La campagna per il riconoscimento della vulvodinia mette in discussione i paradigmi biomedici della medicina patriarcale e indica la malattia come un potente terreno di lotta
Nel dibattuto sul ruolo della medicina che ha infuocato i talk show e i
social network negli ultimi anni pandemici, è stata lasciato poco spazio al
punto di vista diretto di chi vive l’esperienza di una malattia cronica e prova
sulla propria pelle i limiti della medicina e le disuguaglianze del Sistema
sanitario nazionale.
Il 23 ottobre dello scorso anno il movimento femminista Non Una Di Meno ha
portato in piazza la campagna «Sensibile-invisibile», nominando per la prima volta nello
spazio pubblico parole tabù e discriminazioni abiliste, di genere e di classe
vissute da chi si confronta giornalmente con vulvodinia, endometriosi e
fibromialgia. Il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, animato dalle
associazioni di pazienti e dal personale medico-sanitario, ha avviato
contestualmente una campagna politica per promuovere il riconoscimento della
vulvodinia nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario
Nazionale, al fine di garantire tutele sanitarie, economiche e lavorative a
tutte le persone che ne soffrono.
Spesso questo tipo di lotte sono declassate a battaglie di retroguardia
poco generalizzabili e poco interessanti, se non per solidarietà – e a tratti
pietismo – verso le donne e le persone amiche che ne soffrono. Invece,
utilizzando la pratica femminista che rende il personale politico e facendo lo
sforzo di eliminare la lente abilista che oscura il nostro sguardo – ossia la
convinzione-norma che tutte le persone siano «sane» e abbiano un corpo abile,
da cui deriva la prassi di considerare «eccezione» e dunque soggetto
discriminabile tutte le persone che non lo sono – è possibile analizzare quanto
sia politica e attuale l’esperienza «sociale» di una malattia
sottodiagnosticata che coinvolge 1 donna o persona con vulva ogni 7 e che
rappresenta un esempio vivo di come mettere a critica la medicina, pur
rivendicando con forza il servizio pubblico.
Cinquant’anni fa, nel pieno dei moti femministi, faceva il giro del mondo
il libro Our Bodies, Ourselves del Boston Women’s Health
Book Collective, scritto dalle donne per le donne, che ha portato
migliaia e migliaia di donne in tutto il mondo a riappropriarsi delle
conoscenze sul proprio corpo e a iniziare una feroce critica alle istituzioni
della medicina patriarcale, grazie a una dialettica virtuosa tra saperi di
natura scientifica ed esperienze delle donne. Scrivono le autrici:
Fu per noi un’esperienza politica fondamentale: scoprire che non
disponevamo di quasi nessun controllo sulla nostra vita e il nostro corpo;
uscire dall’isolamento per imparare l’una dall’altra le cose di cui avevamo
bisogno; sostenerci reciprocamente nel chiedere i cambiamenti che il nostro
nuovo atteggiamento critico indicava come necessari. In quel momento abbiamo
preso coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado
di operare cambiamenti.
Da quel momento a oggi, molto è certamente cambiato, ma sul corpo delle
donne esiste ancora un grande problema culturale, tanto da renderlo
ipersessualizzato e al contempo costantemente negato. L’antropologa femminista
Christine Labuski nel suo It hurts down
there, the bodily imaginaries of female genital pain racconta
che tutte le donne con vulvodinia che hanno varcato la porta dello studio
medico in cui ha svolto la sua ricerca non abbiano mai usato le parole «mi fa
male la vulva». La percezione è che manchino le parole giuste per descrivere il
dolore, non solo nei manuali degli studi medici, ma anche e soprattutto nelle
nostre vite di donne e persone con vulva. È anche questa una delle tantissime
conseguenze negative dell’assenza di un’educazione sessuale e di un’educazione
al corpo che non deleghi solo al personale medico il riconoscimento dei sintomi:
non renderci capaci di capire e percepire il nostro corpo in tutte le sue
manifestazioni, comprese quelle dolorose.
Bruna Orlandi nel suo libro Nonostante, libera. narra la sua storia
di vulvodinia esordendo con queste parole: «Parlerò della vulva per emanciparla
dal falso mito che la ammanta e la vede solo come portatrice di piacere. Come
ogni parte del corpo può far male, ammalarsi ed essere curata, tuttavia è ad
alto indice di sconvenienza sociale manifestarne il dolore».
La vulvodinia è, infatti, una malattia cronica imprevista sia
dal punto di vista medico che dal punto di vista sociale, definita in
letteratura come dolore vulvare che si protrae per oltre tre mesi. Si presenta con
sintomi di tipo spontaneo o provocati dal contatto, quali bruciore, sensazioni
di spilli, scosse elettriche e lacerazioni, spesso accompagnata da contratture
del pavimento pelvico e da una sofferenza del nervo pudendo.
