Quali animali sono capaci di sensazioni e pensiero? È possibile attribuire simili capacità alle piante? Si può pensare addirittura che tutta la materia dell’universo sia in qualche modo senziente? La consapevolezza della crisi climatica con le sue pesanti implicazioni produce oggi una curvatura della ricerca scientifica. In questo contesto si cerca spesso un nuovo rapporto con le altre specie, tale da correggere l’atteggiamento miope e distruttivo che riduce la natura a risorsa e ornamento, insomma a strumento per gli scopi umani. La ricerca di altri punti di vista sul vivente produce un’intensa ricerca nelle scienze della natura, ma talvolta è condotta allontanandosi dalla prospettiva delle tradizioni occidentali. Così, in etnologia, s’intensifica il dialogo con culture animiste per trovarvi un sapere perduto e, innestandolo nel nostro, un reincantamento del mondo dominato dai meccanismi del capitalismo. In diversi modi siamo invitati a cercare uno sguardo da lontano, a abbandonare i pregiudizi del presente, ad avviare un ripensamento del nostro passato, per trovarvi una visione del futuro. Si sta tornando, insomma, a interrogarsi su alcune domande che hanno segnato la storia della filosofia, della scienza e del mito.
Tommaso Campanella all’inizio del Seicento ne Il
senso delle cose e della magia scrive: “che tutti gli animali sentano,
nessuno dubita. Or che molti abbino memoria si vede, che imparano i cavalli i
salti, le simie i giochi, e l’api si ricordano di tornare a casa loro […] e si
vede che avendo magnato orzo il cavallo, da quello tutti gli orzi conosce, e da
gli odori li cani argomentano qual sia la cosa odorata, e dal moto della selva
discorrono a pensar che qualche belva quivi si muove”. Gli animali sentono,
ricordano, argomentano, pensano, sono astuti.
Gli esempi di queste capacità in diverse specie di
animali – cavalli, falchi, polpi, seppie, ragni – provenivano dalla tradizione
filosofica antica, pitagorica e platonica. Recuperando questi temi Campanella
contesta la definizione aristotelica dell’uomo come l’animale razionale, dotato
di linguaggio e pertanto differente dagli àloga, gli animali non
parlanti e dunque non pensanti. Sostiene invece Campanella che gli animali ci
sembrano “esser senza discorso e favella e giudizio; ma tutti n’anno, chi più
chi meno”. Questa concezione degli esseri viventi comportava una tesi ancora
più generale: l’intero mondo è un “animale mortale”, che sente pur non avendo
gambe, occhi e mani.
La sicurezza con cui Campanella sosteneva queste tesi
celava un problema aperto e controverso. Pochi anni dopo la pubblicazione del
libro di Campanella, il filosofo René Descartes, che stava contribuendo alla
nascita della nuova scienza meccanicistica della natura, sostiene una tesi
radicalmente diversa: soltanto gli uomini pensano, dove “pensare” significa
ragionare ma anche sentire, volere, dubitare, essendone coscienti.
Gli esseri viventi sono macchine molto complesse, i cui comportamenti si possono
spiegare come effetti dei meccanismi meravigliosi dei loro corpi. Il pensiero e
il linguaggio umano, però, sono troppo flessibili per essere spiegati con
meccanismi del sistema nervoso, e implicano la distinzione tra la mente
immateriale e il corpo.
Quali animali sono capaci di sensazioni e pensiero? È
possibile attribuire simili capacità alle piante? Si può pensare addirittura
che tutta la materia dell’universo sia in qualche modo senziente?
Negli ultimi decenni è stato sottolineato innumerevoli
volte – tra filosofi, neuroscienziati e antropologi – il bisogno di superare il
dualismo cartesiano e di ritrovare un’unità perduta tra uomo e natura. Ma
quando si dipinge questa necessità come fosse un’esigenza nuova e
rivoluzionaria si commette un errore di prospettiva. In realtà, da subito in
molti respinsero le tesi di Descartes, con posizioni molto diverse, e la
questione ha attraversato tutto lo sviluppo della filosofia e delle scienze
moderne degli ultimi secoli. Alcuni hanno sostenuto che tutti gli
esseri viventi incluso l’uomo si possono considerare come macchine. Altri, al
contrario, che tutta la materia (finanche gli atomi) è senziente. Molte altre
posizioni alternative sono state lungamente dibattute e sviluppate
parallelamente allo sviluppo delle scienze, in particolare dopo la formulazione
della teoria dell’evoluzione di Darwin. La questione del pensiero dei viventi
dunque non è nuova, ma piuttosto si è caricata di nuova importanza alla luce di
una sensibilità ecologica, etica e politica maturata negli ultimi decenni.
La domanda di fondo, a ogni modo, è ancora aperta: considerando la
totalità delle forme di vita, come stabilire quali di queste siano pensanti, e
in che senso? Non si tratta di una questione puramente teorica. Nel
riconoscimento delle capacità mentali agli altri esseri viventi si intrecciano
speranze e paure. Ci conforta e ci fa gioire sapere che non siamo soli nel
mondo, che la natura sente e comunica. E, d’altra parte, riconoscere che altre
specie di organismi hanno un’esperienza soggettiva simile alla nostra ci
costringe a riconsiderare il modo in cui trattiamo gli altri viventi come beni
di consumo, soprattutto in un’epoca in cui la civiltà umana rivela come non mai
il suo potenziale distruttivo e autodistruttivo.
