(Prefazione a «Stato dell’impunità nel
mondo», il rapporto annuale sui «diritti globali»)
1. Il pianeta che brucia
Il disastro ambientale è davvero ormai sotto gli occhi di tutti: di chi drammaticamente e in prima persona ha la propria vita o l’abitazione messe a rischio o addirittura distrutte, ma anche della maggioranza della popolazione che vede le immagini della catastrofe al telegiornale, sotto forma di incendi indomabili, di alluvioni e di frane altrettanto devastanti. Situazioni sempre più frequenti negli ultimi anni, ampiamente previste dagli scienziati, regolarmente ignorate dai decisori politici, prontamente scordate da chi non le ha vissute direttamente su di sé. È rimasta latitante ogni seria politica di prevenzione, manutenzione e gestione oculata del territorio. È stata ricorrente – anno dopo anno, incendio dopo incendio – la constatazione dell’insufficiente dotazione di aerei Canadair per spegnere i roghi, regolarmente dimenticata il giorno dopo dell’emergenza. Si tratta di catastrofi sempre meno definibili “naturali”.
Così, di omissione in omissione a
livello locale e a livello globale, si è arrivati all’estate 2021, con il mese
di luglio più caldo di sempre, in un’escalation che dura ormai da tempo: dicono
i meteorologi che l’ultima volta che il globo ha avuto un luglio più fresco
della media del XX secolo è stato nel 1976 e che quello del 2021 è stato il
mese più caldo in 142 anni di registrazione (Borenstein, 2021). Ma già il 2020,
documenta la World Meteorological Organization, era stato uno dei tre anni più
caldi mai registrati, con una temperatura media globale di circa 1,2 °C al di
sopra del livello preindustriale. Circostanza che è andata a cumularsi alla
pandemia da Covid-19 in corso, con i relativi effetti moltiplicati sulla salute
e, per una parte del mondo, sull’insicurezza alimentare. La pandemia ha,
inoltre, complicato gli sforzi di riduzione del rischio di catastrofi (WMO,
2021).
Per quanto del tutto prevedibile e
previsto, ancorché irresponsabilmente ignorato, il disastro è arrivato inesorabile,
con un quotidiano bollettino di guerra estivo: inondazioni in Germania;
piogge torrenziali nella regione cinese dell’Hubei; alluvioni in Turchia;
terremoto ad Haiti; immani roghi in Grecia e Cipro; sud dell’Italia in fiamme e
tromba d’aria a Pantelleria con morti e feriti; inondazioni nel nord-est della
Spagna, con gravi danni e stagione turistica compromessa, e poi incendi con
migliaia di evacuati; alluvioni nel sud-est dell’Inghilterra con stato di
calamità in ospedali londinesi; incendi in Cabilia e nelle altre regioni del
nord dell’Algeria; il Dixie Fire, il
secondo maggiore incendio nella storia dello Stato, che ha incenerito oltre
200.000 ettari in California; l’uragano Ida nel
nord-est degli Stati Uniti con almeno 46 morti e New York allagata; inondazioni
e fiumi esondati in India, con interi villaggi sommersi dall’acqua; alluvioni e
fiumi straripati in Giappone con morti, dispersi e cinque milioni di sfollati;
un’area di quasi seimila chilometri quadrati interessata da roghi in Canada.
Sino all’incendio più grande,
nella Siberia nord-orientale, con una linea del fuoco
lunga duemila chilometri, che potrebbe risultare il maggiore della storia. E il
più devastante: non solo per la perdita di 13 milioni e mezzo di ettari
bruciati registrati ad agosto 2021 a livello nazionale, ma per la produzione di
un record di 505 megatoni di anidride carbonica, ad aggravare la già drammatica
situazione del riscaldamento globale che non a caso vede nell’Artico
temperature medie che stanno aumentando oltre tre volte più velocemente del
resto del mondo (The Moscow Times, 2021).
Migliaia i morti (2.200 solo ad Haiti,
nell’agosto 2021 martoriata da un terremoto di magnitudo 7,2 e
contemporaneamente da una tempesta tropicale dal nome ferocemente
beffardo, Grace), decine di migliaia i
feriti, centinaia di migliaia i senza casa, milioni gli sfollati; sono le prime
cifre delle catastrofi dell’estate 2021. Bilanci provvisori che quasi sempre
dimenticano di citare le centinaia di milioni di animali, selvatici e
domestici, uccisi dai disastri, a loro volta indice di una tragedia che non si
esaurisce nella contingenza dell’emergenza ma si ripercuoterà nella distruzione
degli habitat, condizionando il futuro. E c’è stato anche chi in Italia,
nonostante le distruzioni degli incendi con almeno venti milioni di animali
morti, ha disposto l’inizio anticipato della stagione venatoria. A
dimostrazione che alla pulsione ecocida talvolta non esiste davvero limite. Un
campo nel quale, per la verità, anche nel 2021 è apparsa ineguagliata la
politica del presidente del Brasile, dove al sostegno del sistema
dell’agribusiness e delle attività estrattive, alla devastazione amazzonica e
di millenari ecosistemi si accompagnano la repressione delle comunità indigene,
le violenze e gli omicidi contro i difensori dei diritti umani e dell’ambiente.
