Ogni tanto Davide torna a sconfiggere Golia. La fionda questa volta ha colpito il gigante nelle Ande peruviane, dove Máxima Acuña, premio Goldman per l’ambiente nel 2016, ha vinto una nuova battaglia contro la compagnia mineraria Yanacocha, di proprietà della statunitense Newmont Mining Corporation. Il Tribunale costituzionale ha infatti accolto venerdì scorso la denuncia presentata nel 2016 dalla contadina diventata simbolo mondiale della lotta all’estrattivismo, ordinando all’impresa di rispettare il diritto alla privacy della sua famiglia, rimuovendo la videocamera di sorveglianza collocata a 300 metri dalla sua abitazione e astenendosi dall’uso di droni sul suo appezzamento.
Si tratta dell’ultimo capitolo – ma è probabile che altri ne seguiranno –
di una complessa vicenda giudiziaria che ha inizio già nel 2011, quando, nella
regione di Cajamarca, la Yananocha decide di ampliare l’area di sfruttamento
dell’omonima miniera, la più grande miniera d’oro a cielo aperto dell’America
Latina. Il progetto di espansione, noto come progetto Conga, si scontra però
contro i 24,8 ettari dell’appezzamento di terra a Tragadero Grande, nel
distretto di Sorochuco, ottenuto legittimamente nel 1994 da Máxima Acuña, che
di andarsene da lì non ne vuole proprio sapere. A nessun prezzo.
La Yanacocha le prova tutte, anche mandando due funzionari di polizia, nel
gennaio del 2014, a casa della donna, per ordinarle di lasciare immediatamente
la casa. Facendo leva sull’acquisto di centinaia di ettari direttamente dalla
comunità di Sorochuco, tra cui, a suo dire, anche il terreno di Máxima (che
tuttavia nessuno ha interpellato), la compagnia la denuncia per usurpazione,
finché nel dicembre 2014 la donna viene riconosciuta innocente dal tribunale di
Cajamarca.
Ma la Yanacocha non si arrende. Con un curriculum che vanta imprese come il
devastante sversamento di mercurio a Choropampa, nel 2000, costato la vita a
oltre 70 persone, e rimasto impunito, non può certo farsi fermare da una
contadina alta un metro e mezzo.
Così, mentre il processo sulla titolarità dell’appezzamento va avanti, nel
febbraio del 2015 circa 200 poliziotti fanno irruzione nel suo campo, demolendo
una parte della casa costruita come protezione dalla pioggia. Mentre l’anno
dopo, sempre a febbraio, sono le forze di sicurezza della Yanacocha a
distruggere il raccolto di patate che Máxima e la sua famiglia stavano
coltivando per il proprio sostentamento, sostenendo che le patate erano state
piantate illegalmente. Le pressioni non si interrompono: insieme alla
videocamera e ai droni, la compagnia erige una recinzione metallica intorno al
suo terreno, come una gabbia, e schiera uomini della vigilanza sulla strada
sterrata di Sorochuco, l’unica via a disposizione della famiglia per spostarsi.
Cosicché chiunque voglia farle visita deve passare per un check-point e
attendere un lasciapassare.
A fermare la Yanacocha non è bastata neppure la sentenza con cui, nel
maggio del 2017, la Corte suprema di Giustizia ha riconosciuto alla famiglia
Acuña Chaupe la proprietà dei circa 25 ettari contesi, mentre al di fuori del
Palazzo di Giustizia una moltitudine di persone innalzava cartelli con scritto:
«Máxima no está sola». La compagnia, infatti, non solo ha annunciato di
mantenere aperte altre istanze contro di lei, ma non ha rinunciato neppure ad
aggressioni e intimidazioni. Ancora lo scorso anno, non a caso, suo figlio
Daniel Chaupe ha denunciato l’avvelenamento di più di mille trote allevate
dalla famiglia.
Máxima, tuttavia, non cede, malgrado i pericoli, i sacrifici e i timori
così ben descritti da Mirtha Vásquez – avvocata dell’Associazione Grufides che
ha preso a proprio carico le spese dei vari processi sostenuti contro la
compagnia – all’indomani della sentenza del 2017: «Questi cinque anni sono
stati anni di enorme tensione per loro, tutti i giorni vigilati, tutti i giorni
minacciati, tutti i giorni con la paura che vengano a invadere o che li caccino
o tolgano loro il terreno o che possano perfino ammazzarli. […] E tutto questo
è una lezione di grande valore, non solo per loro, ma anche per tutta la gente
che ha sempre avuto paura di fronte al potere».
Tanto più che la loro lotta non è solo per la tutela dei propri legittimi
beni, ma anche per la difesa dell’intero ecosistema regionale esposto alla
minaccia rappresentata dal progetto Conga. Progetto sospeso nel novembre del
2011 proprio in seguito alle proteste della popolazione, preoccupate per la
prevista distruzione di quattro laghi di montagna, tra cui la Laguna Azul sul
Tragadero Grande, che forniscono ai contadini di cinque vallate l’acqua per
bere, per l’agricoltura e per l’allevamento.
Del resto, in un Paese in cui oltre il 20% del territorio nazionale è
coperto da concessioni minerarie di varia natura e in cui la Defensoria del
Pueblo, nel suo ultimo rapporto del 2019, registra 186 conflitti minerari, il
popolo peruviano ha dovuto ben presto imparare a lottare. E in qualche caso è
riuscito anche a vincere.
L’articolo è tratto da “il manifesto”
del 7 ottobre
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