Archiviata con un poco di fatto la Cop26 – a meno che
ci si accontenti di qualche poco significativo passettino in avanti e di
qualche ulteriore roboante dichiarazione di principio – dobbiamo prendere atto
della dura verità che ci condurrà a uno scontro a muso duro contro il futuro il
cui risultato è già scritto: sconfitta della perdurante presunzione del genere
umano sempre meno sapiens.
Lo dicono i fatti. Biden, “dormiente” a Glasgow,
quattro giorni dopo la chiusura del summit ha dato il via libera alla ricerca
di idrocarburi e di gas nel Golfo del Messico. L’Italia, nel suo piccolo,
tramite Cassa Depositi e Prestiti, insieme a Intesa San Paolo finanzia il
progetto Artic Lng2, a trazione russa – Novatec ‒ con finanziatori
internazionali. Le trivelle all’assalto dell’Artico dove già agiscono 559 campi
di estrazione e di ricerca. Tutto ciò alla faccia del sì alla moratoria sui
finanziamenti pubblici agli impianti di estrazione o utilizzo di fonti fossili.
Il Presidente del Consiglio Mario Draghi parla dei
giovani e del loro futuro, ma la sua politica dubitiamo possa essere quella
capace di garantirlo alle generazioni che verranno. Il sistema economico finanziario
che rappresenta continua a rifiutarsi di affrontare la pandemia più grave in
corso e di cui quella sanitaria potrebbe essere soltanto una delle prime
avvisaglie.
Il concetto labile e per ora vuoto di contenuti della
rigenerazione ambientale, se sarà riempito con le vecchie ricette neoliberiste,
non porterà nulla di buono. Con l’ex governatore della BCE ‒ e il sistema
finanziario di cui è espressione ‒ a gestire le risorse straordinarie per la
riconversione non solo energetica (di per sè non sufficiente) ma ecologica, è
certo che la New Generation Eu ha già perso e prevarrà il restauro del sistema
economico-finanziario che sostiene il mercato drogato della crescita infinita,
in perfetta antitesi con la necessità di affrontare la ben più urgente crisi
ambientale. Proseguirà la corsa in rotta di collisione con le ultime
opportunità di reazione per cambiare radicalmente l’economia, e renderla
sostenibile ambientalmente e socialmente. Il liberismo sarà alimentato con le
ultime ricette di morte del pianeta e la new generation rischia
di essere la last generation.
Ad oggi siamo ben distanti dai diciassette obiettivi
dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile e manca qualsiasi
Strategia nazionale per le Agende urbane di sviluppo sostenibile. In un Paese
nel quale il rischi correlati alla sommersione dei quasi ottomila chilometri di
coste (di cui quasi duemila cementificate) lungo le quali vi sono città
importanti tra cui Imperia, Savona, Genova, La Spezia, Carrara, Grosseto,
Livorno, Napoli, Salerno, Messina Palermo, Trapani, Cagiari, Catania, Siracusa
Reggio Calabria Taranto, Lecce, Brindisi, Bari, Pescara, Ancona, Pesaro,
Rimini, Ravenna, Venezia, Trieste… esiste un piano per la loro protezione e
salvaguardia? Se trasferiamo la nostra attenzione sulle Alpi, il cui versante
Sud è praticamente tutto italiano, quali programmazioni si stanno immaginando
davanti ai possibili rischi che comporterà la compromissione degli strati di
permafrost, anticipati dai crolli sul Monviso, sul Monte Bianco, sulle Dolomiti
Ampezzane? Per i fenomeni alluvionali innescati dal riscaldamento, Catania non
è che l’ultimo esempio, destinato purtroppo a ripetersi e accentuato nei suoi
risultati dalla mancata manutenzione del territorio.
Eppure di fronte a questa accelerazione della crisi
ambientale c’è ancora chi vorrebbe riportare le misure di resilienza ai singoli
comportamenti di ognuno di noi. Certo importanti, ma non sufficienti.
Come avvertono gli scienziati (che sulla pandemia da
Coronavisrus tutti, indistintamente, invitano ad ascoltare seguendone le
indicazioni) e come ha colto Papa Francesco, occorre un radicale cambio di
paradigma, una vera e propria rivoluzione ambientale. Non bastano i timidi
provvedimenti fideisticamente tecnocratici che sembrano avviati dal Governo dei
presunti “migliori”, che mentre non manca di professare la sostenibiblabla e
un ambientalismo di facciata è incapace di fermare le trivelle nel Mediterraneo
e consente una ulteriore proroga alla tassazione sulle plastiche e sugli
zuccheri. La transizione ecologica da sola non è sufficiente se non è sostenuta
da un cambio di visione e di strategia anche dell’economia. Non è un caso che,
per discuterne, lo stesso Papa Bergoglio abbia chiamato nel progetto
“L’economia di Francesco” ‒ che fa riferimento non a se stesso ma al Santo
patrono d’Italia ‒ giovani ricercatori, scienziati, economisti, sindacalisti,
la cui mente non sia ancora segnata dall’imprinting, oggi inutilizzabile, delle
vecchie teorie economiche che guidano i mercati e la finanza internazionale.