2. Ecocidio ed etnocidio nel Brasile di
Bolsonaro
«L’ecocidio da cui derivano i
megaincendi è anche un etnocidio. Distruggere la foresta,
compartimentalizzarla, privatizzarla, sfruttarla o disboscarla su aree immense
a beneficio dell’estrazione mineraria, degli allevamenti, delle coltivazioni di
soia transgenica o di palma da olio, significa, allo stesso tempo e con
altrettanta violenza, distruggere culturalmente i popoli che la abitano» (Zask,
2021). Con Bolsonaro, presidente dal gennaio 2019, la distruzione della
foresta amazzonica, il principale polmone verde del globo, si è fortemente
intensificata. Nonostante ciò, gli appetiti della lobby Bancada ruralista non sono ancora soddisfatti: a
maggio 2021 una forte mobilitazione popolare e dell’opposizione parlamentare è
riuscita a bloccare, almeno temporaneamente, l’ennesimo tentativo di fare
passare un disegno di legge (n. 490/2007) sul “Marco Temporal” che vuole
introdurre limiti temporali alla demarcazione delle terre dei popoli indigeni,
modificando i diritti acquisiti e sanciti a livello costituzionale, in base ai
quali vi sono terre loro riservate – complessivamente 440.000 ettari con una
popolazione di 70.000 persone. Ma sono circa 900.000 gli indigeni che vivono in
Brasile in 305 tribù. […]
3. L’estrattivismo assassino e suicida
In America Latina il sistema
dell’agribusiness e dell’allevamento intensivo, della monocultura e del settore
minerario e in generale il modello estrattivista sono particolarmente concentrati
e sviluppati, oltre che favoriti da classi politiche locali spesso espressione
del latifondismo e permeate da fenomeni di corruzione. Come già – e
tuttora – per l’Africa, la ricchezza di risorse
naturali e minerali diventa una dannazione, poiché calamita gli interessi
devastatori delle grandi corporation e dei fondi di investimento, nonché dei
governi dediti al land e water grabbing, in cui
latita ogni responsabilità sociale ed ecologica. Il Cile, ad esempio, possiede circa il 40 per cento delle riserve
mondiali di litio, un metallo strategico fondamentale nell’elettronica e nelle
nuove tecnologie il cui già intenso sfruttamento è destinato a lievitare
nell’attuale fase di transizione ecologica con la necessità di produzione di
energia da fonti rinnovabili. Uno dei giacimenti maggiori di litio, forse il
più grande al mondo, è però in Afghanistan. La
stima comprensiva di altri metalli e terre rare presenti nel sottosuolo afghano
arriva al valore di tremila miliardi di dollari. Il pluridecennale stato di
guerra, prima con l’Unione Sovietica poi con gli Stati Uniti e la NATO, ne
hanno sinora impedito lo sfruttamento che potrebbe però cominciare nel prossimo
futuro, anche per sopperire alle necessità economiche del regime talebano
tornato al potere e per dare ristoro allo stato di prostrazione del paese e
della sua popolazione dopo una guerra così lunga. E di questo si
avvantaggerebbe probabilmente la Cina, abilmente posizionatasi per tempo. La
questione riguarda anche l’Unione Europea, come rimarcato dalla coalizione di
180 associazioni e accademici che ha denunciato i piani sulle materie prime
contenuti nel Green Deal europeo, basati su un’idea contraddittoria e
incoerente di “crescita verde”, che porterà «a un drammatico aumento della
domanda di minerali e metalli che la Commissione Europea prevede di soddisfare
attraverso un gran numero di nuovi progetti di estrazione mineraria, sia
all’interno che all’esterno dell’Unione». Tra questi metalli vi è, appunto,
anche il litio. Pure qui, come per le fonti fossili, oltre al danno ambientale
che colpisce tutti per favorire il profitto privato, vi è la beffa dei sussidi
pubblici europei di cui beneficiano le compagnie minerarie e i loro azionisti,
nonostante il Green Deal, che anzi diventa occasione per nuovi fronti di
saccheggio di beni comuni e nuovi guadagni da parte di grandi gruppi, lobby e
corporation.