In tutto questo, la scienza assume un’importanza
ambivalente: è una guida indispensabile per comprendere cellule, piante e
animali, ma ha limiti e incertezze che l’urgenza di elaborare nuove visioni del
mondo e della società mal sopporta. Considerando i risultati violenti ed
alienanti a cui ha portato l’approccio alla natura che domina la nostra
civiltà, si sta ravvivando così oggi il fascino di sapienze indigene e magiche,
e di una metafisica come quella di Campanella, per cui il mondo aveva
senso non soltanto per noi, che lo percepiamo e lo
interpretiamo, ma proprio in quanto è senziente. Già l’antropologo
Claude Lévi-Strauss riconobbe con grande precisione il fascino profondo dei
miti indigeni americani che narravano di “tempi in cui gli uomini e gli animali
non erano ancora distinti”. Ma il razionale rifiuto di una visione puramente
mitologica apriva già allora un problema: come conciliare mito e scienza?
Per iniziare a comprendere i diversi risvolti della
questione è utile confrontare due libri recenti: Come pensano le foreste (2013)
di Eduardo Kohn (recentemente pubblicato in italiano da nottetempo) e Metazoa (2020)
di Peter Godfrey-Smith (appena pubblicato in italiano da Adelphi). Kohn
affronta la questione dal punto di vista dell’antropologo, in base ad anni di
lavoro sul campo, immergendo il lettore nella visione del mondo dei Runa,
popolazione amazzonica che abita nel territorio dell’Ecuador. Per i Runa non
soltanto tutti gli animali pensano, ma la stessa foresta è un essere pensante.
Le guide di Kohn, insieme ai Runa nelle loro interazioni con la foresta e gli
animali, sono pensatori critici dei presupposti della scienza e della
tecnologia occidentali, come Bruno Latour e Donna Haraway, e etnologi come
Eduardo Viveiros de Castro e Philippe Descola, che da alcuni anni hanno
proposto una riconsiderazione dell’animismo e un superamento della dicotomia
tra natura e cultura.
Peter
Godfrey-Smith è un filosofo, i cui strumenti sono quelli della
ricerca biologica ed epistemologica, oltre all’esperienza di prima mano come naturalista
subacqueo. Nel suo libro precedente Altre menti (2016)
immergeva il nostro sguardo nel mondo dei polpi e delle seppie, svelandone la
straordinaria e aliena intelligenza. In Metazoa allarga
l’indagine sull’origine della mente all’intera evoluzione biologica.
Confrontare questi due approcci non sembra facile, ma è opportuno per
orientarci in un dibattito ancora troppo frammentato dai confini disciplinari,
a partire da un’esigenza comune: Kohn e Godfrey-Smith – in quanto esponenti di
vie molto battute dell’antropologia e della scienza – condividono l’esigenza di
orientare la nostra concezione dei viventi in senso non antropocentrico. Su
questo punto cruciale tornerò alla fine della mia analisi.
Il pensiero delle foreste
Kohn dichiara che il suo è “un lavoro filosofico”,
“una speculazione di carattere metafisico”. In apertura dà subito la parola a
Manari Ushigua, portavoce della popolazione indigena Sápara, il quale
invita a “iniziare a pensare in modo nuovo” e avvicinarsi a uno stato di “equilibrio
con il mondo della foresta”, a cui si accede non soltanto pensando, ma anche
camminando e sognando. Kohn gli fa eco rilanciando che la sua è una “congettura
silvestre” e una dottrina “psichedelica” che svela “l’io più grande da cui
nasciamo”; una dottrina che non si fonda solo sul discorso, ma anche
sull’ascolto di suoni, la contemplazione di immagini, i sogni.
Le prime pagine del libro fanno pensare che la
proposta di Kohn sia di riscoprire il pensiero di popolazioni in armonia con la
natura, che l’avanzata della civiltà industriale minaccia di distruggere – per
esempio nel Brasile di oggi –, in linea con operazioni come quella di Bruce
Albert che ha tradotto il pensiero dello sciamano e attivista yanomami Davi
Kopenawa ne La caduta del cielo, o del fotografo Sebastião Salgado
che ha dedicato all’ecosistema e alle voci indigene il progetto Amazõnia.
Si tratta anche di questo. Kohn in effetti parla di
un “intervento politico”, e fa propria la formula di Viveiros De Castro,
secondo cui è tempo di “decolonizzare il pensiero”, cioè di liberarsi di
categorie tipiche della civiltà occidentale, che ha colonizzato il mondo, e del
suo rapporto distruttivo con la natura.
Ma non si tratta solo di questo.
Quando Kohn conclude che “la vita pensa”, che dunque ogni essere vivente è
anche pensante, non sta proponendo senz’altro di accogliere la visione indigena
e farla propria. La sua tesi non è meramente etnografica, “anche se è raggiunta
e esplorata etnograficamente”. La prospettiva di Kohn, riconquistata sul
terreno indigeno, non si presenta infatti come del tutto irriducibile a quella
della sua civiltà d’origine e dei lettori a cui si rivolge. Kohn elabora una
giustificazione della sua tesi sul vivente che fa uso di strumenti teorici
della filosofia e della scienza occidentali, come la nozione di emergentismo.
