giovedì 20 gennaio 2022

La vulva in fiamme - Martina Carpani *


La campagna per il riconoscimento della vulvodinia mette in discussione i paradigmi biomedici della medicina patriarcale e indica la malattia come un potente terreno di lotta

Nel dibattuto sul ruolo della medicina che ha infuocato i talk show e i social network negli ultimi anni pandemici, è stata lasciato poco spazio al punto di vista diretto di chi vive l’esperienza di una malattia cronica e prova sulla propria pelle i limiti della medicina e le disuguaglianze del Sistema sanitario nazionale. 

Il 23 ottobre dello scorso anno il movimento femminista Non Una Di Meno ha portato in piazza la campagna «Sensibile-invisibile», nominando per la prima volta nello spazio pubblico parole tabù e discriminazioni abiliste, di genere e di classe vissute da chi si confronta giornalmente con vulvodinia, endometriosi e fibromialgia. Il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, animato dalle associazioni di pazienti e dal personale medico-sanitario, ha avviato contestualmente una campagna politica per promuovere il riconoscimento della vulvodinia nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale, al fine di garantire tutele sanitarie, economiche e lavorative a tutte le persone che ne soffrono. 

Spesso questo tipo di lotte sono declassate a battaglie di retroguardia poco generalizzabili e poco interessanti, se non per solidarietà – e a tratti pietismo – verso le donne e le persone amiche che ne soffrono. Invece, utilizzando la pratica femminista che rende il personale politico e facendo lo sforzo di eliminare la lente abilista che oscura il nostro sguardo – ossia la convinzione-norma che tutte le persone siano «sane» e abbiano un corpo abile, da cui deriva la prassi di considerare «eccezione» e dunque soggetto discriminabile tutte le persone che non lo sono – è possibile analizzare quanto sia politica e attuale l’esperienza «sociale» di una malattia sottodiagnosticata che coinvolge 1 donna o persona con vulva ogni 7 e che rappresenta un esempio vivo di come mettere a critica la medicina, pur rivendicando con forza il servizio pubblico.

Cinquant’anni fa, nel pieno dei moti femministi, faceva il giro del mondo il libro Our Bodies, Ourselves del Boston Women’s Health Book Collective, scritto dalle donne per le donne, che ha portato migliaia e migliaia di donne in tutto il mondo a riappropriarsi delle conoscenze sul proprio corpo e a iniziare una feroce critica alle istituzioni della medicina patriarcale, grazie a una dialettica virtuosa tra saperi di natura scientifica ed esperienze delle donne. Scrivono le autrici: 

Fu per noi un’esperienza politica fondamentale: scoprire che non disponevamo di quasi nessun controllo sulla nostra vita e il nostro corpo; uscire dall’isolamento per imparare l’una dall’altra le cose di cui avevamo bisogno; sostenerci reciprocamente nel chiedere i cambiamenti che il nostro nuovo atteggiamento critico indicava come necessari. In quel momento abbiamo preso coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di operare cambiamenti.

Da quel momento a oggi, molto è certamente cambiato, ma sul corpo delle donne esiste ancora un grande problema culturale, tanto da renderlo ipersessualizzato e al contempo costantemente negato. L’antropologa femminista Christine Labuski nel suo It hurts down there, the bodily imaginaries of female genital pain racconta che tutte le donne con vulvodinia che hanno varcato la porta dello studio medico in cui ha svolto la sua ricerca non abbiano mai usato le parole «mi fa male la vulva». La percezione è che manchino le parole giuste per descrivere il dolore, non solo nei manuali degli studi medici, ma anche e soprattutto nelle nostre vite di donne e persone con vulva. È anche questa una delle tantissime conseguenze negative dell’assenza di un’educazione sessuale e di un’educazione al corpo che non deleghi solo al personale medico il riconoscimento dei sintomi: non renderci capaci di capire e percepire il nostro corpo in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle dolorose.

Bruna Orlandi nel suo libro Nonostante, libera. narra la sua storia di vulvodinia esordendo con queste parole: «Parlerò della vulva per emanciparla dal falso mito che la ammanta e la vede solo come portatrice di piacere. Come ogni parte del corpo può far male, ammalarsi ed essere curata, tuttavia è ad alto indice di sconvenienza sociale manifestarne il dolore».

La vulvodinia è, infatti, una malattia cronica imprevista sia dal punto di vista medico che dal punto di vista sociale, definita in letteratura come dolore vulvare che si protrae per oltre tre mesi. Si presenta con sintomi di tipo spontaneo o provocati dal contatto, quali bruciore, sensazioni di spilli, scosse elettriche e lacerazioni, spesso accompagnata da contratture del pavimento pelvico e da una sofferenza del nervo pudendo. 

