martedì 30 novembre 2021

La decrescita è possibile e necessaria - Maurizio Pallante

  

1.

La gravità raggiunta dalla crisi ecologica dipende dal fatto che la produzione e il consumo di merci hanno superato le capacità della biosfera di rigenerare annualmente con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili necessarie a sostenerla (overshoot day il 29 luglio); emettono quantità crescenti di scarti biodegradabili che superano la capacità della fotosintesi clorofilliana di metabolizzarli (le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, che per 8.000 secoli fino alla seconda metà del Settecento non hanno superato le 270 parti per milione (ppm), in meno di tre secoli sono arrivate alle attuali 419 ppm, facendo aumentare la temperatura terrestre di 1,1°C rispetto all’era pre-industriale); hanno consumato quantità crescenti di risorse non rinnovabili, riducendone gli stock e rendendone l’estrazione sempre più costosa e dannosa per gli ecosistemi (aumento delle tensioni internazionali e delle guerre per controllare i giacimenti); producono quantità crescenti di sostanze di scarto di sintesi chimica liquide, solide e gassose non metabolizzabili dai cicli biochimici, che si accumulano nell’atmosfera, nel ciclo dell’acqua (tra cui le masse di poltiglie di plastica grandi come gli Stati Uniti che galleggiano negli oceani) e sui suoli (le discariche di rifiuti, tra cui quelli tossici), provocando forme di inquinamento sempre più gravi, accrescendo la mortalità e riducendo la biodiversità; hanno dimezzato il patrimonio forestale (secondo i dati forniti da Stefano Mancuso, 3.000 miliardi di alberi su 6.000 miliardi) e le popolazioni ittiche; hanno ridotto la fertilità dei suoli; hanno ricoperto di materiali inorganici superfici sempre più vaste del pianeta.

La crescita della produzione e del consumo di merci ha superato la sostenibilità ambientale. Se si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita, tutti i fattori della crisi ecologica si aggraveranno, fino a raggiungere il punto di non ritorno e rendere il pianeta inabitabile per la specie umana. Per attenuare queste dinamiche devastanti, che non si possono più negare, sono state formulate alcune proposte che possono essere sostanzialmente riunite in tre gruppi: 1) la proposta che riceve i maggiori sostegni politici e mediatici si basa su un imbroglio concettuale: l’identificazione del concetto di sostenibilità ambientale col concetto sviluppo sostenibile; 2) negli ultimi tempi si è fatta strada una proposta sintetizzata dall’affermazione che «in un mondo finito una crescita infinita è impossibile»;

3) la proposta della decrescita.

Il concetto di sostenibilità ambientale si riferisce al rapporto della specie umana con la biosfera. Questo rapporto è sostenibile se la specie umana non consuma annualmente una quantità di risorse rinnovabili superiore a quelle che la biosfera è in grado di rigenerare con la fotosintesi clorofilliana; se le sostanze di scarto biodegradabili prodotte dai processi di trasformazione delle risorse in beni e dai consumi non superano la sua capacità di riutilizzarli per generare nuove risorse; se si smette di produrre sostanze di sintesi chimica non biodegradabili. Ma nella definizione di sviluppo sostenibile l’obbiettivo non è rendere sostenibile il rapporto tra la specie umana e la biosfera, ma di rendere sostenibile lo sviluppo, che è la definizione edulcorata della crescita. La sostenibilità ambientale non è più l’obbiettivo da perseguire, ma viene declassata alla connotazione che si vorrebbe dare allo sviluppo. Così mentre in buona fede la maggior parte delle persone ha finito per considerare sinonimi le due definizioni, i sostenitori consapevoli di questo spostamento di significato lo hanno utilizzato per promuovere l’adozione di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse e riducono l’impatto ambientale dei processi produttivi con l’obbiettivo di continuare a produrre sempre di più inquinando di meno. Di disaccoppiare, come dicono coloro che hanno studiato, la crescita della produzione di merci dall’aggravamento della crisi ecologica. L’inconsistenza di questa teoria è stata confermata dai fatti, come era facilmente intuibile: si veda per esempio il bilancio fallimentare degli obbiettivi di riduzione della crescita delle emissioni di gas climalteranti (non della riduzione delle emissioni, come si è voluto far credere) concordata alla COP 21 di Parigi nel 2015. Il fatto è che suoi sostenitori non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di usare le tecnologie più sostenibili per ridurre la domanda riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse in beni, allungando la vita dei prodotti e riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi, ma si propongono di ridurre l’impatto ambientale dell’offerta per poter continuare ad accrescerla. Di conseguenza la riduzione dell’impatto ambientale per unità di prodotto viene sistematicamente vanificata dall’aumento della quantità dei prodotti.

