Avrei una proposta risolutiva per porre fine alla penosa zuffa in corso tra le lobby e le corporazioni economiche per arraffare qualche manciata del gruzzolo di euro che l’Unione europea ha deciso di stampare e distribuire ai vari stati sotto forma di Recovery and Resilience Facility Fund (1.8024 miliardi tra sussidi e prestiti compresi quelli del Next Generation Eu). Suggerisco a governo e parlamento italiano di dare il buono esempio e investire il tesoretto da 270 miliardi che ci spetta nel meraviglioso progetto The Great Green Wall Initiative, la muraglia verde sub-sahariana che attraversa l’intera lunghezza dell’Africa dal Senegal all’Etiopia lunga 8.ooo chilometri, dall’Atlantico a Mar Rosso e larga dai 15 ai 50 chilometri. Il progetto è stato adottato dall’Unione africana nel 2007 allo scopo di fermare l’avanzata della desertificazione, rigenerare cento milioni di ettari e offrire una opportunità di vita e di lavoro a dieci milioni di persone. Ma i paesi dall’Unione degli stati della regione Sahelo-Sahariana non hanno tutti i denari necessari per realizzare l’opera, nonostante vari contributi filantropici e i pochi fondi della cooperazione internazionale. Per i paesi europei rappresenterebbe un intervento riparatorio e un piccolo risarcimento per i danni arrecati all’Africa dalla plurisecolare rapina delle sue risorse naturali. Nonché un modo concreto e strategico per allentare la pressione migratoria. Sono sicuro che gli altri stati europei capirebbero e seguirebbero il buon esempio italiano!
Parrebbe una provocazione, ma in realtà investire
nel ripristino delle foreste primarie e nella rigenerazione degli ecosistemi
dovrebbe essere la più razionale, coerente ed efficace azione di prevenzione
primaria per impedire il diffondersi di pandemie da virus e batteri trasmessi
da animali (malattie zoonotiche). Un’emergenza ecosistemica che rappresenta una
minaccia ai diritti fondamentali della salute. Come hanno dimostrato e avvertito gli scienziati, dall’Aids ad Ebola,
alle varie sindrome respiratorie SARS, i virus sono in natura “creature
insignificanti e tranquille” finché rimangono all’interno delle loro “riserve
virali” (David Quammen, la Repubblica, 2 ottobre 2020), ma pronti a “tracimare”
(spillover) e contagiare altre specie animali, fino a raggiungere gli
allevamenti domestici e le popolazioni umane, quando i loro habitat naturali
vengono perturbati, degradati, distrutti. Gli incendi delle foreste primarie,
dall’Amazzonia all’Australia, come la industrializzazione e la chimicizzazione
dell’agricoltura, creano quelle situazioni in cui “il virus può essere spinto
fuori dalla sua confort zone e catapultato in una nuova situazione: un nuovo
potenziale organismo ospitante”. Le aree
inquinate e degradate spingono i micorganismi altrove. Ma non
basta. Virus latenti e sconosciuti possono tornare in circolazione anche con
lo scioglimento dei
ghiacciai nelle calotte polari e del permafrost nelle regioni
siberiane (vedi di Eliana Lietta e Massimo Clementi, con la supervisione
dell’European Insitute on Economics and Environmentt, La rivolta della
natura, la nave di Teseo, 2020). Una eventualità non improbabile. Nei
ghiacciai dell’Alaska la Nasa ha trovato microbi del Pleistocene. Nella
penisola di Yamal in Siberia il combinato disposto del sovrasfruttamento dei
giacimenti di gas naturale e del surriscaldamento del clima sta creando
“gigantesche voragini [l’Istituto di scienza di Skolkovo ne ha censite
settemila createsi nell’arco degli ultimi dieci anni] che si spalancano
all’improvviso nella tundra” e che la popolazione locale chiama “porte verso
l’inferno” (Vedi l’inchiesta di Antonella Scott su Il Sole 24 Ore di Domenica
20 settembre).
Se non vogliamo vivere per sempre, noi e i nostri figli e i figli dei
nostri figli, con le mascherine (utili,
peraltro, anche per le polveri sottili inalabili generate dalle combustioni),
sarà quindi bene incominciare a pensare a rimuovere le cause fondamentali che favoriscono la
diffusione degli agenti patogeni. Non
potendo sterminare tutti i virus e i batteri (il sogno segreto dei
virologi, ma sarebbe la fine di ogni forma di vita sul pianeta) gli sforzi dovrebbero essere
indirizzati a mantenere il più possibile estesi e integri gli habitat naturali.
Seguendo il principio dell’unità, della complessità, dell’interrelazione e
dell’interdipendenza di tutte le cose e i fenomeni naturali. In pratica bisognerebbe ri-naturalizzare le
aree degradate, consentire la libera espansione delle foreste pluviali,
l’esondazione dei fiumi e la formazione di aree umide ricche di biodiversità;
vietare la caccia, il commercio e la macellazione degli animali selvatici;
impedire la urbanizzazione a ridosso delle aree naturali. In una parola: far arretrare la colonizzazione del mondo.
Considerando che il 75 per cento della superficie terrestre è stato già
intaccato, un buon compromesso potrebbe essere quello di restituire metà della
Terra al libero sviluppo dei sistemi naturali, secondo la proposta Half–Earth del
biologo e naturalista statunitense Edward O.Wilson. Ciò costituirebbe anche la
migliore strategia di lotta al surriscaldamento del clima. É noto infatti che
il sistema più efficiente di cattura, stoccaggio e restituzione al suolo di
carbonio è quello fornito gratuitamente dalla fotosintesi clorofilliana.
Certo, dovremmo fare molto anche in casa in casa nostra. Penso
all’immediato blocco del “consumo
di suolo” con un vincolo di legge generalizzato sulle superfici
agricole. Un’azione concreta a costo zero di “transizione verde” che potrebbe
essere accompagnata da una misura a favore dell’utilizzo delle aree abbandonate
e degradate da parte di giovani imprenditori disposti a usare tecniche di produzione agroecologiche. Anche in
questo caso i benefici sarebbero multiscopo.
L’unica cosa da non fare è utilizzare i
finanziamenti del Next Genertion Eu per “rilanciare” attività economiche non
utili alla rigenerazione degli ecosistemi naturali. Meglio perderli.
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