“Emergenza” è intesa come termine tecnico introdotto nell’epistemologia
britannica alla fine dell’Ottocento. L’idea di base, per restare al campo
biologico, è questa: sebbene gli esseri viventi siano composti di sostanze
fisiche, alcune loro proprietà “emergono” da queste senza essere descrivibili
nei termini della fisica. Si tratta in effetti di un’idea antica (per esempio,
storici come Victor Caston parlano di “emergentismo” a proposito della
filosofia di Aristotele, in cui forme e attributi dei viventi non si riducono
alle loro cause materiali). Ma il materialismo di molti scienziati moderni l’ha
sfidata e pertanto la questione è tornata attuale. Kohn scrive che “siamo parte
di un mondo emergente e condiviso”, la cui fonte è “la foresta vivente”. In
particolare, per Kohn, la fondamentale capacità emergente dei viventi –
condivisa da uomini, animali e piante – consiste nella capacità di comunicare
significati e interpretare segni: “viviamo tutti con e attraverso i segni”.
In Come pensano le foreste Eduardo
Kohn tenta una speculazione di carattere metafisico, una dottrina che non si
fonda solo sul discorso, ma anche sull’ascolto di suoni, la contemplazione di
immagini, i sogni.
Nel riconoscere una semiotica comune ai viventi Kohn
raccoglie l’eredità di antropologi come Terrence Deacon, risalendo per questo
tramite fino a uno dei fondatori della scienza semiotica: Charles Sanders
Peirce. Per Peirce – siamo di nuovo a fine Ottocento – i segni non sono
soltanto “simboli”, come quelli impiegati nella comunicazione umana, ma ci sono
segni naturali come gli “indici”, che rappresentano qualcosa per qualcuno senza
bisogno di un codice linguistico. Per esempio, l’improvvisa caduta di un albero
indica a una scimmia la presenza di qualcuno e induce un comportamento
protettivo. Il fatto di entrare in relazione in un processo semiotico permette
di riconoscere l’esistenza dei “sé”. Riecco – con lo stesso esempio delle
scimmie – la tesi di Campanella sull’intelligenza animale.
Ma Kohn va oltre: tutta la vita è un
processo semiotico, poiché anticipa il futuro in base a segni. Questo non vale
solo per i comportamenti complessi degli animali, che seguono tracce per
cacciare, si mimetizzano per sopravvivere o si mettono in volo al tramonto per
raccogliere frutti o accoppiarsi. Anche le piante entrano in relazione
semiotica, reagendo a segnali fisici e chimici, e in tal senso “sono dei sé”,
“sono animate”. Non solo: la stessa attività simbolica a noi familiare è
radicata in “processi più fondamentali – materiali, energetici e
auto-organizzati da cui [essa] emerge”, per cui Kohn descrive il mondo in cui
viviamo come “un’ecologia di sé disparati ed emergenti”. I nostri discorsi,
insomma, non sono che uno strato particolare di un immenso e universale
processo di comunicazione che caratterizza gli esseri viventi. Ecco il nesso
uomo-natura che il dualismo “recide”, e che la visione amazzonica invece
conserva come intuizione fondamentale.
Così Kohn, per realizzare l’ossimorico progetto di un’“antropologia
oltre l’umano”, chiama in causa un nesso tra biologia e semiotica: la vita è
“un processo segnico”. Questo versante biologico del lavoro di Kohn permette un
passaggio verso un discorso filosofico e scientifico come quello sviluppato da
Godfrey-Smith. Si tratta di un passaggio che, come abbiamo iniziato a vedere,
era percorso già nell’Ottocento, quando la teoria dell’evoluzione diede luogo a
indagini scientifiche e speculazioni filosofiche, in cui si intrecciarono
rigorose procedure di controllo e visioni metafisiche di origine romantica.
Basti pensare a Gustav Fechner, fondatore della psicofisica, o a Ernst Haeckel,
che ispirandosi a Darwin coniò il termine “ecologia”: i due condivisero il
panpsichismo, la tesi secondo cui ogni parte della materia è dotata di mente,
considerandola la sola spiegazione delle facoltà mentali dei viventi.
I filosofi pragmatisti americani come Peirce
parteciparono a queste discussioni, con risultati contrastanti, che è utile
ricordare dato che proprio Peirce costituisce il principale riferimento
filosofico di Kohn. Peirce infatti non esitò a proporre una visione
avventurosamente metafisica dell’evoluzione biologica, sostenendo nel saggio
“Evolutionary Love” (1893) che la materia cosmica nel suo stato caotico
originario fosse fatta di pura mente, libera e vivente, che solo gradualmente
si consoliderebbe in strutture fisiche sempre più rigide e regolari, tendendo
verso uno stato dell’universo sempre più rigido e strutturato. Si trattava di
una concezione controversa, che gli altri pragmatisti non accettarono. Ma la
tendenza a rompere le barriere tradizionali tra mente e natura in nome
dell’attività viventi si trovava anche in un altro importante pragmatista,
William James. Nell’articolo “Are We Automata?” (1879), James propose
l’idea che tutti gli esseri viventi – dalle formiche ai poeti – vivono in
diversi “mondi”:
Altre menti, altri mondi che si formano a partire
dallo stesso caos. Il mondo di Goethe non è che uno di questi, tutti
altrettanto reali per coloro che sanno distinguerli. Altri mondi come questi
potrebbero esistere nella coscienza di formiche, granchi e seppie.
Ma se gli altri viventi hanno coscienza diversa dalla
nostra, con che pregnanza possiamo usare le parole “pensiero”,
“rappresentazione”, “sensazione” per descriverne la vita?