Una risposta alternativa che si sta facendo strada nell’opinione pubblica, ma non incide ancora a livello politico, è sintetizzata da una frase ripetuta come un mantra: «in un mondo finito una crescita infinita è impossibile». Questa affermazione, pur indicando nel meccanismo della crescita economica la causa della crisi ecologica, in realtà non definisce una prospettiva efficace per superarla perché la produzione e il consumo di merci hanno già superato abbondantemente la sostenibilità ambientale, per cui, se si bloccasse la crescita economica al livello attuale, la crisi ecologica continuerebbe ad aggravarsi.

Per attenuarla progressivamente ed evitare che raggiunga il punto di non ritorno occorre ridurre il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, i consumi energetici, la produzione di sostanze di scarto biodegradabili e non biodegradabili, il consumo di carne nell’alimentazione, il consumo di suolo, la chimica nell’agricoltura, la circolazione automobilistica e i viaggi aerei, i tassi di natalità e l’urbanizzazione. TINA: there is no alternativePer rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale occorre decrescere. La decrescita non è un’opzione politica da demonizzare, ma una semplice deduzione matematica che non richiede nemmeno la conoscenza delle quattro operazioni. Bastano l’addizione e la sottrazione.

2.

Fatta questa premessa, occorre fare una precisazione e porsi alcune domande.

La precisazione: la decrescita non può essere la connotazione di un sistema economico e produttivo alternativo a quello attuale. La società della decrescita, di cui alcuni parlano, è un non-senso. La decrescita non è la meta da raggiungere, ma la strada obbligata da percorrere in questa fase storica per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. La meta da raggiungere percorrendo questa strada è una società sostenibile, equa e solidale.

Le domande: è possibile perseguire una decrescita che non distrugga l’economia e l’occupazione, che non generi sofferenza soprattutto tra i popoli poveri e le classi sociali povere dei popoli ricchi, che non esasperi le diseguaglianze sociali e la conflittualità tra i popoli? Che consenta di attenuare la crisi ecologica, di rimettere in moto al contempo l’economia e di creare occupazione? Per rispondere a queste domande occorre precisare innanzitutto che la decrescita non è la recessione. La recessione è la diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. È il segno meno davanti al PIL in un sistema economico e produttivo che ha fatto della crescita del PIL il fine delle attività produttive e la misura del benessere. La conseguenza sociale più grave della recessione è l’aumento della disoccupazione. La decrescita è la riduzione selettiva e governata della produzione di merci inutili e dannose, degli sprechi e delle inefficienze nei processi di trasformazione delle risorse in merci. Richiede pertanto il ripristino della differenza tra il concetto di beni (oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio) e il concetto di merci (oggetti e servizi scambiati con denaro). Questa distinzione consente di capire che non tutte le merci sono beni e non tutti i beni si possono avere soltanto comprandoli. La decrescita è la riduzione della produzione di merci che non sono beni, che non hanno oggettivamente alcuna utilità e creano danni: l’energia che si spreca negli edifici mal costruiti (fino al 70%), il cibo che si butta (in Italia 65 kg pro capite all’anno, 7 kg in più rispetto alla media europea: così Food Sustainability Index, realizzato dalla Fondazione Barilla per l’ottava Giornata nazionale di prevenzione degli sprechi di cibo, 5 febbraio 2021), l’acqua che si disperde dalle reti idriche (fino al 60%), i materiali contenuti negli oggetti dismessi che si portano agli inceneritori e nelle discariche invece di essere raccolti per tipologie omogenee ed essere riutilizzati per produrre altri oggetti.

Se la decrescita si limitasse a proporre di mettere il segno meno davanti al PIL non uscirebbe dalla logica quantitativa di chi vuole che il PIL sia preceduto sempre dal segno più. La decrescita richiede l’introduzione di criteri qualitativi nella valutazione del fare umano. È il meno quando è meglio. La riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni non riduce il benessere, ma soltanto l’impatto ambientale; richiede l’uso di tecnologie più evolute e crea un’occupazione utile che ripaga i suoi costi con i risparmi economici che consente di ottenere dalla riduzione delle inefficienze e degli sprechi.