In medicina è considerata una tra le cosiddette «contested illnesses» che sfidano il paradigma biomedico positivista. La diagnosi avviene per esclusione da altre patologie, attraverso il cosiddetto «swab test», grazie al quale, praticando pressione con un cotton fioc, si verifica la presenza di un dolore intenso anomalo, riconoscendo la sola esperienza di dolore della persona come prova inconfutabile dell’esistenza del dolore stesso. Gran parte del personale medico-sanitario non solo non è formato per diagnosticare questa patologia, ma – come accade per la fibromialgia – ne mette in discussione la stessa esistenza, nonostante la larga diffusione e il riconoscimento nella letteratura medica internazionale, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Il racconto portato in piazza e diffuso sui social da tantissime è quello di anni di totale invalidazione dei sintomi da parte del personale medico. Ciò è, infatti, diretta conseguenza del paradigma positivista biomedico che non riconosce il dolore senza causa organica o le sue manifestazioni fuori dallo «standard» e che, pur di non aprirsi a una crisi epistemologica, scarica violentemente su di noi i propri limiti sotto forma di colpa individuale, usando l’espediente della critica ai nostri stili di vita per mettere in discussione l’esperienza soggettiva del dolore. La lista di «è tutto nella tua testa», «per le donne è normale soffrire» e «sei stressata ultimamente?» che ci siamo sentite dire non è un caso, ma conferma che la medicina patriarcale utilizza una lente sessista per formulare diagnosi e ipotesi mediche, svaluta e discredita il dolore delle donne, costantemente normalizzato come «castigo di genere» o «eccesso di fragilità». 

In realtà, sebbene la causa della vulvodinia non sia univocamente determinata, è stato individuato un ventaglio di possibili eventi – o cluster – di diversa natura che innescano una percezione alterata del dolore, tra i quali anche quello psicosessuale. Secondo le maggiori ricerche, l’eventuale origine psicosomatica del dolore, anche quando presente, non giustifica in nessun modo l’approccio medico che nega la sua esistenza e che costituisce invece una manifestazione della violenza di genere istituzionale. Anzi, secondo i maggiori studi, tantissime donne vivono depressione, ansia e altre conseguenze psicologiche come conseguenza e non come causa della malattia, proprio a causa di anni di soprusi e dolore non riconosciuto, sia dai medici che dalla società.

La storia clinica di centinaia e centinaia di donne rifiutate dalle istituzioni sanitarie come «moderne isteriche», dimostra quindi come la propaganda della «iper-razionalità» medica, esemplificata da alcuni tristemente noti divulgatori scientisti che si sono distinti anche in questi anni di pandemia, non sia solo profondamente errata, ma soprattutto facilmente riutilizzabile a danno dei soggetti marginalizzati, sui cui corpi non esiste adeguata ricerca medica, in quanto – parafrasando Johanna Hedva ne La teoria della donna malata – non conformi all’inarrivabile paradigma di salute abile, bianco, non stressato e benestante costruito dalla nostra cultura. 

Secondo Vulvodinia Online, la vulvodinia ha un ritardo diagnostico medio di quattro anni e mezzo ed è diagnosticata dopo aver consultato diversi specialisti. In questo limbo, la maggiore fonte di informazione in merito alla malattia è lo spazio virtuale, unico luogo dove il dolore viene legittimato e trova un nome. Grazie ai gruppi social e ai siti web delle associazioni, tantissime scoprono l’esistenza della parola «vulvodinia» e iniziano la sfilza stressante di visite presso i pochissimi specialisti formati e consigliati da altre donne, quasi tutti nel settore privato e con un anno di lista d’attesa. Internet, lo stesso luogo messo alla gogna dall’opinione pubblica per la diffusione di informazioni sbagliate in ambito medico, risulta in questo caso uno spazio fondamentale di autodifesa dal gaslighting medico, poiché rappresenta – nel pieno delle sue ambiguità e dei suoi rischi – l’unico spazio di conoscenza accessibile per le persone malate tagliate fuori dalla sanità pubblica e dalle fonti di conoscenza «ufficiali». 

Questa esperienza diretta di migliaia di donne rappresenta un forte squarcio nella narrazione della medicina come divulgabile solo «dagli addetti ai lavori» che non va affatto in una direzione «antiscientifica». Rivendicare la medicina come scienza non esatta e non neutra, le conoscenze sulla salute come saperi collettivi e non elitari, l’esperienza dei nostri corpi come parte fondamentale e attiva del processo di costruzione del sapere medico, darsi occasione di riconoscerci tra pari, ognuna nei sintomi dell’altra, scambiarsi conoscenze per poter diminuire il rapporto di potere medico-paziente non significa aprire uno spazio «antiscientifico», ma riaprire un processo virtuoso che viene dalla tradizione dell’autocoscienza femminista e che considera la medicina come un sapere necessariamente aperto e fondato sull’integrazione tra saperi di natura diversa, tra i quali sicuramente l’esperienza del corpo.