L’origine delle menti
Ritroviamo William James in epigrafe a uno dei
capitoli di Metazoa, dedicato a granchi e gamberi:
Probabilmente un granchio si sentirebbe oltraggiato
personalmente se potesse sentirci classificarlo senza difficoltà o scuse come
un crostaceo, sbarazzandoci di lui in questo modo. «Io non sono quella cosa
lì», direbbe, «io sono ME STESSO, ME STESSO soltanto».
In questa provocatoria presa di parola, Godfrey-Smith
trova la rivendicazione di un “punto di vista” soggettivo degli animali, che
caratterizza la sua ambiziosa ricerca. La sua intenzione è ripercorrere tutta
la ramificazione delle specie per trovarvi l’evoluzione della mente. La
prospettiva è quella di un materialismo biologico di impronta evoluzionistica,
radicalmente opposto al dualismo di mente e corpo, per cui non si tratta
nemmeno di spiegare come la mente emerga dal corpo, poiché – per prendere il
caso di un animale come l’uomo – i processi nervosi “sono menti”.
Si tratta piuttosto di capire a quali specie di organismi sia plausibile
attribuire facoltà mentali, a seconda della conformazione dei loro corpi.
Questo progetto pone almeno due problemi. Il primo è
un problema empirico: trovare prove convincenti del fatto che un determinata
specie di vivente abbia un’attività mentale. Su questo punto Godfrey-Smith ha
un atteggiamento metodologicamente cauto, e si resterebbe delusi se – ingannati
da un’immagine illusoria della scienza come fonte di assolute certezze –
in Metazoa si cercassero solo risposte nette e definitive. Il
secondo problema, strettamente legato al primo, è concettuale: posto che la
conformazione fisica e il comportamento giustifichino la tesi che diverse
forme di vita abbiano diverse specie di mente, si tratta di definire i concetti
adeguati a descriverne l’attività mentale. Per esempio, una cosa è il semplice
“sentire”, un’altra la valutazione di rischi e benefici dell’ambiente per
orientare l’azione, altro ancora è la “coscienza” come rappresentazione
unitaria di un mondo. Ma anche queste categorie sono troppo grandi: il
“sentire” può avere gradi e forme diverse, dagli organismi unicellulari che
percepiscono ostacoli e nutrimento, ai polpi con i loro tentacoli ricoperti di
neuroni, capaci di “vedere” e esplorare i dintorni, e così via. Pertanto,
come scriveva già in Altre menti, chiedersi se i batteri
sentono o se le api ricordano “non sono domande che hanno risposte secche, del
tipo: sì o no”.
Si tratta di una posizione che fa i conti con un
dibattito oggi molto vivo. Una parte ristretta della comunità scientifica
attribuisce capacità mentali a tutti i viventi – una tesi che il già citato
scienziato Ernst Haeckel chiamò “biopsichismo”. Il caso delle piante è
particolarmente dibattuto: botanici come Anthony Trewawas e Stefano Mancuso
sostengono che le piante sono senzienti e intelligenti, basandosi sullo studio
di fatti come la trasmissione di sostanze chimiche che innesca reazioni in
altri organismi, anche di altre specie, e che svolge cruciali funzioni per la
vita e la sopravvivenza delle piante. Si tratta di un processo che si presenta
in modo particolarmente complesso, affascinante, e ancora parzialmente
inesplorato, nella ramificazione delle radici. Questi fatti sono interpretati
da questi scienziati come prove di processi di percezione, valutazione delle
circostanze e comunicazione, che richiederebbero una profonda riconsiderazione
delle piante rispetto a una visione tradizionale che ne fa esseri incapaci di
sensazione, movimento e intelligenza.
Una ristretta parte della comunità filosofica sostiene
oggi addirittura il panpsichismo: non solo animali e piante, ma ogni parte di
materia avrebbe in sé qualcosa di mentale. Ma d’altra parte, esistono
sostenitori di tesi molto più restrittive sull’attribuzione di facoltà mentali,
in cui la stessa capacità di sentire di molte specie animali è messa in dubbio
(e oltre a percezione e coscienza, c’è un dibattito analogo per quanto riguarda
le emozioni). Godfrey-Smith si posiziona in questo quadro partendo da una
certezza sulle capacità sensoriali dei viventi:
Tutte le forme di vita cellulari conosciute, compresi
i minuscoli batteri, hanno una qualche sensibilità nei confronti del mondo
esterno e rispondono ad esso. La sensibilità, almeno nelle sue forme
elementari, è antica e ubiquitaria.
Si tratta di una affermazione che fonda la sua
validità generale sul fatto che le correnti elettriche negli organismi possono
fungere da “segnali” che collegano l’organismo stesso con l’ambiente. Ma è
anche un’affermazione generica: “una qualche sensibilità”, ma quale? Prima di
tutto, per discriminare i diversi casi, Godfrey-Smith elabora una teoria di
origine pragmatista, già riproposta alcuni anni fa da Susan Hurley: percepire
non è mai separabile dall’agire. Ciò che gli esseri viventi percepiscono
orienta ciò che fanno, e il modo in cui si muovono per agire modifica quel che
percepiscono. Da questo punto di vista, organi sensoriali e organi di movimento
sembrano essersi evoluti congiuntamente per raggiungere comuni scopi. Non si
può definire la percezione senza considerare come sono fatti e cosa fanno i
corpi.