In Italia per riscaldare il 56% degli edifici residenziali si consumano più di 180 chilowattora (circa 18 metri cubi di metano) al metro quadrato all’anno. In un edificio ben coibentato i consumi energetici possono essere ridotti a un valore vicino allo zero (near zero energy building). Se si riducono le dispersioni termiche di un edificio coibentando le pareti esterne con un cappotto, utilizzando infissi coibentati con doppi vetri evoluti, sostituendo la caldaia a gas con una pompa di calore alimentata da pannelli fotovoltaici, si riducono in rapporto direttamente proporzionale sia le emissioni di CO2, sia i costi della bolletta energetica. Più si riducono le emissioni, più si riducono i costi. I progetti più vantaggiosi economicamente sono quelli che riducono di più le emissioni di CO2 e i risparmi economici che si ottengono consentono di pagare in un certo numero di anni i costi d’investimento. Lo stesso vale per la riduzione delle perdite di acqua delle reti idriche, per il recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, per l’aumento della durata di vita degli oggetti ecc. Se le innovazioni tecnologiche che riducono il consumo di risorse e le emissioni per unità di prodotto sono finalizzate alla riduzione della domanda di merci che non sono beni (gli sprechi e le inefficienze) la diminuzione dei costi che consentono di ottenere le rende concorrenziali rispetto alle tecnologie finalizzate all’incremento della produttività, mentre non possono usufruire di questo vantaggio competitivo se vengono utilizzate per sostituire in parte o in toto l’offerta di quelle tecnologie.

3.

Questi processi virtuosi, tecnicamente realizzabili senza grandi problemi, trovano ostacoli politici formidabili perché riducono i profitti di chi vende energia, di chi vende acqua, di chi gestisce le discariche e gli inceneritori, dei produttori di merci inutili, dannose, non riparabili, progettate con un’obsolescenza programmata per accelerare i processi di sostituzione. E dei lavoratori dipendenti impiegati in questi settori produttivi, che temono di perdere il posto di lavoro e non immaginano la possibilità di occupazioni alternative. In un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci le tecnologie che riducono l’impatto ambientale vengono boicottate se riducono la domanda. Trovano spazio solo se aprono nuovi settori merceologici che fanno crescere l’offerta. Solo se sono fattori di uno sviluppo sostenibile.

Il pregiudizio che le tecnologie ambientali non siano autosufficienti economicamente ha indotto a credere che, per attuare una conversione ecologica dell’economia, occorra sostenerle con contributi di denaro pubblico. Una scelta che gli ambientalisti sostengono sulla base di motivazioni etiche, in deroga alle leggi della concorrenza e del mercato. In realtà una conversione ecologica dell’economia si può realizzare solo con l’adozione di misure legislative finalizzate a favorire una conversione economica dell’ecologia, cioè a favorire la diffusione e lo sviluppo di tecnologie che consentono di ricavare utili dalla riduzione dell’impatto ambientale a parità di benessere che riescono a ottenere. Poiché le più efficienti ecologicamente sono le più vantaggiose economicamente, le condizioni ideali per la loro diffusione e il loro sviluppo sono costituite dalla concorrenza in una logica di mercato. Se invece si pensa che le tecnologie ambientali si possano diffondere solo se la politica compensa le loro inefficienze con contributi di denaro pubblico, il loro sviluppo tecnologico verrà ritardato; la loro diffusione sarà sempre precaria, perché dipenderà dalle disponibilità annuali del bilancio statale e dalle scelte politiche con cui verranno distribuite nei vari capitoli di spesa; saranno sempre appannaggio dei più forti politicamente; saranno sempre soggette al rischio della corruzione, come è già successo.

La decrescita non è soltanto la strada obbligata per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, ma è l’unica possibilità di superare la crisi economica creando un’occupazione utile in attività che consentono di attenuare i fattori della crisi ecologica. A patto che si rispettino le regole del mercato e della concorrenza. Soprattutto da parte di coloro che se ne fanno paladini a parole e le trasgrediscono sistematicamente.

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