La critica sociale, cioè la critica del “sociale”,
della struttura dei rapporti tra individui, gruppi, classi e nazioni, si è
andata in larga parte sviluppando nel corso del tempo – a partire, forse,
dall’avvento della “modernità”, ma soprattutto a partire dal ’68, che ha fatto
dei rapporti sociali l’orizzonte e il pilastro teorici e pratici della sua “identità”
– come ambito di analisi separato da quello della “Natura”, cioè di tutto ciò –
totalità del vivente compresa – che non era o non sembrava riconducibile a un
rapporto tra gli esseri umani. La Natura si presentava all’analisi politica, se
non veniva del tutto ignorata, come “ambiente”, contesto fisico, chimico o
biologico di ciò che era stato assoggettato o “soggiogato” dallo “sviluppo
delle forze produttive”; messo in moto, questo, soprattutto dal capitalismo,
frutto avvelenato della “modernità”.
Quando la “Natura”, in parte per il suo crescente
degrado, in parte per una autonoma evoluzione di quel che restava della cultura
del ’68, e grazie al lavoro degli ecologisti, ha cominciato a imporsi
all’ordine del giorno della politica, la separazione tra società e natura non è
però venuta meno. Si è verificata una giustapposizione dei due ambiti più che
la loro fusione; ciò che avrebbe imposto anche una completa rigenerazione degli
approcci adottati verso entrambi. Così l’ambiente è diventato, spesso accanto alla
“questione femminile”, a quella dei “giovani” e a quella della pace, una delle
pagine più o meno estese dei programmi di tutti i partiti, collocate per lo più
in coda o ai margini delle questioni politiche, economiche e sociali: quelle
che veramente contano. E anche nell’arcipelago ambientalista quella
separazione-giustapposizione ha continuato a ripresentarsi. Di qui l’incapacità
di liberarsi veramente dalla contrapposizione tra lavoro e ambiente, salute e
produzione, sviluppo e degrado: una contrapposizione su cui le forze messe in
campo dal capitalismo continuano a prosperare. Che poi si ripresenta anche nei
contrasti tra chi vede nell’“ecologia senza lotta di classe” un mero
“giardinaggio” e chi si barrica dietro la necessità che la lotta per la salvaguardia
dell’ambiente affronti anche la “grande questione” della diseguaglianza. La
quale viene per lo più affrontata come una questione di redistribuzione della
ricchezza prodotta e/o dell’accesso alle risorse naturali del territorio. Quasi
mai come una questione di potere, che mette in discussione il dominio di una
classe sull’altra, ma anche quello degli uomini sulle donne (il patriarcato in
tutte le sue sfaccettature, come ha fatto e fa l’ecofemminismo, scarsamente
recepito, però, nei capitoli sull’ambiente e “sulle donne” dei programmi
politici); e soprattutto quello degli esseri umani (“antropocene”) o del
capitalismo (“capitalocene”) sul resto della natura. Un potere, questo, che è
“dinamico” e mobile quanto gli altri due. Anche in questo caso affrontarlo non
consente più di continuare a trattare l’ambiente come un corpo inerte, a
disposizione di chi intende e ha i mezzi per servirsene. Invece, come le classi
“subalterne” e come “l’altra metà del cielo”, anche “la Natura” non è che il
prodotto di un conflitto in cui entrambe le controparti, e non solo “l’uomo”, o
“il capitale”, hanno un ruolo attivo – soprattutto la capacità di rigenerarsi –
anche quando appaiono, o sono, soccombenti.
Dopo Alex Langer, che aveva introdotto nel lessico
politico, ma anche e soprattutto nei nostri ripensamenti, il concetto di
conversione ecologica, è stato il grande affresco dell’enciclica Laudato
sì a rovesciare radicalmente i termini della questione: giustizia
sociale e giustizia ambientale sono inscindibilmente legate; ma non solo nel
progetto di una redistribuzione delle risorse esistenti che riduca le
diseguaglianze e la predazione ambientale e che faccia delle vittime
dell’ingiustizia sociale e ambientale i destinatari (passivi) di un percorso di
risanamento; bensì in modalità che ne esaltino il ruolo attivo. Sono i “poveri
della Terra” a subire maggiormente le conseguenze del degrado ambientale e da
loro, e solo da loro, può svilupparsi il riscatto per riportare ordine nel
nostro universo. E in questa lotta possono e devono trovare un alleato nella
natura – in ciò che altrove si chiama “Pacha Mama” – di cui anch’essi sono
parte. Non c’è possibilità di riscatto sociale, di riconquista della dignità e
dei diritti che spettano agli esseri umani senza restituire anche alla natura i
suoi diritti. Che sono quelli di potersi rigenerare nel rispetto dei propri
cicli, senza che l’intervento umano abbia a interromperli.