A tutto discapito e con precise
responsabilità anche riguardo i diritti umani: «La domanda della UE di minerali
e metalli dall’estero porta a conflitti sociali, uccisioni di difensori
dell’ambiente e dei diritti umani, distruzione ambientale ed emissioni di
carbonio in tutto il mondo. L’attuale politica commerciale della UE ha come
unico obiettivo la liberalizzazione del settore delle materie prime senza
riguardo per i diritti umani, l’ambiente e la sovranità dei paesi del Sud
globale, intrappolando queste nazioni in un ciclo di estrattivismo e dipendenza
cronica» (AA.VV., 2021).
Il paradigma della crescita infinita,
pur se tinta di verde e di dichiarata transizione verso fonti rinnovabili,
rimane pratica che distrugge ogni equilibrio e dunque suicida. Come già emerge
in tutta evidenza dai dati relativi all’ultimo mezzo secolo: dagli anni
Settanta del secolo scorso la popolazione mondiale è raddoppiata (e anche
quella demografica è questione trascurata e rimossa), ma il prodotto interno
lordo globale è quadruplicato.
In quel paradigma gli appetiti e i
profitti crescono, autoalimentati dalle dinamiche speculative della finanza, e
con essi aumentano la violenza contro chi difende territori e popolazioni e i
conflitti ambientali: 3.516 quelli sinora registrati (Environmental Justice
Atlas, 2021).
Il modello estrattivista
contraddistingue il processo di accumulazione per spossessamento, a sua volta
caratteristico del dominio del capitale finanziario; il suo principale
strumento
«è la violenza, e i suoi agenti sono,
indistintamente, poteri statali, parastatali e privati, che spesso lavorano
insieme perché condividono gli stessi obiettivi…. La violenza e la
militarizzazione dei territori sono la regola, sono una parte inseparabile dal
modello; i morti, i feriti e le persone seviziate non sono il risultato di
eccessi accidentali dei controlli polizieschi o militari. È il modo “normale”
di agire dell’estrattivismo nella zona del non-essere. Il terrorismo di Stato
praticato dalle dittature militari distrusse i gruppi di ribelli e spianò la
strada all’avvio delle miniere a cielo aperto e delle monocolture transgeniche.
Successivamente, le democrazie – conservatrici e/o progressiste –
approfittarono delle condizioni create dai regimi autoritari per approfondire
l’accumulazione per spossessamento» (Zibechi, 2016).
Non è, insomma, un caso se la gran parte
delle uccisioni di difensori dei diritti umani è concentrata in quella parte
del globo dove questi processi sono più intensi, ma anche maggiormente
contrastati da collettività e popolazioni. Secondo Front Line Defenders, nel
2020 ne sono stati assassinati 331, la gran parte (69 per cento) impegnati
nella difesa della terra, delle comunità indigene e dei diritti ambientali. Ben
264 degli omicidi sono avvenuti nelle Americhe […] (Global Witness, 2021).
Naturalmente e purtroppo, la dimensione
complessiva della violenza, della repressione e della violazione dei diritti
umani e anche degli omicidi sociali e politici in quei paesi è assai più vasta
(ne riferiamo qui nei capitoli Diritti Globali e Osservatorio sulle impunità)
e indubbiamente la Colombia vede un
terribile e storico primato negativo, che ha spinto il Tribunale Permanente dei
Popoli a dedicarvi nel 2021 una Sessione sul genocidio politico, impunità e
crimini contro la pace. La sentenza, emessa il 17 giugno 2021, ha riconosciuto
lo Stato colombiano colpevole del crimine di genocidio, portato avanti nel
corso dei decenni (Tribunal Permanente de los Pueblos, 2021). Un genocidio che
continua, a opera degli stessi poteri e governi collusi con gli interessi
economici che ne devastano i territori, con 115 difensori e leader sociali e 36
ex guerriglieri uccisi nel 2021 (al 28 agosto). Un genocidio che non riesce
però a fermare la protesta popolare che ha segnato il 2021, con il paro nacional, una rivolta cominciata il 28 aprile
contro il governo Duque e la sua riforma tributaria e per un pacchetto di
misure sociali su reddito, istruzione e salute. Dall’inizio della protesta al
26 giugno si sono registrati 4.687 casi di violenza da parte della polizia,
2.005 detenzioni arbitrarie, 82 feriti gravemente agli occhi, 75 uccisi nel
corso delle manifestazioni, già saliti a 80 al 23 di luglio (INDEPAZ, 2021;
Temblores, 2021). […]
5. Senza giustizia ambientale non c’è pace
Come tutte le guerre, anche questa è un
piano inclinato, troppo facile da cominciare e complicata da frenare e
interrompere. Come tutte le guerre, il carburante che la tiene in vita è la
religione del profitto, l’interesse dei pochi contro i diritti dei molti. Per fare la pace con
la Terra – e con la maggioranza di coloro che la abitano – bisogna cambiare
l’attuale sistema, che, con la potenza dell’informazione condizionata e del
dominio culturale e grazie al vassallaggio e passività di gran parte della
classe politica, fa apparire il suo tramonto e superamento un trauma
impensabile, un cambiamento impossibile.