Se i consultori fossero ancora il luogo autonomo di produzione di saperi femministi, di sensibilizzazione pubblica e di raccolta dei bisogni di cura di donne e persone con vulva per cui sono nati, potrebbero essere il luogo di confronto dialettico tra le istituzioni mediche e i processi di mutuo aiuto e produzione di saperi sulla salute elaborati dalle donne e dalle soggettività dissidenti. Oggi, invece, mancano luoghi, strumenti e processi di apertura del sapere medico alla società, che integrino le conoscenze scientifiche con le ricerche antropologiche e sociologiche e con i processi di raccolta dei bisogni di cura, che orientino le priorità di ricerca in base ai bisogni sociali e a criteri diversi dal profitto. Sembra assurdo, infatti, che una malattia che colpisce il 15% della popolazione assegnata femmina alla nascita sia passata per anni inosservata e sottodiagnosticata, persa nelle carenze della medicina territoriale e nell’arroganza della medicina specialistica.

A seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le associazioni di pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria per accedere all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli, che corrispondono a una spesa mensile pari a quasi il 20% dello stipendio netto medio di una lavoratrice dipendente. La cura è dunque un percorso a ostacoli particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate, precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.

C’è urgenza che tutto questo cambi, perché, anche se di vulvodinia non si muore, con la vulvodinia non si vive. In un mondo che fa scandire all’abilismo i ritmi del lavoro produttivo e riproduttivo, poter ascoltare il dolore del proprio corpo e il livello del bruciore spontaneo delle proprie vulve è un privilegio incompatibile con la maggior parte degli impieghi e del carico di lavoro domestico. L’imprevisto dolore alla vulva non dà diritto alla malattia, né al riconoscimento di percentuali di disabilità, neppure per chi di noi ha fitte spontanee lancinanti, anzi, spesso richiede di iniziare un secondo lavoro per poter sostenere il costo delle cure. 

Inoltre, il fatto che la malattia colpisca proprio la vulva, rappresenta un imprevisto sociale in una società fondata su relazioni sessuali e romantiche ancora troppo ancorate al modello patriarcale. Per molte donne cis, specialmente eterosessuali, vivere la vulvodinia significa fare i conti con lo stigma causato dall’impossibilità di aderire alle norme di genere della cultura patriarcale dominante, vuol dire sentirsi «donne rotte», «donne inadeguate», «donne a metà», come raccontano le ricerche sociologiche che parlano di vulvodinia. 

Come cinquant’anni fa, dunque, oggi diverse generazioni di vulvodiniche si sono accorte di non sapere ancora abbastanza del proprio corpo, di subire collettivamente ingiustizia e abusi di potere. Elaborando il ruolo di «soggetto imprevisto», donne con la vulva in fiamme rivendicano la propria esistenza medica e sociale, la propria espressione erotica e la propria desiderabilità nonostante la malattia. Grazie alla sorellanza e a esperienze di mutuo aiuto, gruppi di malate rivendicano l’altalenarsi del proprio stato di salute e del proprio stato emotivo senza autogiudizio, rifiutando quella «cultura del dolore» socialmente costruita e rafforzata dai media, che non lascia spazio alle micro-resistenze quotidiane ma rafforza solo narrazioni pietistiche della malattia. Soprattutto ancora oggi sperimentano il potere di unire insieme i corpi malati – con forme e modalità compatibili con lo stato del dolore – nella lotta, con l’urgenza di pretendere la gratuità delle cure per tutte, formazione medica obbligatoria sui nostri corpi e un centro pubblico specializzato in dolore pelvico in ogni Regione, per lanciare un j’accuse alle istituzioni mediche patriarcali ed alla «cultura dell’essere sani». 

Nelle contraddizioni della medicina e della cura istituzionale, in una pandemia globale la cui gestione appare scaricata sempre più sulle persone che hanno corpi più esposti alle potenziali conseguenze avverse del long Covid, la malattia è uno spazio politico poco esplorato che andrebbe politicizzato ardentemente, sia per far emergere le contraddizioni del sistema capitalista, sia per rivendicare con ancora più forza l’accesso universale alle cure. Per dirla con Johanna Hedva: «Non avete bisogno di essere aggiustate, mie regine: è il mondo che ha bisogno di essere rifatto».

*pur conscia che tanti uomini trans e tante persone non binarie soffrono di vulvodinia come me, in questo articolo ho scelto di utilizzare il femminile universale e di riferirmi alle donne, in linea con la mia esperienza soggettiva di malattia, grazie alla quale ho riconosciuto con ancora più urgenza la necessità di mettere al centro il mio posizionamento situato. La mia esperienza non ha la pretesa di essere assoluta e sarei felice di metterla in dialogo con quella di altre soggettività.

Martina Carpani, attivista in Non Una di Meno e malata cronica, si occupa di giustizia riproduttiva e salute in ottica femminista e intersezionale

https://jacobinitalia.it/la-vulva-in-fiamme/

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