È questa una delle ragioni per cui Godfrey-Smith ha
dubbi sull’attribuzione di sensibilità delle piante. Come sostiene in Metazoa,
l’azione di un organismo si sviluppa come movimento coordinato dell’intero
organismo, e questa sarebbe l’origine del senso di un “sé” come prospettiva
individuale sul mondo. Ma le piante, a differenza degli animali, hanno una
struttura modulare, in cui le parti sono spesso separabili senza danno per
l’organismo, per cui anche la percezione e i movimenti sembrano altrettanto
separabili, rendendo meno plausibile l’ipotesi che una pianta abbia un “sé”.
Inoltre, per quanto riguarda l’analogia posta in botanica tra sistema neurale e
ramificazioni interne ai tessuti delle piante, in un recente articolo
Godfrey-Smith sottolinea una distinzione tra i diversi “modi di interazione tra
cellule”, opponendo “influssi rapidi, e diretti verso un bersaglio” dei neuroni
a “schemi più diffusi di influsso che risultano nel rilascio e nell’assunzione
di sostanze chimiche senza un’organizzazione
per proiezioni e sinapsi”.
Insomma, per Godfrey-Smith le piante, benché capaci di
percepire e interagire con l’ambiente, sembrano aver preso un cammino evolutivo
radicalmente diverso. Gli alberi, per esempio, hanno una ricchissima capacità
di percepire l’ambiente e interagire con altri organismi, ma dobbiamo
rinunciare all’idea affascinante e toccante che un albero che per secoli domina
una radura che ci capita di visitare sia un sé. Eppure anche qui la prudenza
scientifica prevale: la ricerca in corso potrebbe cambiare le cose, per cui –
ammette Godfrey-Smith – “non sono affatto certo dall’assenza di esperienza”
nelle piante.
In ogni caso, per Godfrey-Smith, l’evoluzione
biologica di corpi dalla conformazione diversissima rende inappropriato parlare
dell’emergere della mente al singolare. Bisogna invece
adottare una prospettiva gradualista, per cui non ha senso stabilire quando
emerga la mente e occorre individuare di caso in caso diversi concetti per le
varie forme di vita mentale. Metazoa è un catalogo di storie
naturali, esperimenti e incontri ravvicinati, che di caso in caso rispondono
diversamente alla domanda sulla mente animale. Il comportamento degli animali,
da questo punto di vista, indica delle cesure evolutive. Se spugne e coralli
dilatano e orientano il corpo in modo da catturare il nutrimento, una forma
molto più complessa di azione e percezione inizia quando animali a struttura
bilaterale iniziano a spostarsi per l’ambiente. Un gambero si orienta
muovendosi nell’ambiente, perciò non si limita a reagire meccanicamente a segnali,
ma forma “immagini” delle cose che si muovono intorno a sé e le distingue dal
proprio corpo (per esempio quando un’antenna si impiglia in uno scoglio).
Godfrey-Smith racconta di essersi visto osservare da un gambero durante
un’immersione subacquea. In casi come questi, commenta, è plausibile parlare di
un senso della “presenza” di sé dell’animale, associato a un “senso del
possesso del proprio corpo”. L’evoluzione dei corpi a struttura bilaterale
porta successivamente ai rapidissimi movimenti dei pesci, dei polpi e dei
pipistrelli, con i loro diversi sistemi percettivi (“visione” cutanea, radar,
percezione di campi elettrici).
Un tema ricorrente è poi la capacità di provare
dolore. Comportamenti come quello dei granchi eremiti, che si prendono cura dei
propri arti feriti invece di procedere impassibili, o dei pesci che nuotano
verso vasche in cui è disciolto un antidolorifico non lasciano spazio a dubbi:
qui c’è dolore. Ci sono casi incerti e bizzarri come quelli delle api, straordinariamente
intelligenti nel leggere i segnali dell’ambiente ma apparentemente insensibili,
benché capaci di sviluppare “umori” alti o bassi che si esprimono nel
comportamento più o meno dinamico. E ci sono apparenti paradossi, per cui pesci
straordinariamente abili di percepire e agire come gli squali non sembrano
provare dolore.
Lungo tutto questo percorso è continuo il confronto
con gli esseri umani, che è anche inevitabile poiché noi osservatori siamo
anche quelli che definiscono le categorie di cui stiamo parlando.
Un’indicazione metodologica decisiva, a questo proposito, consiste nell’evitare
di proiettare la nostra mente cosciente, che rappresenta il mondo in un unico campo
esperienziale aperto all’esistenza passata e futura, su quella di animali pur dotati
di sensibilità e intelligenza, in cui questa connessione unitaria manca. La
connessione anatomica e funzionale tra gli emisferi cerebrali, tipica degli
uomini, esiste solo nei mammiferi placentali. Le specie in cui questo tipo di
connessione manca sono quindi innumerevoli. Gli uccelli hanno scarsissime
connessioni tra gli emisferi, perciò percepiscono e apprendono separatamente
dai due lati del proprio campo visivo. Un caso di notevole complessità è il
polpo, che ha un sistema nervoso distribuito per cui, ragiona Godfrey-Smith,
potrebbe avere una mente che a tratti si scinde fino a otto unità distinte,
quando i tentacoli esplorano e agiscono per conto proprio, e a tratti si
ricompone, come quando l’animale schizza via da un pericolo.