Certo, quella trasformazione radicale
sarebbe un fatto enorme e ciò sembra fare ritenere questo sistema economico e
sociale insuperabile, magari non il migliore ma senza alternative. Invece, ogni
alternativa è preferibile all’apocalisse ambientale e all’estinzione di massa
che si profila. L’alternativa c’è, è sul tavolo, peraltro così netta ed
evidente da sembrare persino troppo semplice. Invece è quella giusta. È la riconversione
ecologica dell’economia. La indicano da decenni gli scienziati
non asserviti, le associazioni ambientaliste e, più di recente, le poche voci
alte e libere come quella di papa Francesco e quella di una ragazzina molto determinata
e capace di stimolare un movimento mondiale di giovani che rivendicano futuro,
per sé e per tutti. «Abbiamo già la soluzione per la crisi climatica. Sappiamo
esattamente cosa dobbiamo fare. L’unica cosa che manca è che ci decidiamo.
Economia o ecologia? Dobbiamo scegliere» (Thunberg, 2019).
Il 20 agosto 2018 Greta Thunberg
iniziava la sua protesta solitaria davanti al parlamento svedese. Un sassolino
che è divenuto valanga: Fridays For Future,
un movimento che ha mobilitato milioni di persone in tutto il mondo, non per
niente indirizzato a riconquistare quel futuro e quei diritti confiscati dai
padroni del clima e dai distruttori dell’ambiente. Pochi mesi dopo,
nell’ottobre di quello stesso anno, a Londra faceva la sua comparsa nelle
piazze per la prima volta un altro movimento, Extinction Rebellion,
che pure si mobilitava con decisione per la giustizia ambientale. Quei movimenti e quella radicalità, divenuti globali,
rappresentano le gambe, la testa e il cuore del cambiamento necessario e
drammaticamente urgente. Hanno dimostrato e dimostrano che l’impossibile è a
portata di mano, che la salvezza del mondo che brucia e dell’umanità che lo
abita non risiedono nella fede in tecnologie salvifiche di là da venire, né
tanto meno nel greenwashing, ma in un soprassalto di volontà e
lucidità politica, sino a oggi sacrificata ai dogmi della crescita e
subordinata ai sacerdoti del mercato globalizzato.
La giustizia climatica impone di
ripensare l’economia e di riconvertirla, questo è il punto ineludibile. Proprio
come – purtroppo sinora in pochi casi – si è fatto con le industrie belliche.
Interrompere le produzioni di morte e spostare investimenti e lavoro in quelle
ecologicamente, eticamente e socialmente compatibili: non è impossibile, basta
un cambio di prospettiva nello sguardo e nelle coscienze che faccia comprendere
come le produzioni fossili comportino disastri, e dunque genocidio ambientale,
in modo diverso ma con gli stessi effetti delle fabbriche di mine antiuomo o di
missili. Basta che ci decidiamo, come scrive Greta. O – forse più esattamente –
basta che chi sta in basso e paga i costi maggiori della distruttività del
sistema costruisca la forza politica per imporre la decisione a chi può e deve
prenderla, ma non lo vuole fare e non lo sta facendo. Quanto meno con l’urgenza
e la determinazione necessarie.
Una riflessione, quella della decrescita,
che si era affacciata una quindicina di anni fa è stata forse troppo
sbrigativamente tolta dal tavolo e archiviata. Per quanto controversa, poneva
la questione ineludibile sui limiti allo e dello sviluppo. Il drammatizzarsi
dell’emergenza climatica dovrebbe riaprire interrogativi cruciali e capaci di
prospettiva, a cominciare da quello se unico o determinante metro di misura
possa continuare a essere quello del PIL.
6. Alle radici del Covid-19
In modo simile, ed egualmente non
innocente, in questi due anni di pandemia, dal dibattito politico e nei luoghi
della riflessione pubblica, dai media e dai social è rapidamente scomparso un
vocabolo che aveva fatto capolino: zoonosi. Un altro, sindemia,
non è mai riuscito neppure ad affacciarsi. Non è un caso. Attraverso di
essi avrebbero potuto farsi strada gli interrogativi sulle cause – e sugli
effetti diseguali – della pandemia, invece appunto prontamente
rimossi e occultati, che a loro volta rimandano al sistema in cui l’intera
umanità è immersa e costretta a vivere nel tempo della globalizzazione, quello
del capitalismo fossile e finanziario. E a quel suo segmento che ha trasformato
anche l’agricoltura e l’allevamento animale in sistema industriale di
iper-sfruttamento, indifferente alle ricadute su ecosistemi ed equilibri tra
specie. Un sistema predatorio e distruttivo, come ormai ci mostrano tutti gli
indicatori sociali, economici e ambientali.
