1.
La gravità raggiunta dalla crisi ecologica dipende dal
fatto che la produzione e il consumo di merci hanno superato le capacità della
biosfera di rigenerare annualmente con la fotosintesi clorofilliana le quantità
crescenti di risorse rinnovabili necessarie a sostenerla (overshoot day il
29 luglio); emettono quantità crescenti di scarti biodegradabili che superano
la capacità della fotosintesi clorofilliana di metabolizzarli (le
concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, che per 8.000 secoli fino
alla seconda metà del Settecento non hanno superato le 270 parti per milione
(ppm), in meno di tre secoli sono arrivate alle attuali 419 ppm, facendo
aumentare la temperatura terrestre di 1,1°C rispetto all’era pre-industriale);
hanno consumato quantità crescenti di risorse non rinnovabili, riducendone gli
stock e rendendone l’estrazione sempre più costosa e dannosa per gli ecosistemi
(aumento delle tensioni internazionali e delle guerre per controllare i
giacimenti); producono quantità crescenti di sostanze di scarto di sintesi
chimica liquide, solide e gassose non metabolizzabili dai cicli biochimici, che
si accumulano nell’atmosfera, nel ciclo dell’acqua (tra cui le masse di
poltiglie di plastica grandi come gli Stati Uniti che galleggiano negli oceani)
e sui suoli (le discariche di rifiuti, tra cui quelli tossici), provocando
forme di inquinamento sempre più gravi, accrescendo la mortalità e riducendo la
biodiversità; hanno dimezzato il patrimonio forestale (secondo i dati forniti
da Stefano Mancuso, 3.000 miliardi di alberi su 6.000 miliardi) e le
popolazioni ittiche; hanno ridotto la fertilità dei suoli; hanno ricoperto di
materiali inorganici superfici sempre più vaste del pianeta.
La crescita della produzione e del consumo di merci ha
superato la sostenibilità ambientale. Se si continuerà a finalizzare l’economia
alla crescita, tutti i fattori della crisi ecologica si aggraveranno, fino a
raggiungere il punto di non ritorno e rendere il pianeta inabitabile per la
specie umana. Per attenuare queste dinamiche devastanti, che non si possono più
negare, sono state formulate alcune proposte che possono essere sostanzialmente
riunite in tre gruppi: 1) la proposta che riceve i maggiori sostegni politici e
mediatici si basa su un imbroglio concettuale: l’identificazione del concetto
di sostenibilità ambientale col concetto sviluppo sostenibile; 2) negli ultimi
tempi si è fatta strada una proposta sintetizzata dall’affermazione che «in un
mondo finito una crescita infinita è impossibile»;
3) la proposta della decrescita.
Il concetto di sostenibilità ambientale si riferisce
al rapporto della specie umana con la biosfera. Questo rapporto è sostenibile se
la specie umana non consuma annualmente una quantità di risorse rinnovabili
superiore a quelle che la biosfera è in grado di rigenerare con la fotosintesi
clorofilliana; se le sostanze di scarto biodegradabili prodotte dai processi di
trasformazione delle risorse in beni e dai consumi non superano la sua capacità
di riutilizzarli per generare nuove risorse; se si smette di produrre sostanze
di sintesi chimica non biodegradabili. Ma nella definizione di sviluppo
sostenibile l’obbiettivo non è rendere sostenibile il rapporto tra la specie
umana e la biosfera, ma di rendere sostenibile lo sviluppo, che è la
definizione edulcorata della crescita. La sostenibilità ambientale non
è più l’obbiettivo da perseguire, ma viene declassata alla connotazione che si
vorrebbe dare allo sviluppo. Così mentre in buona fede la maggior parte delle
persone ha finito per considerare sinonimi le due definizioni, i sostenitori
consapevoli di questo spostamento di significato lo hanno utilizzato per
promuovere l’adozione di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle
risorse e riducono l’impatto ambientale dei processi produttivi con
l’obbiettivo di continuare a produrre sempre di più inquinando di meno.
Di disaccoppiare, come dicono coloro che hanno studiato, la
crescita della produzione di merci dall’aggravamento della crisi ecologica.