La cosa oggi è quasi ovvia, perché è già sotto i
nostri occhi il disastro che il disprezzo di quei cicli ha indotto nel mondo,
ma anche il fatto che a risentire maggiormente del degrado ambientale, dei
cambiamenti climatici e dell’inquinamento sono i poveri: quelli costretti a
migrare come quelli condannati a un lento e continuo avvelenamento. Ma trovare,
luogo per luogo e giorno per giorno, i termini per promuovere e rendere
produttiva quella alleanza è un’altra cosa: è ciò su cui dovrebbero cimentarsi
i programmi e i progetti di qualsiasi forza impegnata nello sforzo di “abolire
lo stato di cose presente”; o anche solo di cercare di fermare la corsa alla
catastrofe. Papa Francesco ne ha visto una manifestazione nei movimenti
popolari che ha convocato, per ben tre volte nel corso del suo pontificato, per
discutere con loro delle loro prospettive. Ma basta uno sguardo all’elenco
delle forze presenti a quegli incontri, pur decisive per il loro ruolo
esemplare, per accorgersi di quanta parte dell’umanità – intesa come gli
esclusi dal banchetto della “crescita”, la vera religione del nostro tempo – e
quanta parte del degrado ambientale che tocca in diversa misura la vita
quotidiana di tutti manchino ancora all’appello per completare uno schieramento
adeguato alla prospettiva di quel riscatto.
Perciò, senza mai perdere di vista l’orizzonte della
giustizia sociale e ambientale, forse è inutile vagheggiare di programmi
generali per rimettere “in sesto” società e ambiente senza tener conto, cercare
di interpretare e consentire che prendano forma, le istanze degli attori che
ancora si devono fare protagonisti di quel processo; a meno di contare su una
resipiscenza (conversione?), senza basi sociali, di quel ceto politico e
imprenditoriale globale che ha lavorato e continua a lavorare, anche sotto le
mentite spoglie di una “transizione ecologica”, a spingere in avanti la corsa
verso il baratro.
Forse è anche sbagliato disquisire troppo sul
traguardo da raggiungere. Per esempio, si sta discutendo dell’accettabilità del
termine “ecosocialismo” per definire quella che dovrebbe essere la “nostra”
politica: non è forse “divisivo”? A molti – si dice – il termine socialismo non
va giù; perché ricorda troppo il comunismo: quello visto all’opera; o perché
sembra escludere l’iniziativa (privata? o forse anche quella di comunità?). Ma
in genere, in dibattiti del genere, si discute in realtà di un assetto futuro e
stabile dei rapporti sociali, finalmente ricondotti entro un orizzonte di
rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani e di salvaguardia dell’ambiente.
Ma la conversione ecologica non è un assetto stabile,
né un traguardo, bensì un processo, un work in progress;
inevitabilmente conflittuale. Dove il termine ecologico indica un rapporto
positivo tra gli esseri umani, il resto del vivente e il supporto terrestre di
entrambi (Gaia), e non una semplice negazione, come quella contenuta in termini
come “anticapitalista”, a cui molti non sembrano saper rinunciare – e altri se
ne riempiono orgogliosamente la bocca – senza però riuscire a definirlo o fare
un passo avanti nella individuazione dei modi per cercare di modificare i
rapporti di forza vigenti: quelli tra le classi, tra le nazioni e tra i generi,
ma soprattutto quelli tra le forme di volta in volta assunte dallo sviluppo del
capitalismo – in cui bene o male siamo tutti implicati – e il riscatto di tutte
le energie vitali che ne sono oppresse.
Quello che ci deve vedere impegnati è la costruzione –
un lavoro senza fine – di comunità di uomini, donne, piante, animali e suolo
che sia possibile replicare ovunque, facendo tesoro delle esperienze già fatte
e adattandole a contesti diversi e in continuo mutamento. Stanno lì le forze
che possono proporsi di sovvertire lo stato di cose presente, anche, ma non
solo, imponendo anche a chi governa, o a chi eventualmente lo sostituirà, un
autentico cambio di rotta.
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