Un sistema gravemente malato che ha
fatto ammalare il mondo. In questo caso, provocando e producendo una pandemia
che non ha precedenti, quanto a diffusione e gravità, e che dimostra
specificità assenti in quelle del passato, non solo per i processi di
globalizzazione che hanno annullato le distanze geografiche e favorito
l’estrema mobilità umana (sempre che non si sia poveri e migranti), ma semmai
per quei processi – anch’essi connessi alla globalizzazione – relativi alle
modalità di produzione di merci e di cibo,
di accaparramento di materie prime, di sfruttamento delle risorse naturali ed
energetiche. Modalità che, nelle loro sinergie distruttive, hanno
progressivamente portato il pianeta, e chi lo abita, sull’orlo del tracollo.
Nel caso di specie, causa scatenante è stata… il salto di specie, vale a dire
lo spillover secondo la definizione anglosassone. Che
per l’attuale pandemia è stato il passaggio del coronavirus dal pipistrello
all’uomo, attraverso un passaggio intermedio, probabilmente il pangolino,
facilitato dai mercati cinesi di animali vivi, dalle abitudini alimentari
locali e dagli allevamenti intensivi di maiali installati ai margini delle
foreste in cui vivono questi animali. Allevamenti industriali che sottraggono
spazio agli habitat di specie selvatiche e costringono alla coabitazione
forzata e ravvicinata animali selvatici, quelli allevati e l’uomo. Da qui la
zoonosi, ovvero la malattia infettiva trasmessa dall’animale vertebrato
all’uomo. I cambiamenti climatici e l’inquinamento atmosferico hanno reso
quest’ultimo più vulnerabile alle infezioni respiratorie, potendosi così
parlare di sindemia, che è l’interazione sinergica di due o più malattie
trasmissibili e non trasmissibili, che colpisce particolarmente le fasce di popolazione
svantaggiata, implicando una correlazione tra quelle malattie e le condizioni
ambientali e socio-economiche.
Riscaldamento climatico e pandemia da
Covid-19 richiamano i medesimi problemi e rimandano alle stesse cause: prima di
tutte lo scellerato e intensivo sfruttamento ambientale, umano e animale. Quest’ultimo rimane
peraltro invisibile e nascosto nelle sue forme, drammatizzate
dall’industrializzazione degli allevamenti, giganteschi lager e catene di
montaggio dell’orrore, che se rivelate e conosciute diverrebbero intollerabili
per la sensibilità comune. Sono questi temi e aspetti quasi totalmente assenti
dalla riflessione e informazione pubblica, confinati nei ristrettissimi recinti
di gruppi animalisti e di sparuti scienziati e filosofi antispecisti. Eppure,
sono fondamentali e costituenti per una prospettiva di cambiamento,
necessariamente radicale.
C’è, allora, da mettere in discussione e
convertire il sistema economico ma c’è anche una questione di stili di vita e
di culture del consumo da ripensare, cui anche la pandemia dovrebbe
sollecitare.
«Il dolore, l’incertezza, il timore e la
consapevolezza dei propri limiti che la pandemia ha suscitato, fanno risuonare
l’appello a ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni,
l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra
esistenza» (Bergoglio, 2020). Di nuovo lo ha detto bene papa Francesco, spesso
capace di parole di verità, di denunce e di proposte in materia sociale e
ambientale che, dato il pulpito, ci si aspetterebbe fossero in grado di indurre
mutamenti o almeno un dibattito incisivo e che invece rimangono inascoltate dai
decisori politici, ma pure dallo stesso popolo della chiesa al cui vertice
siede il pontefice: perché il cambiamento fa paura, perché permane come un
fossato lo scarto tra ciò che si sa essere giusto e ciò che si mette in opera,
essendo rara e costosa la capacità di coerenza e di conseguenza. E perché, alla
fine e in misura sempre maggiore, nell’epoca della comunicazione globale ogni
parola, anche la più giusta e autorevole, rimane smarrita nell’oceano
indistinto e nel frastuono perpetuo che confonde e rende meno distinguibile ciò
che è vero e vitale. Questo vale anche per la parola e l’evidenza scientifica,
durante la pandemia messe in discussione da aree non ristrette di popolazione
sia riguardo le cause, sia riguardo i rimedi.
Ciò che è successo – il passaggio di un
coronavirus dal pipistrello all’uomo – era peraltro stato esattamente previsto
già nel 2012 (Quammen, 2014). Del resto, nel corso dell’ultimo secolo le
zoonosi sono state un centinaio e hanno avuto un’accelerazione negli ultimi due
decenni. Vale a dire nel periodo storico che ha visto un deciso peggioramento
delle complessive condizioni ambientali. Se, dunque, il Covid-19 è una zoonosi,
«la pandemia è stata causata dai danni ambientali che l’umanità provoca per
procurarsi le quantità sempre maggiori di risorse necessarie ad alimentare la
crescita economica, i profitti e i consumi» (Pallante, 2021).