L’inconsistenza di questa teoria è stata confermata dai fatti, come era
facilmente intuibile: si veda per esempio il bilancio fallimentare degli obbiettivi
di riduzione della crescita delle emissioni di gas climalteranti (non della
riduzione delle emissioni, come si è voluto far credere) concordata alla COP 21
di Parigi nel 2015. Il fatto è che suoi sostenitori non prendono nemmeno in
considerazione la possibilità di usare le tecnologie più sostenibili
per ridurre la domanda riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza
dei processi di trasformazione delle risorse in beni, allungando la vita dei
prodotti e riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi, ma si
propongono di ridurre l’impatto ambientale dell’offerta per poter continuare ad
accrescerla. Di conseguenza la riduzione dell’impatto ambientale per unità di
prodotto viene sistematicamente vanificata dall’aumento della quantità dei
prodotti.
Una risposta alternativa che si sta facendo strada
nell’opinione pubblica, ma non incide ancora a livello politico, è sintetizzata
da una frase ripetuta come un mantra: «in un mondo finito una crescita infinita
è impossibile». Questa affermazione, pur indicando nel meccanismo della
crescita economica la causa della crisi ecologica, in realtà non definisce una
prospettiva efficace per superarla perché la produzione e il consumo di
merci hanno già superato abbondantemente la sostenibilità ambientale, per cui,
se si bloccasse la crescita economica al livello attuale, la crisi ecologica
continuerebbe ad aggravarsi.
Per attenuarla progressivamente ed evitare che
raggiunga il punto di non ritorno occorre ridurre il consumo delle risorse
rinnovabili e non rinnovabili, i consumi energetici, la produzione di sostanze
di scarto biodegradabili e non biodegradabili, il consumo di carne
nell’alimentazione, il consumo di suolo, la chimica nell’agricoltura, la
circolazione automobilistica e i viaggi aerei, i tassi di natalità e
l’urbanizzazione. TINA: there is no alternative. Per
rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale occorre decrescere. La
decrescita non è un’opzione politica da demonizzare, ma una semplice deduzione
matematica che non richiede nemmeno la conoscenza delle quattro operazioni.
Bastano l’addizione e la sottrazione.
2.
Fatta questa premessa, occorre fare una precisazione e
porsi alcune domande.
La precisazione: la decrescita non può essere la connotazione di un
sistema economico e produttivo alternativo a quello attuale. La società della
decrescita, di cui alcuni parlano, è un non-senso. La decrescita non è
la meta da raggiungere, ma la strada obbligata da percorrere in questa fase
storica per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. La meta da
raggiungere percorrendo questa strada è una società sostenibile, equa e
solidale.
Le domande: è possibile perseguire una decrescita che non
distrugga l’economia e l’occupazione, che non generi sofferenza soprattutto tra
i popoli poveri e le classi sociali povere dei popoli ricchi, che non esasperi
le diseguaglianze sociali e la conflittualità tra i popoli? Che consenta di
attenuare la crisi ecologica, di rimettere in moto al contempo l’economia e di
creare occupazione? Per rispondere a queste domande occorre precisare
innanzitutto che la decrescita non è la recessione. La recessione è la
diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. È
il segno meno davanti al PIL in un sistema economico e
produttivo che ha fatto della crescita del PIL il fine delle attività
produttive e la misura del benessere. La conseguenza sociale più grave della
recessione è l’aumento della disoccupazione. La decrescita è la
riduzione selettiva e governata della produzione di merci inutili e dannose,
degli sprechi e delle inefficienze nei processi di trasformazione delle risorse
in merci. Richiede pertanto il ripristino della differenza tra il
concetto di beni (oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un
desiderio) e il concetto di merci (oggetti e servizi scambiati con denaro).
Questa distinzione consente di capire che non tutte le merci sono beni e non
tutti i beni si possono avere soltanto comprandoli. La decrescita è la
riduzione della produzione di merci che non sono beni, che non hanno oggettivamente alcuna
utilità e creano danni: l’energia che si spreca negli edifici mal costruiti
(fino al 70%), il cibo che si butta (in Italia 65 kg pro capite all’anno, 7 kg
in più rispetto alla media europea: così Food Sustainability Index, realizzato
dalla Fondazione Barilla per l’ottava Giornata nazionale di prevenzione degli
sprechi di cibo, 5 febbraio 2021), l’acqua che si disperde dalle reti idriche
(fino al 60%), i materiali contenuti negli oggetti dismessi che si portano agli
inceneritori e nelle discariche invece di essere raccolti per tipologie
omogenee ed essere riutilizzati per produrre altri oggetti.
Se la decrescita si limitasse a proporre di mettere il
segno meno davanti al PIL non uscirebbe dalla logica
quantitativa di chi vuole che il PIL sia preceduto sempre dal segno più.