Valutati i protagonisti cui è stata affidata la
“transizione ecologica” sorge il timore che si ridurrà a una transizione
tecnologica, fatta di reti produttrici di inquinamento elettromagnetico dalle
sconosciute conseguenze sanitarie e di fonti energetiche illusoriamente
ecosostenibili.
Ciò che rischiamo è di trovarci ancora una volta
davanti a quello che Dario Paccino, nel 1972 definì, nel noto libro pubblicato
da Einaudi, l’imbroglio ecologico. Ieri come oggi il tema
ambientale, ormai indifferibile per garantire la sopravvivenza della nostra
specie – non del Pianeta, che se la caverà benissimo –, viene affrontato non
alla radice ma nell’illusione che qualche leggero medicamento risolverà il
problema.
Per affrontare davvero la crisi ambientale, che oggi
ha nel riscaldamento climatico (non chiamateli “cambiamenti climatici” che il
clima non c’entra, ma solo i dissennati comportamenti della nostra specie) la
cartina al tornasole di tutta evidenza, occorre andare alle radici delle cause
strutturali che l’hanno prodotta e che per decenni è stata ignorata. Dario
Paccino ce le indicò già allora: i rapporti sociali di produzione e di forza.
Se non si tengono in debito conto questi fattori si finisce con il trasformare
l’ambientalismo «in un’ideologia che copre e fa scomparire sia lo sfruttamento
del lavoro sia i processi di messa a profitto della natura». Vale la pena
rileggere quel testo, appena ripubblicato (L’imbroglio ecologico,
L’ideologia della natura, (Ombre corte, Introduzione di Gennaro Avallone,
Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino) in cui Paccino si domandò, cinquant’anni,
fa se non fosse che proprio nell’ecologia avesse trovato rifugio il vecchio Dio
dei padroni.
È tempo di tornare a riconsiderare i rapporti
capitale-natura-società. Naturalizzare l’uomo e umanizzare la natura, resta
l’imperativo. Si comprenderà, allora, che non suona casuale il ritorno della
prospettiva nucleare, «energia padrona, delle multinazionali, quintessenza del
capitalismo», scienza ed energia del padrone, forza produttiva per l’accumulazione
e la riproduzione del capitale, strumento per l’accrescimento del plusvalore,
basato sulla crescita espansiva, senza limiti.
Non è solo l’economia che va sostituita, ma anche la
scienza e la tecnologia che stanno a fondamento dell’attuale modello
produttivo. C’è bisogno di un’altra scienza, capace di dare all’uomo una
tecnologia di liberazione al posto dell’attuale, finalizzata all’asservimento.
Ma per sbarazzarsi dall’imbroglio ecologico non basta
mandare via il padrone, cioè le forze sociali, economiche e politiche che
sostengono i meccanismi socioeconomici e socioecologici che si sono imposti su
scala globale. Non è sufficiente la riconversione secondo la definizione
classica. È indispensabile ridefinire radicalmente i rapporti socioecologici
partendo da un’ecologia conflittuale che si ponga l’obiettivo di salvare
l’Umanità, non il Capitale.
La crisi ecologica non può prescindere dai processi di
produzione e dai conflitti sociali che comportano; su questo anche il sindacato
dei lavoratori si deve dare una mossa. Perché l’ecologia del padrone mette in
circolo, ogni volta, il ricatto dell’alternativa tra inquinamento e
disoccupazione. Ne abbiamo ormai tanti esempi, a cominciare dal disastro di
Donoa in Pennsylvania del 1948, passando da tante situazioni analoghe, sino ad
Agusta e Taranto per restare nel nostro Paese che vive ancora il dramma della
Eternit.
È tempo di dire basta. Per farlo occorre un ecologismo
conflittuale finalizzato a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli
esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura, che torni denunciare, con
forza, il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in
fabbrica e degrado ambientale. Perché il rispetto dell’uomo e della natura è
strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo dominante, con
un’economia di mercato che produce a prezzi sempre più bassi beni di consumo
sempre meno utili e con una obsolescenza programmaticamente sempre più breve.
Bisogna porre fine a un imbroglio che si avvale
dell’uso ideologico e mistificato della natura. Per farlo, il programma New
Generation EU è occasione che difficilmente si ripeterà, per rovesciare i
paradigmi consolidati che ci hanno portato all’attuale situazione. Per una
conversione ecologica vera che inverta la rotta del riscaldamento globale
contenendo l’aumento di temperatura entro i 2°C indicati come punto oltre il
quale non esiste altro che l’estinzione della nostra specie. Se si continuerà
con la transizione, perpetuamente annunciata e puntualmente rinviata, finiremo
dritti dritti a livelli di aumento della temperatura intorno a 2,7 gradi, dagli
effetti imprevedibili.
Serve una conversione verso l’ecologia integrale che
riporti al giusto posto l’economia: tra l’etica e l’ecologia. E che dia
ascolto, come per la pandemia, ai moniti degli scienziati.
I giovani della New Generation Eu non devono
rassegnarsi a lasciare il bastone del comando alle élite economiche e
finanziarie che hanno posto le basi per la rapida distruzione del pianeta. Per
farlo devono riprendersi e riprendere la politica. Non c’è spazio per il futuro
se non nell’equilibrio tra tutela ambientale e giustizia sociale, con un
orizzonte nel quale l’umanità faccia pace all’interno di sé e con la Natura che
la nutre.
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