In medicina è considerata una tra le cosiddette «contested illnesses» che
sfidano il paradigma biomedico positivista. La diagnosi avviene per esclusione
da altre patologie, attraverso il cosiddetto «swab test», grazie al quale,
praticando pressione con un cotton fioc, si verifica la presenza di un dolore
intenso anomalo, riconoscendo la sola esperienza di dolore della persona come
prova inconfutabile dell’esistenza del dolore stesso. Gran parte del personale
medico-sanitario non solo non è formato per diagnosticare questa patologia, ma –
come accade per la fibromialgia – ne mette in discussione la stessa esistenza,
nonostante la larga diffusione e il riconoscimento nella letteratura medica
internazionale, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il racconto portato in piazza e diffuso sui social da tantissime è quello
di anni di totale invalidazione dei sintomi da parte del personale medico. Ciò
è, infatti, diretta conseguenza del paradigma positivista biomedico che non
riconosce il dolore senza causa organica o le sue manifestazioni fuori dallo
«standard» e che, pur di non aprirsi a una crisi epistemologica, scarica
violentemente su di noi i propri limiti sotto forma di colpa individuale,
usando l’espediente della critica ai nostri stili di vita per mettere in
discussione l’esperienza soggettiva del dolore. La lista di «è tutto nella tua
testa», «per le donne è normale soffrire» e «sei stressata ultimamente?» che ci
siamo sentite dire non è un caso, ma conferma che la medicina patriarcale
utilizza una lente sessista per formulare diagnosi e ipotesi mediche, svaluta e
discredita il dolore delle donne, costantemente normalizzato come «castigo di
genere» o «eccesso di fragilità».
In realtà, sebbene la causa della vulvodinia non sia univocamente
determinata, è stato individuato un ventaglio di possibili eventi – o cluster –
di diversa natura che innescano una percezione alterata del dolore, tra i quali
anche quello psicosessuale. Secondo le maggiori ricerche, l’eventuale origine
psicosomatica del dolore, anche quando presente, non giustifica in nessun modo
l’approccio medico che nega la sua esistenza e che costituisce invece una
manifestazione della violenza di genere istituzionale. Anzi, secondo i maggiori
studi, tantissime donne vivono depressione, ansia e altre conseguenze psicologiche
come conseguenza e non come causa della malattia, proprio a causa di anni di
soprusi e dolore non riconosciuto, sia dai medici che dalla società.
La storia clinica di centinaia e centinaia di donne rifiutate dalle
istituzioni sanitarie come «moderne isteriche», dimostra quindi come la
propaganda della «iper-razionalità» medica, esemplificata da alcuni tristemente
noti divulgatori scientisti che si sono distinti anche in questi anni di
pandemia, non sia solo profondamente errata, ma soprattutto facilmente
riutilizzabile a danno dei soggetti marginalizzati, sui cui corpi non esiste
adeguata ricerca medica, in quanto – parafrasando Johanna Hedva ne La teoria della donna malata – non conformi
all’inarrivabile paradigma di salute abile, bianco, non stressato e benestante
costruito dalla nostra cultura.
Secondo Vulvodinia Online, la vulvodinia ha un
ritardo diagnostico medio di quattro anni e mezzo ed è diagnosticata dopo aver
consultato diversi specialisti. In questo limbo, la maggiore fonte di
informazione in merito alla malattia è lo spazio virtuale, unico luogo dove il
dolore viene legittimato e trova un nome. Grazie ai gruppi social e ai siti web
delle associazioni, tantissime scoprono l’esistenza della parola «vulvodinia» e
iniziano la sfilza stressante di visite presso i pochissimi specialisti formati
e consigliati da altre donne, quasi tutti nel settore privato e con un anno di
lista d’attesa. Internet, lo stesso luogo messo alla gogna dall’opinione
pubblica per la diffusione di informazioni sbagliate in ambito medico, risulta
in questo caso uno spazio fondamentale di autodifesa dal gaslighting medico,
poiché rappresenta – nel pieno delle sue ambiguità e dei suoi rischi – l’unico
spazio di conoscenza accessibile per le persone malate tagliate fuori dalla
sanità pubblica e dalle fonti di conoscenza «ufficiali».
Questa esperienza diretta di migliaia di donne rappresenta un forte
squarcio nella narrazione della medicina come divulgabile solo «dagli addetti
ai lavori» che non va affatto in una direzione «antiscientifica». Rivendicare
la medicina come scienza non esatta e non neutra, le conoscenze sulla salute
come saperi collettivi e non elitari, l’esperienza dei nostri corpi come parte
fondamentale e attiva del processo di costruzione del sapere medico, darsi
occasione di riconoscerci tra pari, ognuna nei sintomi dell’altra, scambiarsi
conoscenze per poter diminuire il rapporto di potere medico-paziente non
significa aprire uno spazio «antiscientifico», ma riaprire un processo virtuoso
che viene dalla tradizione dell’autocoscienza femminista e che considera la
medicina come un sapere necessariamente aperto e fondato sull’integrazione tra
saperi di natura diversa, tra i quali sicuramente l’esperienza del corpo.