La decrescita richiede l’introduzione di criteri qualitativi nella valutazione
del fare umano. È il meno quando è meglio. La riduzione della
produzione e del consumo di merci che non sono beni non riduce il benessere, ma
soltanto l’impatto ambientale; richiede l’uso di tecnologie più evolute e crea
un’occupazione utile che ripaga i suoi costi con i risparmi economici che
consente di ottenere dalla riduzione delle inefficienze e degli sprechi.
In Italia per riscaldare il 56% degli edifici
residenziali si consumano più di 180 chilowattora (circa 18 metri cubi di
metano) al metro quadrato all’anno. In un edificio ben coibentato i consumi
energetici possono essere ridotti a un valore vicino allo zero (near zero
energy building). Se si riducono le dispersioni termiche di un edificio
coibentando le pareti esterne con un cappotto, utilizzando infissi coibentati
con doppi vetri evoluti, sostituendo la caldaia a gas con una pompa di calore
alimentata da pannelli fotovoltaici, si riducono in rapporto direttamente
proporzionale sia le emissioni di CO2, sia i costi della bolletta
energetica. Più si riducono le emissioni, più si riducono i costi. I progetti
più vantaggiosi economicamente sono quelli che riducono di più le emissioni di
CO2 e i risparmi economici che si ottengono consentono di
pagare in un certo numero di anni i costi d’investimento. Lo stesso vale per la
riduzione delle perdite di acqua delle reti idriche, per il recupero delle
materie prime contenute negli oggetti dismessi, per l’aumento della durata di
vita degli oggetti ecc. Se le innovazioni tecnologiche che riducono il consumo
di risorse e le emissioni per unità di prodotto sono finalizzate alla
riduzione della domanda di merci che non sono beni (gli sprechi e le
inefficienze) la diminuzione dei costi che consentono di ottenere le
rende concorrenziali rispetto alle tecnologie finalizzate
all’incremento della produttività, mentre non possono usufruire di
questo vantaggio competitivo se vengono utilizzate per sostituire in parte o in
toto l’offerta di quelle tecnologie.
3.
Questi processi virtuosi, tecnicamente realizzabili
senza grandi problemi, trovano ostacoli politici formidabili perché riducono i
profitti di chi vende energia, di chi vende acqua, di chi gestisce le
discariche e gli inceneritori, dei produttori di merci inutili, dannose, non
riparabili, progettate con un’obsolescenza programmata per accelerare i
processi di sostituzione. E dei lavoratori dipendenti impiegati in questi settori produttivi, che
temono di perdere il posto di lavoro e non immaginano la possibilità di
occupazioni alternative. In un sistema economico finalizzato alla crescita
della produzione di merci le tecnologie che riducono l’impatto ambientale
vengono boicottate se riducono la domanda. Trovano spazio solo se aprono nuovi
settori merceologici che fanno crescere l’offerta. Solo se sono fattori di uno
sviluppo sostenibile.
Il pregiudizio che le tecnologie ambientali non siano
autosufficienti economicamente ha indotto a credere che, per attuare una conversione
ecologica dell’economia, occorra sostenerle con contributi di denaro
pubblico. Una scelta che gli ambientalisti sostengono sulla base di motivazioni
etiche, in deroga alle leggi della concorrenza e del mercato. In realtà una
conversione ecologica dell’economia si può realizzare solo con l’adozione di
misure legislative finalizzate a favorire una conversione economica
dell’ecologia, cioè a favorire la diffusione e lo sviluppo di tecnologie
che consentono di ricavare utili dalla riduzione dell’impatto ambientale a
parità di benessere che riescono a ottenere. Poiché le più efficienti
ecologicamente sono le più vantaggiose economicamente, le condizioni ideali per
la loro diffusione e il loro sviluppo sono costituite dalla concorrenza in una
logica di mercato. Se invece si pensa che le tecnologie ambientali si possano
diffondere solo se la politica compensa le loro inefficienze con contributi di
denaro pubblico, il loro sviluppo tecnologico verrà ritardato; la loro diffusione
sarà sempre precaria, perché dipenderà dalle disponibilità annuali del bilancio
statale e dalle scelte politiche con cui verranno distribuite nei vari capitoli
di spesa; saranno sempre appannaggio dei più forti politicamente; saranno
sempre soggette al rischio della corruzione, come è già successo.
La decrescita non è soltanto la strada obbligata per
rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, ma è l’unica possibilità
di superare la crisi economica creando un’occupazione utile in attività che
consentono di attenuare i fattori della crisi ecologica. A patto che si rispettino le
regole del mercato e della concorrenza. Soprattutto da parte di coloro che se
ne fanno paladini a parole e le trasgrediscono sistematicamente.
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