giovedì 15 ottobre 2020

Il loro Recovery Fund - Paolo Cacciari

Avrei una proposta risolutiva per porre fine alla penosa zuffa in corso tra le lobby e le corporazioni economiche per arraffare qualche manciata del gruzzolo di euro che l’Unione europea ha deciso di stampare e distribuire ai vari stati sotto forma di Recovery and Resilience Facility Fund (1.8024 miliardi tra sussidi e prestiti compresi quelli del Next Generation Eu). Suggerisco a governo e parlamento italiano di dare il buono esempio e investire il tesoretto da 270 miliardi che ci spetta nel meraviglioso progetto The Great Green Wall Initiative, la muraglia verde sub-sahariana che attraversa l’intera lunghezza dell’Africa dal Senegal all’Etiopia lunga 8.ooo chilometri, dall’Atlantico a Mar Rosso e larga dai 15 ai 50 chilometri. Il progetto è stato adottato dall’Unione africana nel 2007 allo scopo di fermare l’avanzata della desertificazione, rigenerare cento milioni di ettari e offrire una opportunità di vita e di lavoro a dieci milioni di persone. Ma i paesi dall’Unione degli stati della regione Sahelo-Sahariana non hanno tutti i denari necessari per realizzare l’opera, nonostante vari contributi filantropici e i pochi fondi della cooperazione internazionale. Per i paesi europei rappresenterebbe un intervento riparatorio e un piccolo risarcimento per i danni arrecati all’Africa dalla plurisecolare rapina delle sue risorse naturali. Nonché un modo concreto e strategico per allentare la pressione migratoria. Sono sicuro che gli altri stati europei capirebbero e seguirebbero il buon esempio italiano!

Parrebbe una provocazione, ma in realtà investire nel ripristino delle foreste primarie e nella rigenerazione degli ecosistemi dovrebbe essere la più razionale, coerente ed efficace azione di prevenzione primaria per impedire il diffondersi di pandemie da virus e batteri trasmessi da animali (malattie zoonotiche). Un’emergenza ecosistemica che rappresenta una minaccia ai diritti fondamentali della salute. Come hanno dimostrato e avvertito gli scienziati, dall’Aids ad Ebola, alle varie sindrome respiratorie SARS, i virus sono in natura “creature insignificanti e tranquille” finché rimangono all’interno delle loro “riserve virali” (David Quammen, la Repubblica, 2 ottobre 2020), ma pronti a “tracimare” (spillover) e contagiare altre specie animali, fino a raggiungere gli allevamenti domestici e le popolazioni umane, quando i loro habitat naturali vengono perturbati, degradati, distrutti. Gli incendi delle foreste primarie, dall’Amazzonia all’Australia, come la industrializzazione e la chimicizzazione dell’agricoltura, creano quelle situazioni in cui “il virus può essere spinto fuori dalla sua confort zone e catapultato in una nuova situazione: un nuovo potenziale organismo ospitante”. Le aree inquinate e degradate spingono i micorganismi altrove. Ma non basta. Virus latenti e sconosciuti possono tornare in circolazione anche con lo scioglimento dei ghiacciai nelle calotte polari e del permafrost nelle regioni siberiane (vedi di Eliana Lietta e Massimo Clementi, con la supervisione dell’European Insitute on Economics and Environmentt, La rivolta della natura, la nave di Teseo, 2020). Una eventualità non improbabile. Nei ghiacciai dell’Alaska la Nasa ha trovato microbi del Pleistocene. Nella penisola di Yamal in Siberia il combinato disposto del sovrasfruttamento dei giacimenti di gas naturale e del surriscaldamento del clima sta creando “gigantesche voragini [l’Istituto di scienza di Skolkovo ne ha censite settemila createsi nell’arco degli ultimi dieci anni] che si spalancano all’improvviso nella tundra” e che la popolazione locale chiama “porte verso l’inferno” (Vedi l’inchiesta di Antonella Scott su Il Sole 24 Ore di Domenica 20 settembre).

Se non vogliamo vivere per sempre, noi e i nostri figli e i figli dei nostri figli, con le mascherine (utili, peraltro, anche per le polveri sottili inalabili generate dalle combustioni), sarà quindi bene incominciare a pensare a rimuovere le cause fondamentali che favoriscono la diffusione degli agenti patogeni. Non potendo sterminare tutti i virus e i batteri (il sogno segreto dei virologi, ma sarebbe la fine di ogni forma di vita sul pianeta) gli sforzi dovrebbero essere indirizzati a mantenere il più possibile estesi e integri gli habitat naturali. Seguendo il principio dell’unità, della complessità, dell’interrelazione e dell’interdipendenza di tutte le cose e i fenomeni naturali. In pratica bisognerebbe ri-naturalizzare le aree degradate, consentire la libera espansione delle foreste pluviali, l’esondazione dei fiumi e la formazione di aree umide ricche di biodiversità; vietare la caccia, il commercio e la macellazione degli animali selvatici; impedire la urbanizzazione a ridosso delle aree naturali. In una parola: far arretrare la colonizzazione del mondo. Considerando che il 75 per cento della superficie terrestre è stato già intaccato, un buon compromesso potrebbe essere quello di restituire metà della Terra al libero sviluppo dei sistemi naturali, secondo la proposta HalfEarth del biologo e naturalista statunitense Edward O.Wilson. Ciò costituirebbe anche la migliore strategia di lotta al surriscaldamento del clima. É noto infatti che il sistema più efficiente di cattura, stoccaggio e restituzione al suolo di carbonio è quello fornito gratuitamente dalla fotosintesi clorofilliana.

Certo, dovremmo fare molto anche in casa in casa nostra. Penso all’immediato blocco del “consumo di suolo” con un vincolo di legge generalizzato sulle superfici agricole. Un’azione concreta a costo zero di “transizione verde” che potrebbe essere accompagnata da una misura a favore dell’utilizzo delle aree abbandonate e degradate da parte di giovani imprenditori disposti a usare tecniche di produzione agroecologiche. Anche in questo caso i benefici sarebbero multiscopo.

L’unica cosa da non fare è utilizzare i finanziamenti del Next Genertion Eu per “rilanciare” attività economiche non utili alla rigenerazione degli ecosistemi naturali. Meglio perderli.

da qui

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