Ecco perché è sbagliato ricercare la causa che ha dato origine alla pandemia, tanto
più se si cerca di attribuirla alle ipotesi di fuga del virus da un laboratorio
di Wuhan, come ha insistentemente e strumentalmente provato a fare Donald Trump
senza che ve ne fossero gli elementi. Considerando, oltretutto, che se è vero
che in quel laboratorio in Cina erano in corso ricerche sul coronavirus dei
pipistrelli, queste erano finanziate da EcoHealth Alliance, un’organizzazione
sanitaria con sede negli Stati Uniti (Lerner, Hvistendahl, 2021). […]
9. La causa paga: cittadini e movimenti si
organizzano
All’inerzia o – alla meglio – lentezza
dei decisori politici, alla disinformazione truffaldina dei negazionisti
climatici, al camaleontismo del greenwashing e
a cosmetici e ingannevoli rebranding (come
quello della compagnia petrolifera francese Total che nel maggio 2021 ha deciso
di cambiare nome e logo: si chiamerà TotalEnergies e il marchio diventa di
un’ecologica tinta arcobaleno) e al potere di condizionamento delle lobby
dell’industria fossile tentano di fare fronte i movimenti
globali che hanno invaso la scena negli ultimi anni, mettendo
in gioco i propri corpi per conquistare il futuro che viene loro sottratto
giorno dopo giorno, proponendo cambiamenti radicali di paradigma e lottando per
la giustizia climatica.
Su altri piani e con altri strumenti,
negli anni recenti sta crescendo anche un significativo fenomeno: quello dei
contenziosi legali connessi ai cambiamenti climatici, con numeri importanti. Le
controversie sono quasi raddoppiate in quattro anni, passando da 884 casi in 24
paesi nel 2017 a oltre 1.550 in 38 paesi nel 2020. Maggiormente concentrati
nelle nazioni ad alto reddito, stanno comunque interessando anche aree del sud
del mondo come Colombia, India, Pakistan, Perù, Filippine e Sudafrica. I
querelanti sono ONG, gruppi di cittadini e di attivisti, comunità indigene.
Sono chiamate in cause le aziende ma anche i governi incapaci di fare
rispettare norme e impegni o inattivi rispetto a cambiamenti climatici e a
eventi meteorologici estremi (UNEP, 2021).
Quando i cittadini si organizzano e gli
attivisti si mobilitano i risultati arrivano, come comprova, ad esempio, la
sentenza della Corte costituzionale tedesca dell’aprile 2021, che ha imposto al
legislatore di cambiare la norma esistente per regolamentare in modo
dettagliato e più rigidamente gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas
serra per il periodo successivo al 2030. O come dimostra il risarcimento di 111
milioni di dollari stabilito dalla Corte Suprema del Regno Unito nel maggio
2021 – a termine di una battaglia legale durata ben 13 anni – nei confronti di
un gruppo di 42.500 agricoltori e pescatori
nigeriani che hanno citato in giudizio la Royal Dutch Shell per
anni di fuoriuscite di petrolio nel delta del Niger, con contaminazione di
terreni e acque sotterranee. Sempre la Shell ha perso la causa intentata contro
di lei da Friends of the Earth Netherlands e da altre sei ONG insieme a circa
17.000 singoli cittadini: il 26 maggio 2021, il Tribunale distrettuale dell’Aia
ha ordinato alla compagnia di ridurre le proprie emissioni mondiali di CO2 del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del
2019.
In attesa – e nella sollecitazione – di
una capacità di governi e legislatori di far fronte in modo adeguato e
generalizzato all’emergenza climatica e ai disastri ambientali, imponendo
limiti e regole allo strapotere delle multinazionali, l’iniziativa dal basso
dimostra una fondamentale volontà di rivendicare e anche di conquistare quei
diritti ambientali troppo a lungo violati. […]
12. Il vaccino diseguale
Pandemia che, a sua volta, per quella
logica e per quel sistema economico è stata utilizzata quale occasione di
immensi profitti.
Al colorito universo del negazionismo
No-vax, insostenibile dal punto di vista scientifico, un robusto argomento
arriva dalla innegabile, enorme, valenza economica legata ai vaccini, ai
condizionamenti e allo strapotere di Big Pharma.
