Le cifre erano così incredibili che mi sono rifiutato di crederci. Le ho
trovate nascoste in una nota a piè di pagina, e ho pensato inizialmente che fossero un
errore di stampa. Per questo ho controllato la fonte, ho scritto alla persona che per prima le
ha pubblicate e ho seguito le citazioni. Con mio stupore, sembrano corrette.
Un chilo di proteine di manzo prodotto in una fattoria di collina
britannica può generare l’equivalente di 643 chili di anidride carbonica. Un
chilo di proteine di agnello prodotto nello stesso luogo può generarne 749
chili. Un chilo di proteine provenienti da entrambi gli animali, in parole
povere, provoca più emissioni di gas serra di un passeggero che vola da Londra
a New York.
Si tratta dell’opzione peggiore, e i dati vengono da un allevamento i cui
terreni hanno un alto contenuto di carbonio. Ma i numeri che emergono da uno studio più ampio non sono particolarmente
rassicuranti: in media potete scambiare il vostro volo per New York con circa
tre chili di proteine d’agnello prodotti in una fattoria di collina inglese o
gallese. Dovreste mangiare trecento chili di proteine di soia per avere lo
stesso impatto ambientale.
Quando scegliamo il nostro pranzo di Natale, o facciamo qualsiasi altra
scelta, crediamo di prendere decisioni razionali e avvedute. Ma quel che sembra
giusto talvolta non lo è affatto. In questo caso, proprio quegli elementi che
siamo stati spinti a considerare positivi (gli animali che vagano liberi nelle
montagne, curati da pastori dalle mani sapienti, senza mostruosità di cemento o
acciaio o nessuna delle altre brutture degli allevamenti intensivi moderni)
hanno un impatto ambientale incredibile.
Le cifre sono così elevate perché questa forma di allevamento è
particolarmente improduttiva. Per allevare un agnello serve un ampio terreno
spoglio e concimato. L’animale deve muoversi nelle colline per trovare il cibo,
bruciando più grassi e producendo più metano di quanto farebbe una bestia che vive
in una stalla.
Quel che è buono per gli animali che vivono in fattoria è spesso negativo
per la natura. La crudeltà dell’allevamento intensivo al chiuso è bilanciata
dai danni dell’allevamento estensivo all’aperto. L’allevamento di maiali e
polli liberi, praticato ai livelli attuali, può essere disastroso per
l’ambiente. I nitrati e i fosfati talvolta possono passare dai recinti ai
fiumi. A meno che gli allevamenti abbiano una bassa densità o che gli animali
siano tenuti su terreni ben drenati, i maiali tendono a consumare il suolo: un
mio amico descrive alcune delle fattorie che ha osservato come una miniera
suina a cielo aperto.
Si può aumentare la produzione, il che significa meno gas serra per chilo
di carne prodotto, somministrando agli animali ormoni e antibiotici. Ma anche
questo ha un costo. Come ha avvertito questa settimana il direttore della
Antibiotic research Uk ormai è quasi troppo tardi per prevenire una crisi
mondiale di superbatteri. Questo è
dovuto in parte al fatto che degli allevatori senza scrupoli hanno imbottito i
loro animali, per aumentarne il peso, con l’antibiotico colistina, l’ultima
grande speranza contro i batteri resistenti.
Ma di tutte le forme di produzione, la più attraente è una delle peggiori.
L’allevamento in collina non solo contribuisce in maniera assolutamente
sproporzionata ai cambiamenti climatici, ma inquina anche i nostri corsi
d’acqua, aumentando il rischio di pericolose alluvioni, e distrugge quelli che
altrimenti sarebbero i nostri rifugi naturali: i grandi altopiani vuoti, nei
quali l’attività economica è sostenuta solo grazie a generosi sussidi. Risulta
difficile pensare a una qualsiasi altra attività umana con un più alto rapporto
tra distruzione e produzione economica.
I miei amici del settore mi accusano di essere un nemico degli allevatori.
Ed è vero che ne sottolineo il lato oscuro, soprattutto perché, a quanto pare, ci
sono davvero pochi giornalisti disposti a trattare l’argomento. Ma non ho un
odio viscerale per l’allevamento, semmai il contrario. Visitando una fattoria a
Exmoor la settimana scorsa, mi sono ricordato di tutta la bellezza
dell’allevare pecore.
Un capriccio grande e costoso
L’idillio arcadico, una concezione della vita dei pastori (sia nella
teologia del Vecchio testamento che nella poesia bucolica greca) come luogo di
innocenza e purezza, un rifugio dalla corruzione della città, è ancora forte
tra noi. Ma continuare a coltivare questa fantasia nel mezzo di una crisi così
complessa – in cui si sommano la catastrofica riduzione della fauna selvatica,
alluvioni devastanti ma evitabili e sconvolgimenti climatici – mi pare un
capriccio grande e costoso.
Per quanto riguarda il consumo di alimenti locali, credo che a volte abbia
senso: aiuta a creare un senso di appartenenza, a capire il luogo, aspetti che
non vanno sottovalutati. Quando compriamo frutta e verdura di stagione da
produttori locali, è una cosa giusta anche per l’ambiente.
Ma tendiamo a sovrastimare i chilometri percorsi dal cibo e a sottovalutare
altri tipi d’impatto. In media, il trasporto rappresenta solo l’11 per cento
delle emissioni di gas serra dell’industria alimentare. Legumi che arrivano dall’altra
parte del mondo possono avere un impatto molto più basso della carne prodotta
qui.
Uno studio pubblicato alcuni giorni fa
suggerisce che sostituire la carne con le verdure danneggerebbe l’ambiente. Se
si considerano le calorie, coltivare lattuga produce più gas serra che allevare
maiali. Ma questo significa solo che la lattuga ha poche calorie. Una persona
dovrebbe mangiarne 15 chili per soddisfare il proprio fabbisogno energetico
giornaliero, il che sarebbe sensato solo per un coniglio di duecento chili.
Come mostra un altro studio, “venti porzioni di verdure producono meno emissioni
di gas serra di una porzione di manzo”.
Uno studio pubblicato sul Climatic Change Journal ritiene che, man
mano che gli abitanti della Terra adottano una dieta occidentale, il metano e
l’ossido di azoto prodotti dall’allevamento potrebbero arrivare all’equivalente
di 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno entro il 2070. Si
tratta di più di quanto tutte le attività umane possano produrre senza superare
un aumento della temperatura globale di due gradi. Lo sconvolgimento climatico
appare inevitabile, a meno che non cambiamo tutti la nostra alimentazione.
Questo, più di tutto, significa sostituire la maggior parte delle proteine
animali che mangiamo con proteine vegetali. Non è una cosa dolorosa, a meno che
noi non la rendiamo tale. Molti britannici erano soliti mangiare legumi ogni
giorno. Lo chiamavano pease pudding, pease pottage o pea soup. Come
nell’Asia del sud, i suoi ingredienti variavano di luogo in luogo e di stagione
in stagione. Si tratta solo di un alimento di una dieta che offre una grande
varietà, senza distruggere la grande varietà della natura.
Non sto dicendo che non dovreste più mangiare carne o altri prodotti di
origine animale. Sto solo dicendo che dovremmo tutti mangiare molto meno.
Limitate l’abbuffata a Natale. E anche in quel caso, scegliete con cura.
Questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.
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