Se non ridurremo le emissioni, continueremo con interventi di disboscamento e non rallenteremo il riscaldamento globale, le foreste pluviali del pianeta potrebbero trasformarsi in savana aperta con ripercussioni a cascata sull’innalzamento delle temperature e altri fenomeni legati al cambiamento climatico.
È quanto emerge da uno studio dello Stockholm Resilience Center
pubblicato il 5 ottobre su Nature Communications. Secondo la
ricerca, entro il 2100 fino al 40% dell’Amazzonia e parte delle foreste
pluviali del Congo e dell’Australia potrebbero essere sul punto di perdere
alberi e lasciare spazio a un mix di boschi e praterie. Le foreste pluviali
sono molto sensibili ai cambiamenti delle precipitazioni e dei livelli di
umidità e gli incendi e le siccità prolungate di questi ultimi anni potrebbero
accelerare questa transizione che, una volta superato il suo punto di svolta, è
difficile da fermare. Per quanto riguarda l’Amazzonia, si parlava da tempo di
questa eventualità, ma si pensava che ci sarebbero voluti diversi decenni prima
che diventasse uno scenario concreto.
a) Distribuzione delle aree stabili per le foreste pluviali (verde) e
vulnerabili soggette alla trasformazione in savana (beige) tra il 2003 e il
2014 in Amazzonia, Africa e Australia e Asia; b) Distribuzione delle aree
stabili per le foreste pluviali (verde) e vulnerabili soggette alla trasformazione
in savana (beige) alla fine del XXI secolo (2071-2100) in Amazzonia,
Africa e Australia e Asia.
«Le foreste pluviali hanno una grande influenza sulle precipitazioni. Le
foglie emettono vapore acqueo che cade sotto forma di pioggia. La pioggia
garantisce un minor numero di incendi e la crescita di ancora più
foreste», ha spiegato al Guardian Arie Staal,
autore principale della ricerca. «Le attuali condizioni più secche rendono più
difficile la rigenerazione delle foreste e aumentano l'infiammabilità
dell'ecosistema. Una volta che la foresta pluviale si è convertita in una
savana, è improbabile che ritorni naturalmente al suo stato precedente».
I ricercatori hanno simulato al computer l’intero processo di riduzione del
“riciclo dell’umidità atmosferica” in quelle aree dove ci si può aspettare che
ci siano delle foreste nelle regioni tropicali del pianeta, e hanno esaminato
anche cosa potrebbe accadere nel caso in cui le emissioni di gas serra
continuino ad aumentare, giungendo alla conclusione che buona parte
dell’Amazzonia potrebbe diventare irrimediabilmente una savana.
«Con i nostri studi siamo riusciti a capire che le foreste pluviali di
tutti i continenti sono molto sensibili ai cambiamenti globali e possono
perdere rapidamente la loro capacità di adattamento. E dato che le foreste
pluviali ospitano la maggior parte di tutte le specie globali, tutto questo
potrebbe andare perduto per sempre», ha commentato Ingo Fetzer, coautore dello
studio.
L’Amazzonia: la
scena di un crimine ecologico
Già, lo scorso anno, quando l’Amazzonia era stata colpita da quelli che erano
stati definiti gli incendi più intensi dell’ultimo decennio, scienziati del clima, economisti e ambientalisti avevano ipotizzato che entro un paio di
decenni la foresta pluviale si sarebbe depauperata e si sarebbe trasformata in
savana. Gli incendi si sono ripetuti anche quest’anno, con
un incremento del 60% rispetto al 2019.
Sotto accusa gli interessi di agricoltori, piccoli proprietari terrieri e
disboscatori illegali che avevano appiccato il fuoco per ottenere terre da
coltivare o dedicare al pascolo, sottraendole alle foreste, per far aumentare
il valore dei terreni sequestrati o allontanare le popolazioni indigene che
vivono nella foresta, e il Presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, il cui
governo ha ridotto gli sforzi per combattere il disboscamento illegale,
l’estrazione mineraria e l’allevamento su terre sottratte alla foresta.
Un’inchiesta di The Intercept aveva permesso di svelare un piano
segreto del governo brasiliano di disboscamento della foresta per colonizzare
l’Amazzonia attraverso la realizzazione di una centrale idroelettrica, la
costruzione di un ponte sul Rio delle Amazzoni, l’estensione dell’autostrada BR-163 (che attraversa il
Brasile dal Rio Grande do Sul fino allo Stato del Parà, a nord) fino al
Suriname, lo spostamento di popolazioni non indigene di altre regioni del
Brasile nell’entroterra settentrionale dell’Amazzonia, scarsamente
popolato.
Il piano di Bolsonaro arrivava dopo 8 anni (tra il 2004 e il 2012) in cui
la deforestazione era diminuita del 70% grazie alla
creazione di nuove aree protette, al monitoraggio dei disboscamenti illegali,
alla sottrazione di crediti governativi a quei produttori rurali colti in
flagrante mentre davano fuoco a terreni dove non era permesso farlo, salvo risalire dopo la recessione del
2014 sotto i governi guidati da Dilma Rousseff e Michel Temer, quando il paese
è diventato maggiormente dipendente dalle materie prime agricole che produce
(carne bovina e soia, motori della deforestazione: l'80% della soia prodotta in
Brasile è destinata al mangime per gli animali,
il resto per combustibile e alimentazione umana).