Se il green
pass diventa strumento e pretesto per licenziamenti,
discriminazioni e disciplinamento dei dipendenti o costo da riversare, al
solito, sui cittadini costretti a pagarsi i tamponi – di nuovo alimentando il
business sanitario privato – è arduo pretendere che da parte dei lavoratori e
dei sindacati vi possa essere un’acritica adesione alla misura e alle modalità
imposte. Se la salute, anziché essere affermata come diritto, viene gestita
come un grande business, diventa più difficile convincere i cittadini della
responsabilità individuale e sociale del vaccinarsi. Se il vaccino, anziché
quale bene pubblico globale viene gestito come privilegio per la solita parte
del mondo, quella più ricca e sviluppata, diventa meno credibile un discorso di
sanità pubblica, per giunta articolata per decreti, imposizioni e misure
d’eccezione.
Se venisse dai governi affermato – e
tradotto in scelte conseguenti – un vaccino per la popolazione, anziché un
vaccino per il profitto, le obiezioni svanirebbero rapidamente e in gran parte.
Ma questo si traduce in un solo modo: un vaccino esente da brevetti. Che è la richiesta sin dall’inizio venuta da
paesi come India e Sudafrica, sotto forma di moratoria temporanea su brevetti
vaccinali e terapie anti Covid-19, così come dalle ONG, da reti associative, da
innumerevoli personalità. Appelli rimasti però privi di risposte. […]
Invece, le scelte
globali in materia di vaccino anti Covid-19 stanno abbandonando la maggior
parte della popolazione mondiale al proprio destino. Scelte
sciagurate che rivelano la profonda inconsapevolezza e indifferenza al fatto
che, proprio come per la questione climatica, la grande e tragica lezione che
arriva da questa pandemia è che il destino del mondo è comune e che nessuno si
salva da solo. […
21. Il discusso guardiano dei confini: il
caso Frontex
Si conferma dunque anche per l’Afghanistan la politica pilatesca messa in atto
dall’Europa nel 2015 per fronteggiare la crisi dei profughi siriani: esternalizzare le proprie frontiere o, detta più crudamente, appaltare il lavoro sporco ad altri.
Con l’ulteriore paradosso che allora i miliardi di euro vennero dati al sultano
Erdogan, vale a dire al presidente autoritario di un paese comunque aderente
alla NATO e a suo tempo richiedente l’ingresso nell’Unione Europea, mentre ora
le risorse finiranno a Pakistan, Tagikistan e Iran; quest’ultimo è un paese già
sottoposto a sanzioni anche da parte europea e nel quale i diritti umani sono
forse ancor meno tutelati che non in Afghanistan, mentre il Pakistan è sempre
stato protettore e ispiratore dei talebani, oltre che protettivo rifugio per
Osama bin Laden.
Paradosso nel paradosso, viene
richiamato anche in questa evenienza il «sostegno di Frontex nel proteggere le frontiere», vale a dire
di una Agenzia da più parti accusata di violare i diritti
umani e di respingimenti illegali, tanto che nel 2021 la
Commissione Libertà civili del Parlamento Europeo ha istituito un gruppo di
lavoro per approfondire la questione. Il report dell’indagine conoscitiva
svolta, pubblicato solo un mese prima, afferma che, pur in assenza di prove
conclusive sull’esecuzione diretta da parte di Frontex di respingimenti o
espulsioni collettive, dunque illegittime, l’Agenzia, pur avendo prove a
sostegno delle accuse di violazioni dei diritti fondamentali negli Stati membri
con cui aveva un’operazione congiunta, «non ha affrontato e seguito queste
violazioni in modo tempestivo, vigile ed efficace». Sull’attività di Frontex,
peraltro, ha aperto un’inchiesta anche l’European Anti-Fraud Office (OLAF),
l’organismo di vigilanza antifrode dell’UE (European Parliament – LIBE, 2021).
[…]
22. Partire è sempre più morire
Quando si parla di rifugiati e migranti,
però, sono molti quelli che non si salvano. Dal 1993 al 1° giugno 2021 sono
stati oltre 44.764 i migranti morti mentre cercavano di entrare in Europa.
Almeno quelli riscontrati, in questo caso dal network UNITED for Intercultural
Action, perché non pochi sfuggono a ogni rilevamento. Molte altre morti sono
avvenute nel Mediterraneo, da tempo propriamente definibile un “cimitero
marino”: dal 1° gennaio al 30 agosto 2021 i decessi di migranti registrati sono
stati 1.311, più del doppio del corrispondente periodo dell’anno precedente,
quando erano stati 625, con una forte riduzione dovuta alle minori partenze nel
periodo più intenso della pandemia, ma anche inferiori alle 1.094 dei primi otto
mesi del 2019. Anche in questo caso una cifra sicuramente meno elevata rispetto
alla realtà, dato il minor numero di navi umanitarie presenti nel Mediterraneo
e allestite dalle ONG, osteggiate da istituzioni nazionali e comunitarie in
quanto testimoni non graditi degli effetti letali delle politiche disumane di
chiusura delle frontiere e dei porti.