Si tratta di realtà aliene, ma non inconcepibili, che
Godfrey-Smith confronta al caso umano ragionando sui pazienti “split-brain”,
individui che hanno subito operazioni chirurgiche di separazione degli emisferi
cerebrali. In base a osservazioni e esperimenti (anch’essi molto dibattuti),
queste persone sembrano vivere condizioni di dissociazione e parziale
coordinamento simili a quelle normali in altre specie, per cui si ipotizza che
abbiano due coscienze almeno parzialmente distinte che a tratti si
ricongiungono per via dell’operazione di controllare uno stesso corpo. In
conclusione, la “varietà di soggettività” esiste anche nel campo umano, mentre
tantissimi aspetti della nostra mente ci accomunano alle specie che si sono
separate da noi nel processo evolutivo. E se una certa forma di coscienza e di
controllo operativo delle azioni ci distingue, gran parte delle cose che
facciamo sono fuori dalla coscienza e dal controllo, dall’esplorazione tattile
al fantasticare, e infine al sogno, che condividiamo perfino con le seppie. Sta
a noi orientarci in questo intreccio di somiglianze e differenze.
Tra animismo e scienza: verso una prospettiva comune
Come tenere insieme le due prospettive tratteggiate da Kohn e
Godfrey-Smith, e in generale quelle dell’antropologia e della filosofia della
scienza che questi due autori rappresentano? I punti di convergenza sono molti.
Il rifiuto dell’assoluta differenza ontologica umana; il riconoscimento che la
vita è relazione e che il pensiero è una funzione della vita; il progetto di un
riequilibrio ecologico a partire dal riconoscimento della dignità di tutti i
viventi (il libro di Godfrey-Smith è dedicato a “tutti coloro che hanno perso
la vita negli incendi della boscaglia australiana tra il 2019 e il 2020 e alle
persone che hanno combattuto contro il fuoco”, quindi – tra gli altri – ad
eucalipti, koala e umani).
Un simile equilibrio si trova realizzato nelle civiltà
amerindiane, e gli antropologi occidentali – da Claude Lévi-Strauss e Gerardo
Reichel-Dolmatoff fino a Viveiros De Castro, Descola, Kohn, e David
Graeber – hanno più volte riconosciuto il valore anche
politico di quelle visioni del mondo, restituendo a civiltà a lungo ritenute
primitive, “selvagge” e “dominate da “mentalità prelogica”, una pari dignità
sul piano dell’elaborazione intellettuale e dell’organizzazione sociale.
Anche se l’insostenibilità ecologica della civiltà
occidentale è drammaticamente evidente, rivalutare la prospettiva amerindiana
richiede delle accortezze.
Ma il tentativo di integrare la conoscenza etnografica
con quella filosofico-scientifica richiede alcune considerazioni. La prima
riguarda l’aspetto politico della questione. Come abbiamo visto, si insiste
spesso sul valore di “decolonizzazione” della riscoperta del pensiero
amerindiano. Si tratta in effetti di una doverosa correzione dello sguardo dopo
secoli di svalutazione e sfruttamento dagli esiti globalmente distruttivi.
Tuttavia, anche se l’insostenibilità ecologica della civiltà occidentale è
drammaticamente evidente, rivalutare la prospettiva amerindiana richiede delle
precisazioni e invita a una rielaborazione comune.
L’animismo porta la religione tradizionale a sostegno
della lotta indigena. I capi delle diverse comunità amazzoniche invocano gli
spiriti della foresta contro la scellerata invasione dei cercatori d’oro
recentemente spalleggiati da Bolsonaro. In questi termini, però, si configura
un conflitto tra religioni: un personaggio politico come Bolsonaro, si fa
portavoce di una visione del Brasile come nazione dalle radici
“giudaico-cristiane”, che trova sostegno tra i gruppi evangelici, così come
fanno altri leader che difendono il diritto indiscriminato allo sfruttamento
capitalistico delle risorse. Questo mostra che il reincantamento del mondo, se
incondizionato, di per sé non basta a risolvere i conflitti globali, poiché
quello che uno vede (la foresta vivente) può essere visto in modo radicalmente
diverso da un altro (la terra come dono di Dio da sfruttare).
Un simile intreccio tra religione e politica ha
dominato la storia coloniale. Carlo Ginzburg, in un saggio ripubblicato nel suo
ultimo libro La lettera uccide, ha ricordato in proposito la figura
di Jean-Pierre Purry. Calvinista olandese, nel Settecento elaborò diversi
progetti di colonizzazione sostenendo che la Bibbia aveva creato tutti uguali e
dotati di pari diritto sulla Terra, per cui il possesso transitorio di un
territorio non costituiva un diritto degli indigeni su territori da lungo tempo
abitati. Al contrario, l’intraprendenza economica degli europei, nel bene di
tutti, avrebbe pienamente giustificato l’invasione e la sottomissione dei
“pigri” abitanti del luogo. Si trattava di argomenti ricavati da una lettura
tendenziosa della Bibbia, probabilmente guidata dagli argomenti di Locke sulla
giustificazione del diritto di proprietà con il lavoro, un complesso ideologico
che mostrava come le idee moderne sui diritti umani non giocano necessariamente
a favore alla causa ecologica, e possono fondersi a credenze religiose e
interessi economici che vanno in direzione opposta.