Se i consultori fossero ancora il luogo autonomo di produzione di saperi
femministi, di sensibilizzazione pubblica e di raccolta dei bisogni di cura di
donne e persone con vulva per cui sono nati, potrebbero essere il luogo di
confronto dialettico tra le istituzioni mediche e i processi di mutuo aiuto e
produzione di saperi sulla salute elaborati dalle donne e dalle soggettività
dissidenti. Oggi, invece, mancano luoghi, strumenti e processi di apertura del
sapere medico alla società, che integrino le conoscenze scientifiche con le
ricerche antropologiche e sociologiche e con i processi di raccolta dei bisogni
di cura, che orientino le priorità di ricerca in base ai bisogni sociali e a
criteri diversi dal profitto. Sembra assurdo, infatti, che una malattia che
colpisce il 15% della popolazione assegnata femmina alla nascita sia passata
per anni inosservata e sottodiagnosticata, persa nelle carenze della medicina
territoriale e nell’arroganza della medicina specialistica.
A seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le
associazioni di pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria
per accedere all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o
fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli, che
corrispondono a una spesa mensile pari a quasi il 20% dello stipendio netto
medio di una lavoratrice dipendente. La cura è dunque un percorso a ostacoli
particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne
bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime
difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km
dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate,
precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla
cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è
attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.
C’è urgenza che tutto questo cambi, perché, anche se di vulvodinia non si
muore, con la vulvodinia non si vive. In un mondo che fa scandire all’abilismo
i ritmi del lavoro produttivo e riproduttivo, poter ascoltare il dolore del proprio
corpo e il livello del bruciore spontaneo delle proprie vulve è un privilegio
incompatibile con la maggior parte degli impieghi e del carico di lavoro
domestico. L’imprevisto dolore alla vulva non dà diritto alla malattia, né al
riconoscimento di percentuali di disabilità, neppure per chi di noi ha fitte
spontanee lancinanti, anzi, spesso richiede di iniziare un secondo lavoro per
poter sostenere il costo delle cure.
Inoltre, il fatto che la malattia colpisca proprio la vulva, rappresenta
un imprevisto sociale in una società fondata su relazioni
sessuali e romantiche ancora troppo ancorate al modello patriarcale. Per molte
donne cis, specialmente eterosessuali, vivere la vulvodinia significa fare i
conti con lo stigma causato dall’impossibilità di aderire alle norme di genere
della cultura patriarcale dominante, vuol dire sentirsi «donne rotte», «donne
inadeguate», «donne a metà», come raccontano le ricerche sociologiche che
parlano di vulvodinia.
Come cinquant’anni fa, dunque, oggi diverse generazioni di vulvodiniche si
sono accorte di non sapere ancora abbastanza del proprio corpo, di subire
collettivamente ingiustizia e abusi di potere. Elaborando il ruolo di «soggetto
imprevisto», donne con la vulva in fiamme rivendicano la propria esistenza medica
e sociale, la propria espressione erotica e la propria desiderabilità
nonostante la malattia. Grazie alla sorellanza e a esperienze di mutuo aiuto,
gruppi di malate rivendicano l’altalenarsi del proprio stato di salute e del
proprio stato emotivo senza autogiudizio, rifiutando quella «cultura del
dolore» socialmente costruita e rafforzata dai media, che non lascia spazio
alle micro-resistenze quotidiane ma rafforza solo narrazioni pietistiche della
malattia. Soprattutto ancora oggi sperimentano il potere di unire insieme i
corpi malati – con forme e modalità compatibili con lo stato del dolore – nella
lotta, con l’urgenza di pretendere la gratuità delle cure per tutte, formazione
medica obbligatoria sui nostri corpi e un centro pubblico specializzato in dolore
pelvico in ogni Regione, per lanciare un j’accuse alle
istituzioni mediche patriarcali ed alla «cultura dell’essere sani».
Nelle contraddizioni della medicina e della cura istituzionale, in una
pandemia globale la cui gestione appare scaricata sempre più sulle persone che
hanno corpi più esposti alle potenziali conseguenze avverse del long
Covid, la malattia è uno spazio politico poco esplorato che andrebbe
politicizzato ardentemente, sia per far emergere le contraddizioni del sistema
capitalista, sia per rivendicare con ancora più forza l’accesso universale alle
cure. Per dirla con Johanna Hedva: «Non avete bisogno di
essere aggiustate, mie regine: è il mondo che ha bisogno di essere rifatto».
*pur conscia che tanti uomini trans e tante persone non binarie soffrono di
vulvodinia come me, in questo articolo ho scelto di utilizzare il femminile
universale e di riferirmi alle donne, in linea con la mia esperienza soggettiva
di malattia, grazie alla quale ho riconosciuto con ancora più urgenza la
necessità di mettere al centro il mio posizionamento situato. La mia esperienza
non ha la pretesa di essere assoluta e sarei felice di metterla in dialogo con
quella di altre soggettività.
Martina Carpani, attivista in Non Una di Meno e malata cronica, si occupa
di giustizia riproduttiva e salute in ottica femminista e intersezionale
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