Politiche che non riguardano solo
l’Europa, anche se il Mediterraneo rimane l’area più micidiale. A livello
mondiale, nello stesso periodo dei primi otto mesi del 2021, le vittime sono
state in totale 2.727 (erano state 2.079 l’anno precedente e 3.326 nel 2019).
Oltre ai 1.311 morti nel Mediterraneo, le aree più letali sono state le
Americhe, con 572 vittime, e l’Africa, con 513 (UNITED for Intercultural Action,
2021; IOM, 2021).
Quali che siano il continente e i
governi, si tratta sempre di morti impunite a causa di scelte di “realismo” e
di convenienza che quotidianamente fanno carta straccia delle Convenzioni
internazionali in materia di diritti umani e di rifugiati e del principio
di non-refoulement, a ulteriore dimostrazione che anche il
diritto internazionale risponde prioritariamente e quasi sempre alla legge del
più forte.
Se molte morti sfuggono a ogni
rilevazione e sono impossibili da quantificare, anche su quelle decine di
migliaia corredate di date, fonti, modalità, quando possibile nomi e
provenienza, il silenzio è assoluto. Tombale, verrebbe da dire.
È una guerra anche questa, non dichiarata ma con i
medesimi devastanti effetti, che colpiscono la parte più debole e bisognosa
delle popolazioni a livello mondiale. Chi pure sopravvive non ha comunque vita
facile nel tempo dei populismi e della pandemia.
A fine 2020 gli sfollati forzati in
tutto il mondo erano 82,4 milioni, 48 milioni all’interno del loro stesso
paese, persone private di tutto e in balia di politiche sempre più restrittive,
costrette a lasciare le loro case a causa di guerre e violenze, persecuzioni e
violazioni dei diritti umani, crisi politiche e sociali. E, sempre più e in
misura preponderante, a causa di disastri ambientali e degli effetti del
riscaldamento globale (UNHCR, 2021 a; UNHCR, 2021 b; IDMC, 2021).
Con questo Rapporto annuale, la nostra
costitutiva scelta è di provare a leggere il mondo – con i suoi tanti,
intrecciati e spesso drammatici problemi, aggravati e approfonditi durante la
pandemia del Covid-19 – anche con i loro occhi di rifiutati e sommersi, di
annegati e torturati, di rinchiusi in campi di concentramento dopo essere stati
costretti dalle bombe o dalla carestia a fuggire dalle proprie case.
Più in generale, anno dopo anno, cerchiamo di analizzare ciò che succede a livello
globale dall’angolatura visiva di quelli di sotto. Con
lo sforzo di fare scaturire dal ragionamento e dalla denuncia proposte
costruttive, nella prospettiva della giustizia ambientale, economica e sociale,
della democrazia integrale e dello Stato di diritto. In una parola, dei diritti
globali. Una scelta che è, a un tempo, politica, culturale ed etica. Che ci
pare necessitata dalla parzialità interessata attraverso cui vengono invece
rappresentati dal mainstream la realtà e i suoi problemi.
Cercare di capire la prima, per poter affrontare i secondi, significa allora
allargare lo sguardo e l’analisi, o meglio abbassarli. Perché è solo dal basso
della piramide sociale, dalle ragioni di chi quotidianamente paga i costi di un
sistema ingiusto e diseguale che si possono mettere in moto le dinamiche del
cambiamento.
(*) Questi sono estratti della prefazione
al «Rapporto Diritti globali 2021 Stato dell’impunità nel mondo». Noi la
riprendiamo da Comune-info che la presenta così: «Il disastro
ambientale non può essere più nascosto. La violenza e la militarizzazione dei
territori sono ormai la regola che accompagna, dalle Ande alla Val Susa,
l’estrattivismo. Intanto riscaldamento climatico e pandemia da Covid-19
richiamano i medesimi problemi e rimandano alle stesse cause, prima di tutte lo
scellerato e intensivo sfruttamento ambientale, umano e animale. In questo
grigio panorama – nel quale cresce la guerra non dichiarata contro i migranti –
nuovi movimenti globali come Fridays For Future ed Extinction Rebellion hanno
cominciato a dimostrare che l’impossibile è a portata di mano, che la salvezza
del mondo che brucia e dell’umanità che lo abita non risiede nella fede in
tecnologie salvifiche né tanto meno nel greenwashing. Occorre allargare in
tanti modi diversi lo sguardo e l’analisi, “o meglio abbassarli, perché è solo
dal basso della piramide sociale, dalle ragioni di chi quotidianamente paga i
costi di un sistema ingiusto e diseguale – scrive Sergio Segio, curatore del
Rapporto Diritti globali 2021 Stato dell’impunità nel mondo – che si possono
mettere in moto le dinamiche del cambiamento…».
https://www.labottegadelbarbieri.org/il-mondo-malato-e-quelli-di-sotto/
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