Non voglio sottovalutare le potenzialità del conflitto
tra visioni religiose che si intravede in questo intreccio ideologico. Del
resto anche Kohn sottolinea che il messaggio delle civiltà amerindie non è
trasmesso solo con discorsi e argomenti logici e
scientifici, ma con camminate silenziose nella foresta, immagini, suoni,
sogni e altre esperienze capaci di toccarci profondamente e conferire un senso
di sacralità alla natura. È un particolare decisivo, che in questo confronto
vorrei tenere in evidenza. Se il capitalismo è a modo suo una religione (come
aveva intuito Walter Benjamin), è possibile che
la potenza di una nuova diffusa religione della natura in futuro possa
suscitare una risposta alla crisi climatica e al sistema che l’ha prodotta,
quella reazione di massa che i freddi dati scientifici non riescono a
provocare. Ma si tratta di una congettura: nelle società occidentali prevale
ancora una considerazione estetica ed etica della natura selvaggia che non è
più (o non ancora) religiosa; di fatto quel conflitto di visioni è per ora soprattutto
interno al conflitto tra indigeni e governi, in cui è urgente prendere
posizione.
Per uscire dalle contrapposizioni ideologiche e
religiose, i dati empirici sull’impatto ambientale della distruzione della
foresta sembrano indispensabili, poiché permettono di fornire elementi
oggettivi in base a cui formarsi un giudizio. Del resto, pensare alle comunità
indigene come portatrici di una visione della natura alternativa, del tutto
incontaminata e priva di dialettica con la modernità occidentale, sarebbe
anacronistico, e in fondo significherebbe conservare il pregiudizio d’età
coloniale sulle culture primitive come “reliquie”, pur rovesciandolo di segno.
Oggi quelle comunità usano vestiti, cellulari, pannelli solari, barche a
motore. Gestiscono ecolodge per trarre benefici da un turismo sostenibile e non
monopolizzato da proprietari esterni. Organizzano cause legali contro chi ha
inquinato e distrutto illegalmente il loro territorio.
Questa realtà tutta contemporanea fa da sottotesto ai
rapporti roventi tra il governo brasiliano e le comunità indigene. Quando la
pandemia di COVID ha colpito il Brasile il presidente ha deciso di non fermare
l’attività produttiva del paese invece che proteggere la popolazione e
garantire l’assistenza medica alle aree più isolate. Nella regione amazzonica
c’è stata una strage. Oggi Bolsonaro è stato accusato di omicidio
di massa e crimini contro l’umanità. Tutto questo
avviene su un piano di realtà che non si può descrivere al di fuori di
prospettive mediche, politiche ed economiche di origine occidentale, che
infatti i capi indigeni adottano per denunciare il tentativo di
genocidio.
In questo senso, tornando sulle implicazioni della
colonizzazione, Ginzburg ha sottolineato l’ambivalenza delle discipline
umanistiche di origine occidentale: si tratta di principi e metodi validi
universalmente per risolvere controversie e accertare la verità dei fatti,
benché si siano diffusi anche mediante le stragi. Lo stesso si può dire delle
scienze, dall’antropologia alla biologia, dalla medicina all’ecologia. Di
questa dialettica di prospettive ha preso atto con intelligenza lo stesso Davi
Kopenawa, impegnandosi a gettare le basi di un dialogo interculturale, per cui
la sapienza tradizionale risuona nella consapevolezza ecologica, e viceversa.
In questo senso, nella Prefazione all’edizione italiana del libro di Kohn, il
filosofo Emanuele Coccia ha proposto di collegare la visione indigena delle piante
alle recenti scoperte della botanica. Le due parti possono uscire rafforzate da
questo dialogo.
Ma si apre qui una seconda questione, stavolta tutta
teorica, che riguarda la compresenza di visione magica e scienza. Si tratta di
un tema enorme e urgente, di cui qui non posso occuparmi a fondo. Mi limiterò a
un punto-chiave, partendo dalla proposta di Descola e altri antropologi di
contestare la validità della distinzione occidentale tra natura e cultura alla
luce dell’animismo. In un libro già classico come Oltre natura e
cultura (2005), Descola prende spunto dal fatto che diverse civiltà
amerindiane (e non solo) concepiscono anche i rapporti con l’ambiente e gli
animali in termini sociali. Gli animali “sono pensati per la maggior parte come
persone dotate di anima”, e “l’intero cosmo [è] animato da un medesimo regime
culturale”, ovvero: le stesse relazioni e gerarchie che si trovano nel mondo
umano si ritrovano, sotto forme fisicamente diverse, anche tra animali e
piante. Come abbiamo visto, questo tipo di posizione è richiamata oggi per
rovesciare un pregiudizio antropocentrico della scienza nata nell’Europa
moderna, e per recuperare un rapporto simmetrico con quella parte del mondo
vivente che questa scienza ha alienato rispetto all’uomo.
La critica all’antropocentrismo in ogni sua forma
costituisce un possibile punto di partenza per ricostituire, uno sguardo di
autentico rispetto – e amore – per la natura.
Ma di fronte a questa proposta bisogna fare i conti
con un fatto: l’animismo ha anch’esso un marcato tratto antropocentrico.
Quando Descola descrive come gli amerindiani attribuiscono agli animali una
“interiorità identica alla propria” e strutture sociali analoghe a quelle
umane, si tratta di una proiezione dell’ordine umano su quello animale. Lo stesso
vale per i Runa di cui racconta Kohn. E del resto, come ricordava Lévi-Strauss,
un comune mito di queste civiltà sostiene che tutti gli animali originariamente
fossero uomini e che lo siano ancora sotto altre vesti. Certo, l’intenzione
sottesa a questi miti consiste nel riconoscimento della pari dignità degli
altri esseri, e della diversa percezione della realtà che essi hanno per via
della conformazione dei loro corpi. Io stesso ho visitato le case nella foresta
nei pressi del Rio Napo in Ecuador, e ho sperimentato la familiarità che nelle
palafitte unisce uomini, pappagalli, scimmie ragno, tarantole e altri animali,
che condividono uno stesso ambiente domestico. Ma non è un particolare
irrilevante che quel riconoscimento di familiarità avvenga, secondo la
ricostruzione etnologica dell’animismo, mediante una certa assimilazione
all’umano.
