Gli incendi devastanti
dell’Australia nel giro di
un paio di mesi (tra il 2019 e il 2020, ndr) hanno bruciato
qualcosa come 100 mila chilometri quadrati di territorio, praticamente quanto
l’intero Nord Italia. Ed è solo uno dei tanti fenomeni naturali che devastano i
territori. Poi c’è Venezia,
con un altro tipo di fenomeno, più continuo, più impercettibile all’inizio, ma
poi inesorabile: l’aumento del livello
del mare. Il 12 novembre del 2019 Venezia ha sperimentato la seconda
acqua alta più alta della sua storia (la prima è stata quella del 1966). Ma
quel che conta ancora di più è la frequenza del fenomeno. Noi abbiamo dati
misurati perfettamente a Venezia dal 1870. Se andiamo a vedere la frequenza
delle acque alte, quelle distruttive, notiamo che l’ultimo decennio ne ha
totalizzate novantacinque sopra un metro e dieci, mentre se andiamo più
indietro nel tempo, prima degli anni Sessanta, c’erano non più di tre-cinque
episodi per decennio. Cioè da cinque episodi siamo passati a novantacinque.
Vuol dire che prima avevamo un episodio ogni due anni e adesso ne abbiamo nove
all’anno!
È un fenomeno globale, il livello del mare si sta alzando in tutto il mondo
a causa della fusione dei grandi ghiacciai, soprattutto della Groenlandia e in
parte anche dell’Antartide. Parallelamente le acque oceaniche si riscaldano e
aumentano di volume. I due fenomeni connessi provocano già oggi – secondo dati
misurati da satellite – un aumento del livello dei mari di tre millimetri e
mezzo. Come sempre la gente aspetta spettacoli hollywoodiani e, per prendere
coscienza del cambiamento, avrebbe bisogno di vedere un aumento di trenta
centimetri all’anno. Ma a quel punto saremmo perduti. Tre millimetri e mezzo di
aumento annuo sono forse pochi per percepirne il pericolo a vista, ma sono
tantissimi per erodere le nostre spiagge e minacciare le nostre zone portuali.
Essi fanno sì che Venezia abbia oggi quindici centimetri di mare in più
rispetto a un secolo fa. Questo vuol dire che d’ora in poi tutte le acque alte
saranno quindici centimetri più alte di cent’anni fa. E a fine secolo? Se si
applicasse l’accordo di Parigi del 2015 (che fissa, per il 2100, il limite di
2°C di aumento della temperatura), si ritiene di poter mantenere l’innalzamento
del mare entro mezzo metro, ma se non si fa nulla si potrà superare il metro.
Ciò vorrebbe dire, per Venezia, l’acqua alta tutti i giorni dell’anno, e un
metro in più durante le acque alte “cattive”, quelle in cui lo scirocco si
combina con la marea. Allora, invece di sfiorare i due metri, arriveremo a tre.
Ma cosa vuol dire tre metri di
mare a Venezia? Vuol dire il mai visto, vuol dire qualcosa a cui la città non
può far fronte, vuol dire avere l’acqua ai primi piani delle case.
E poi pensiamo alle ondate di
calore estivo. Anche qui siamo in un settore in cui potremmo pagare un
prezzo molto elevato. Attualmente nella Pianura padana la temperatura massima mai misurata appartiene
a Forlì: 43°C il 4 agosto del 2017. Nel giugno del 2019 in Francia, in
Provenza, abbiamo toccato i 46°C. Ora, da qui ad arrivare ai 50°C il passo è
breve. Noi climatologi ci
aspettiamo che entro i prossimi dieci o venti anni vedremo nelle città italiane
del nord – Milano, Bologna etc. – delle temperature massime superiori ai 45°C e
prossime ai 50°C. Sono temperature da Pakistan, da India. Temperature che noi
non siamo pronti ad affrontare. Qualcuno dirà: «Mi chiudo in un ufficio
con il condizionatore a manetta», ma lo puoi fare per un giorno, non se questi
fenomeni diventano sistematici per un periodo lungo dell’estate. Il costo di
ciò si calcola in termini di vite umane, di vittime, ed è la popolazione
anziana e malata la prima a soccombere: l’estate del 2003 in Europa ha fatto 70.000 morti! Ma è un
prezzo che si calcola anche in termini energetici, perché è chiaro che se
tutti, per sopravvivere, metteranno i condizionatori al massimo, i consumi di
energia (e le bollette) aumenteranno in modo esponenziale. Pagheremo un prezzo
in tutte le attività che hanno a che fare con l’ambiente esterno, dall’edilizia
all’agricoltura: i lavoratori che oggi lavorano fuori non potranno continuare a
farlo in quelle condizioni, senza rischiare la vita. In questo senso le nostre
città diventeranno un luogo di grande vulnerabilità climatica per le ondate di
calore. […]
Non possiamo tornare indietro, possiamo soltanto
cercare di contenere il danno, di evitare lo scenario peggiore. Anche nella ipotesi
migliore, cioè quella di un aumento della temperatura di soli 2°C
e dell’innalzamento del mare di solo mezzo metro, i
cambiamenti che ho descritto ci saranno. Solo saranno, sperabilmente, a un
livello più “maneggevole” rispetto allo scenario peggiore, quello della mancata
applicazione dell’Accordo di Parigi, che porterebbe, a fine secolo, a un
aumento della temperatura di 5°C o 6°C in più e a un innalzamento dei mari di
un metro e venti. Allora, se
leggiamo con gli occhi giusti i segnali di quello che già sta avvenendo nel
mondo, tra aumento della temperatura, fusione dei ghiacci dell’Oceano Artico e
dei ghiacciai delle nostre montagne, ondate di calore, eventi estremi più
intensi (più alluvioni e più uragani), capiamo che dovremmo fare di tutto, da
un lato, per adottare stili di vita meno invasivi nei confronti dell’ambiente
e, dall’altro, per prepararci ad affrontare eventi che ormai sono in canna, e
rispetto ai quali non possiamo tornare indietro…
Ormai siamo condannati a vivere con un clima malato, quello che possiamo
decidere è quanto può essere grave l’entità di questa malattia.
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