In quest’ultimo periodo sono usciti, e la cosa non è per nulla sorprendente, diversi articoli che parlano di incertezza. E dicono, mi sembra, cose interessanti.
È un ottimo motivo per tornare sul tema.
Dico “tornare” perché ne avevo già scritto nel bel mezzo del picco
della pandemia, ricordando (in estrema sintesi) che a partire dal secondo
dopoguerra abbiamo cercato di spingere l’incertezza ai margini più remoti della
nostra esperienza quotidiana. E che siamo arrivati a pretendere sempre risposte
e soluzioni tempestive, rassicuranti e certe, anche quando ottenerle è
oggettivamente impossibile.
Eppure, al crescere della complessità si accompagna fatalmente il crescere
dell’incertezza, e dovremmo imparare a gestirla. Senza negarla, senza farcene
travolgere, senza pretendere di governarla, ma mantenendoci flessibili e
aperti. E facendo leva sull’adattabilità, che è il principale fattore di
successo della nostra specie.
Aprire la porta dell’ignoto
Il novantanovenne filosofo Edgar Morin, in una bella intervista su Repubblica, parla del
cambiamento che una condizione di incertezza può favorire: “Oggi”, dice Morin,
“la globalizzazione ‘tecno-economica’ è più egemonica che mai. Con la sua sete
insaziabile di profitto, è stato il motore del degrado della biosfera e
dell’antroposfera, ha provocato chiusure nazionaliste, etniche e religiose.
Cambiare strada può sembrare impossibile. Ma tutte le nuove vie che la storia
umana ha conosciuto erano impreviste, figlie di deviazioni che hanno potuto
mettere radici, divenire forze storiche”.
E, poeticamente, aggiunge che “la vita è una navigazione in un oceano di
incertezze attraverso isole di certezze”.
L’obiettivo, dunque, sarebbe imparare a navigare, traendo il massimo
vantaggio dalle isole, anche se diventano via via più rare, affrontando
l’incerto oceano senza lasciarsene travolgere.
Qualche indicazione in questo senso si può ricavare da Aeon, che pubblica un lunghissimo articolo
intitolato The value of uncertainty.
L’esordio è una folgorante citazione del premio Nobel Richard Feynman,
tratta dal testo di una conferenza del 1963 intitolata (ci
risiamo) L’incertezza della scienza. “Penso”, dice Feynman, “che
sia molto più interessante vivere non sapendo, che avere risposte che possono
essere sbagliate. Per progredire bisogna lasciare socchiusa la porta
dell’ignoto”.
L’intero articolo di Aeon ruota attorno alla storia di Max Hawkins, ingegnere di Google che, sentendosi intrappolato nella sua vita, troppo prevedibile proprio perché perfettamente rispondente alle sue attese, si trasforma in artista. E comincia a vivere secondo le indicazioni di algoritmi che lui stesso ha progettato.
Questi algoritmi, in modo del tutto casuale, gli dicono che cosa mangiare,
dove andare a stabilirsi per i due mesi seguenti (lo spediscono, per esempio, a
Mumbai e in Slovenia), quale musica ascoltare, a quali eventi assistere, e
perfino quale disegno scegliere per un tatuaggio.
Qui, se volete replicare l’esperienza – che lui sostiene essere assai
appagante – c’è il
suo sito.
La scelta di Hawkins appare paradossale, ma ha un suo perché. Il nostro
cervello si dà continuamente da fare, tra aspettative e proiezioni, per
anticipare il futuro, e mettersi in grado di affrontarlo al meglio. Ma i tempi
che viviamo sono sommamente imprevedibili, e il cervello non ha abbastanza elementi utili per costruirsi
un quadro plausibile di quello che verrà.
Dunque, tanto vale allenarlo ad accogliere l’entropia.
Tre tipi d’interessi
La parte secondo me più interessante dell’articolo di Aeon, che compie anche
un’ampia digressione nell’universo delle sostanze psicotrope, è quella che
distingue fra tre tipi di incertezza.
C’è un’incertezza attesa, che possiamo mitigare recuperando informazioni
dall’ambiente, o facendo simulazioni. È quella che sperimentiamo quando, per
esempio, sbagliamo strada e non sappiamo più in che direzione andare. Allora
chiediamo informazioni, o ricorriamo al navigatore satellitare, o torniamo sui
nostri passi fino a ritrovare un luogo conosciuto. E tutto torna a posto.
C’è l’incertezza inattesa, che non riusciamo a contenere ricorrendo alle
strategie consuete, e che possiamo affrontare solo alzando il nostro tasso di
apprendimento, esplorando nuove opportunità, e imparando a fare delle stime di
probabilità. È, per così dire, un’incertezza di secondo livello. Può essere
produttiva e creativa perché forza le nostre abitudini di pensiero e di
comportamento. Ed è quella con cui si confronta Hawkins.
E poi c’è la volatilità: un susseguirsi di cambiamenti così repentini e
disordinati che fare stime è impossibile e non c’è nemmeno il tempo per
imparare qualcosa di nuovo. È un’incertezza di terzo livello. Una situazione in
cui simulazioni e stime sono impossibili, e in cui gli esiti di qualsiasi
azione sono aleatori. Risultato: frustrazione, senso di impotenza, apatia, fino
alla paralisi.
Isole di certezza
Hawkins trae il massimo profitto creativo dalla sua situazione perché è sì
molto incerta, ma non volatile. Lui stesso ha
progettato gli algoritmi, quindi lui stesso ha determinato la situazione in cui
si trova. E comunque gli algoritmi presentano delle regolarità: per esempio, lo
spediranno ad abitare in un luogo casuale, ma lo faranno regolarmente ogni due
mesi. La prevedibilità temporale è dunque, per così dire, un’isola di certezza.
Costruire isole di certezza per ricondurre l’insopportabile condizione di
volatilità a una più sopportabile (e potenzialmente fertile) situazione di
incertezza inattesa è quanto facciamo noi quando, nel bel mezzo del caos, ci
ricostruiamo frammenti di nuova normalità, per esempio cuocendoci a casa il
pane. O imponendoci di fare regolarmente esercizio. Ma è anche quanto, a pensarci
bene, facciamo appena arrivati nella stanza sconosciuta di un albergo, in un
posto sconosciuto: disponiamo subito in ordine, attorno a noi, le nostre cose.
Minuscole isole di certezza.
Di odierna paralisi da incertezza selvaggia parla anche un brillante articolo di Axios. Il quale segnala
che una strategia utile è pianificare sulla base non di un possibile futuro, ma
di molti possibili futuri alternativi: un esercizio che ci rende, oltre che più
preparati, più adattabili.
In sostanza, si tratta di tracciare molte rotte possibili, per potersi di
volta in volta accordare al vento, ma senza perdete di vista la meta.
Per riuscirci bene, però, dobbiamo abbandonare ogni illusione che tutto
possa tornare come prima, e accettare il fatto che disponiamo di poche risposte
alle infinite domande che ci stiamo ponendo.
Dobbiamo anche considerare che una dose d’ansia, in una situazione come
questa, non è patologica, ma legittima e umana.
In sostanza: dobbiamo sperare per il meglio, pianificare per il peggio (per
tutti i possibili peggio), e restare focalizzati sulle priorità reali (questa à
la cosa più difficile), senza perderci nei dettagli o farci travolgere dalle
chiacchiere. Conservando la capacità di guardare attraverso e oltre
l’emergenza.
E sì: ricordiamoci di indossare la mascherina.
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