stimare quanto siano effettivamente probabili le informazioni a cui siamo
esposti.
Com’è noto, quasi una ventina di anni fa fece scalpore
l’ipotesi di un possibile nesso tra il vaccino per il morbillo e l’insorgenza
di alcune malattie come l’autismo. L’allarme nasceva da una pubblicazione
scientifica che si sarebbe rivelata fraudolenta. Il medico che sollevò il
polverone, Andrew Wakefield, venne radiato. Anche dopo la definitiva, unanime e
palese smentita di quella correlazione da parte del mondo medico e scientifico,
la copertura mediatica su questo argomento non si è mai davvero spenta, tanto
che anche oggi, a distanza di tanti anni, continua a essere impossibile non
averne sentito parlare, anche solo di sfuggita. Di contro, nessuno ha
ovviamente mai sentito parlare al telegiornale di quanti bambini non sono
morti grazie allo stesso vaccino. Gli psicologi hanno da tempo dimostrato che
quanto più siamo esposti ad una certa informazione, tanto più ci apparirà
probabile e veritiera. Si tratta dell’euristica della disponibilità,
ovvero la tendenza a stimare la possibilità che si verifichi un evento sulla
base delle informazioni che ricordiamo più facilmente. In altre parole, se
ho sentito parlare solo del nesso autismo-vaccino ma non delle vite salvate,
quale pensate che sarà il mio primo pensiero quando si parla di vaccini?
Un’altra trappola mentale nella quale è facile cadere
in questi casi è il bias di conferma, ovvero la tendenza a
ricercare attivamente informazioni che non fanno altro che confermare quello
che pensavamo in partenza. Siamo bravi a prestare attenzione e ricordare
le opinioni o le informazioni che confermano le nostre idee, e siamo anche
molto abili nell’ignorare quelle che sono in contrasto.
Un’altra trappola mentale nella quale è facile cadere
è il bias di conferma, la tendenza a ricercare attivamente
informazioni che non fanno altro che confermare quello che pensavamo in
partenza.
Questo bias ha trovato terreno
fertile nell’era dei motori di ricerca e delle notizie personalizzate, come
quelle offerte da Google, Facebook, YouTube, considerando come attualmente
funzionano i loro algoritmi di ricerca. Dopo aver letto un articolo o visto un
video su autismo e vaccino ve ne verranno proposti sempre di più simili, che
andranno ad alimentare la spirale delle vostre convinzioni. Finiremo con il
ricordare soprattutto le notizie che parlano dei possibili rischi, tralasciando
o sminuendo qualunque informazione che ne metta in risalto gli effetti positivi
ottenuti negli ultimi decenni. Oppure immaginate di volervi informare sulle
possibili conseguenze di un vaccino. Cosa scrivereste sul motore di ricerca?
Probabilmente qualcosa come “vaccini” e “effetti collaterali”. Con una ricerca
simile, sarà altamente improbabile che vi imbattiate in un articolo sui casi di
successo dei vaccini. Ma una scelta basata su questi presupposti, può
davvero definirsi informata?
La luce in fondo al tunnel
Diverse ricererche hanno tentato di capire non solo quali sono le trappole
mentali in cui cadiamo più comunemente, ma anche come evitarle. Osservazioni
empiriche e risultati sperimentali sembrano concordare sul fatto che esserne
consapevoli non è abbastanza. C’è bisogno di qualche trucco pratico per darci
una mano?
Alcuni studi hanno mostrato che considerare attivamente
il punto di vista opposto al proprio – venendo invitati a farlo o essendo
esposti a materiali e informazioni che raccontano una prospettiva diversa dalla
propria – possa essere una strategia estremamente utile per superare posizioni
basate su un preconcetto. Altri studi hanno invece indicato l’importanza
di pianificare in anticipo la strategia utile a prendere una
certa decisione – ovvero decidere passo per passo le mosse che devono portare
ad una data scelta – e ricevere un
feedback esterno a riguardo può permettere di fare scelte meno
“irrazionali”.
L’effetto pratico dei bias cognitivi non
è da sottovalutare e può influenzare le più disparate tipologie di decisioni,
da quelle quotidiane, al supermercato, fino a quelle emergenziali, in campo
medico per esempio, e scelte come queste richiedono razionalità e scetticismo,
perché sono decisamente più complesse dello stabilire un fallo durante una
partita. Se sbagliamo, e sbaglieremo, non abbiamo nessuna VAR a cui fare
ricorso. Studi, analisi e ricerche possono quantomeno dare qualche utile
indicazione per guidarci tra tutte queste trappole mentali, a noi la scelta di
seguirle o ignorarle.
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