L’Amazzonia si sta configurando come la scena di un crimine
ecologico, scrivono l’urbanista Bruno Carvalho e il
climatologo Carlos Nobre.
Secondo uno studio pubblicato un paio di anni fa
sulla rivista Science Advances, se i tassi di deforestazione
sull’intero bacino supereranno il 20-25% dell’area forestale, il processo di
savanizzazione sarà irreversibile. Attualmente, spiegano Carvalho e Nobre,
circa il 17% delle foreste è stato già disboscato. Solo nell’Amazzonia
brasiliana oltre 8mila chilometri quadrati di foresta saranno probabilmente
distrutti entro la fine del 2020. Di questo passo, il punto di svolta potrebbe
essere raggiunto entro 20-30 anni. Una stima in linea con la proiezione
prefigurata dalla ricerca dello Stockholm Resilience Center.
Gli effetti non ricadrebbero solo sul bacino della foresta: la grande
regione agricola a sud dell’Amazzonia vedrebbe le sue temperature alzarsi;
l’aria umida che soffia verso sud verrebbe ridotta, influenzando
le precipitazione nel bacino del fiume La Plata nel sud-est del Sud America; la
savanizzazione indurrebbe una massiccia perdita di diverse specie di piante e
animali con danni devastanti per le comunità indigene e comporterebbe le
emissioni di oltre 200 miliardi di tonnellate di carbonio e,
contemporaneamente, una drastica riduzione dell’assorbimento dell’anidride
carbonica da parte della foresta.
Infine, l’alterazione dell’attuale equilibrio ecologico potrebbe generare
lo spillover (salto di specie) di virus,
batteri e parassiti, con rischi ancora maggiori di future pandemie.
Una casa per
l’uomo e la biodiversità
La strada per invertire la rotta è pensare un’economia centrata sulla
foresta, che preservi la biodiversità e dia agli abitanti dell’Amazzonia i
mezzi per potersi mantenere, coniugando strategie di sviluppo e di
conservazione, spiegano Carvalho e Nobre.
Si tratta di una visione in netta controtendenza con l’approccio che tratta
la foresta esclusivamente come produttrice di materie prime per industrie con
sede altrove e l’utilizzo delle sue risorse naturali per l’agricoltura,
l’energia e l’estrazione mineraria che provoca rapidi cicli di degrado, proseguono
i due studiosi. L’intera regione amazzonica, invece, va pensata come una casa
per l’uomo e la biodiversità.
Ciò significa investire in colture sostenibili, come le noci del Brasile,
il cacao e le bacche di açai, invece della soia e dell’allevamento, e assicurarsi
che i profitti restino nelle comunità locali, veri guardiani della
foresta.
Alcuni processi di questo tipo sono già attivi. Le bacche di açai, ad esempio, generano oltre 1
miliardo di dollari all’anno (ndr, circa 850 milioni di euro) per
l’economia amazzonica e hanno migliorato le condizioni di vita di oltre 300mila
produttori della regione. A Belterra, nello Stato del Parà, in Brasile, è stato
avviato un progetto che riunisce organizzazioni non governative, investitori,
università pubbliche e Amabela, la locale Associazione femminile dei lavoratori
rurali. L'idea è che questo gruppo produca cioccolatini artigianali utilizzando
il cupuaçu, un frutto amazzonico. Il gruppo sta
costruendo una "bio fabbrica" che prepari, lavori e confezioni i
cioccolati, utilizzando anche stampanti tridimensionali per alimenti e cucine
solari.
La tecnologia, inoltre, potrebbe correre in aiuto in altri modi. La Amazon
Bank of Codes punta a utilizzare la tecnologia blockchain per mappare i genomi delle foreste da
utilizzare nel settore farmaceutico e in altri settori assicurando così il
pagamento delle royalty. Sebbene sia considerato l'ecosistema con maggiore
biodiversità del pianeta, meno dell'1% del DNA della complessa vita nella
giungla è stato completamente sequenziato dagli scienziati.
«Se potessimo mappare e sequenziare il 100% della vita complessa sul
pianeta, sbloccheremo una quantità gigantesca di nuove innovazioni e industrie
che neanche immaginiamo», spiegava lo scorso anno al Financial
Times Juan Carlos Castilla-Rubio, presidente di “Space Time Ventures”,
una società tecnologica, con sede in Brasile, che lavora su biomassa, energia e
rischio idrico. «Finora abbiamo sequenziato solo lo 0,28% della vita complessa
sul pianeta. Ma la conoscenza di quello 0,28% è stata la base per molteplici
settori (prodotti farmaceutici, chimici, carburanti) - e ha portato a un giro
di soldi di almeno 4 miliardi di dollari l’anno».
In questo modo, concludono Carvalho e Nobre, creando una bioeconomia basata
su una foresta permanente, preservando la biodiversità e migliorando i mezzi di
sussistenza per le generazioni a venire, si potrebbe impedire di trasformare la
foresta amazzonica in una savana, evitando conseguenze disastrose per
l'ecosistema globale: distruggere l’Amazzonia significherebbe con molta
probabilità rendere la Terra inabitabile.
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