Tornando alla nostra tradizione culturale, un simile
antropomorfismo era anche tipico di filosofi come Campanella, per i quali
l’intelligenza degli animali era un dono del Creatore, un dio personale che ama
le proprie creature dotandole di facoltà simili alle proprie. E poi, come
abbiamo ricordato, un certo antropocentrismo è inevitabile anche in etologia e
in filosofia della mente, quando si cerca di comprendere la mente degli altri
esseri a partire dall’unica specie di mente di cui abbiamo esperienza diretta.
In Europa pochi pensatori moderni si contrapposero nettamente
all’antropocentrismo. Tra questi ci fu Baruch Spinoza, il quale pure sottolineò
che la diversa conformazione fisica degli animali doveva modificare
profondamente le rispettive capacità mentali, ma puntualizzando che la
proiezione di valori etici, scopi e gerarchie umane sulla natura era priva di
fondamento, un segno dei limiti della cognizione umana. Tra le concezioni che
portavano Spinoza a questa conclusione vi era anche la diffusione della scienza
meccanicistica, che egli riteneva pienamente adeguata a descrivere quelle
proprietà dei corpi che, considerate da un altro punto di vista, chiamiamo
mentali.
Quest’ultimo punto ci ricorda che anche il percorso
della filosofia europea è prezioso per la messa in questione
dell’antropocentrismo. La filosofia antica d’origine greca, e poi la sua
rielaborazione nel Rinascimento, si caratterizzano per la ricerca di
principi propri della natura, distinti dalla cornice valoriale
e soprannaturale della religione, e dunque dalla prospettiva umana. Da
Copernico a Darwin, la moderna scienza europea ha promosso precisamente un
progressivo decentramento cosmico, del pianeta Terra prima e di Homo
sapiens poi. Naturalmente non si tratta di un processo lineare e
irreversibile, ma questa direzione anti-finalista e non-antropocentrica della
scienza sembra poter costituire un ottimo punto di partenza per riallacciare un
dialogo con le culture animiste moderne, in cui rientrino le nostre conoscenze
scientifiche di ambiente, piante, animali – e menti.
In questo senso, considerare come una mera
particolarità del nostro sguardo la distinzione tra cultura e natura (dove per
natura s’intenda la realtà oggettiva dell’ambiente, in quanto dotata di una
intrinseca regolarità, ed estranea a scopi e valori umani) non mi sembra
produttivo. Della visione animista possiamo condividere la capacità di
riconoscerci in relazione ecologica e affettiva con le altre forme viventi, di
accettarne la pari dignità, senza prendere alla lettera la considerazione della
natura come un’altra società simile a quella umana. La considerazione della
rete di segni naturali e prelinguistici che esistono nell’ambiente e negli
organismi, indicata da Kohn, sembra in tal senso una via più promettente per
riconnettere società e natura.
A mio parere, la critica all’antropocentrismo in ogni
sua forma, che ci aiuti a guardarci dal suo abuso, costituisce anche un
possibile punto di partenza per ricostituire, insieme ad altre tradizioni
mitologiche con i loro saperi empirici, uno sguardo di autentico rispetto – e
amore – per la natura. Faccio un esempio. Godfrey-Smith riferisce di aver più
volte avvistato, nei pressi di una spiaggia australiana, un certo delfino che
si avvicinava sempre e solo a un certo individuo dai capelli rossi. Si era
forse innamorato (o innamorata) di lui? L’episodio richiama immediatamente alla
mente la storia di Ondina (o la Sirenetta), uno dei miti letterari moderni più
potenti del romanticismo europeo, il cui tema è proprio l’unione di umanità e
natura. Tuttavia, mettere l’espressione “amore” tra parentesi, lasciare un
margine di incertezza su ciò che il delfino sente e vuole, non è forse questo
un atteggiamento più amorevole che farne un alter ego dell’uomo che vuole
credersi amato?
Dale Jamieson, uno dei migliori filosofi dell’ecologia contemporanei,
ha fatto in proposito un’osservazione penetrante nell’Appendice al libro di
racconti Amore e antropocene, che ha scritto insieme alla
scrittrice Bonnie Nadzam. Per Jamieson e Nadzam amare significa provare a
conoscere la realtà dell’altro e uscire dalla tendenza narcisistica per cui “ci
specchiamo negli altri, ma troppo spesso vediamo solo noi stessi”. Questo vale
anche “per le montagne, i deserti, la natura stessa” oltre che per “per le
persone e gli animali con cui condividiamo la Terra. Conoscerli significa
amarli.” Il compito che ci aspetta nell’Antropocene è quindi “togliere di mezzo
il caro sé quel tanto che basta per riuscire a vedere veramente le cose e
arrivare a conoscere – nella vita relazionale – il mondo delle altre
persone, delle piante, degli animali, dei mari e dei fiumi che ci circondano”.
In questo senso, etnologia, scienza e filosofia possono convergere nella
convinzione che legame affettivo e conoscenza degli altri esseri viventi sono
inseparabili dal riconoscimento della loro radicale alterità.
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