La “sanità” è caratterizzata da strutture e ambiti definiti “politicamente” come altri aspetti del welfare (“produzione” di salute collettiva e individuale) e agisce (o non agisce), direttamente o indirettamente, sulla ampia gamma dei determinanti della salute (condizioni lavorative, di vita, ambientali). Le “pentole” in ebollizione sono diverse per contenuti e “livelli” ma anche per le direzioni.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vi è una
dichiarata “sterzata” verso il potenziamento della medicina territoriale (case
di comunità, ospedali di comunità, medicina di “prossimità”), un richiamo alla
impostazione della riforma sanitaria del 1978 e dello strumento della Unità
Socio Sanitaria Locale ove il sociale è integrato al sanitario, l’aspetto
locale è fondativo (in contrapposizione con il modello di
aziendalizzazione successivo e del conseguente ospedalocentrismo più
o meno accentuato a seconda della regione).
La pentola del PNRR sobbolle su questo tema e i
prossimi mesi saranno decisivi per individuare quale sia il “paradigma” sotteso
alle dichiarazioni fatte per ottenere i finanziamenti (la gran parte prestiti)
europei. Per questo alcune anticipazioni Agenas sulle linee guida relative alle
case di comunità sono preoccupanti: si chiede ai medici di medicina generale
(il fulcro delle case di comunità) di dedicare 2 ore alla settimana a tale
attività, palesemente inadeguata sia in termini di servizio che di concretezza;
e non risponde certo alle tante vertenze territoriali sul tema.
Nel PNRR, per sua nascita, non vi è la voce
“operatori”, che questi siano fondamentali appare ovvio ma non risolto. Molto
bolle in pentola da questo lato, lavoratori/lavoratrici hanno fatto sentire la
loro voce ma permane il peso della zavorra dell’ “obbligo fiduciario” che mette
il dipendente in balia del datore di lavoro non permettendogli di segnalare
criticità pena la perdita del lavoro, per non dire della sempre più estesa
precarietà e la esternalizzazione di tutti i servizi possibili.
Il tema della autonomia differenziata è parallelo e
foriero di ulteriori sfracelli smontando anche quel che rimane dei Livelli
Essenziali di Assistenza che hanno fatto da “cerotto”, ora sempre meno, a 21
sistemi diversi l’uno dall’altro (in Lombardia anche singole aziende sanitarie
si possono organizzare diversamente).
Una pentola regionale da tenere d’occhio
particolarmente è quella della Lombardia, apripista delle peggiori e più
incisive iniziative di smontaggio e distruzione del servizio sanitario pubblico
a favore del privato. La legge Moratti approvata il 30 novembre rilancia il
modello precedente, costruito con solerzia e impegno dal 1997. Per ottenere i
1,2 miliardi di spettanza dal PNRR la legge contiene formalmente le strutture
di medicina territoriale ma subito dopo le definisce “equivalenti” (in
precedenza si parlava di “parità”) con il privato, apre alla gestione delle
stesse da parte di quest’ultimo e inserisce nel “sistema” le mutue, le
assicurazioni e il “welfare aziendale”. Un vero e proprio passo del gambero che
ci porta a prima del 1978 ma soprattutto accentua le discriminazioni
all’accesso alle cure (già oggi in Lombardia la stessa struttura privata
accreditata/convenzionata tratta il “cliente” in almeno quattro modi diversi :
utente del servizio sanitario, in fondo alla lista d’attesa; con una aggiunta
di pagamento si accorcia l’attesa; con una mutua/assicurazione si accede alle
corrispondenti prestazioni a seconda della “ricchezza” del “prodotto” riducendo
l’attesa; pienamente pagante: prestazioni immediate e scelta del medico).
Tale impostazione non è in contrasto con il PNRR che
non fa scelte o chiare distinzioni tra pubblico e privato rischiando, ancora
una volta, di dare pietanze pubbliche in abbondanza a chi ha come obiettivo
principale della attività in campo sanitario il profitto e non la salute
pubblica. Eppure dovrebbe essere chiaro che i cittadini/e non sono clienti ma
portatori del diritto alla salute.
A fronte di quanto è stato deciso o si approssima a
decisioni del genere vi è fortunatamente un soggetto che ha acquisito una
maggiore forza anche “grazie” all’emergenza e la sfida che la pandemia ha
determinato.
È un vaccino antiprivatizzazioni costituito dalle
associazioni e dalle realtà sociali che sono tornate a parlarsi anche oltre gli
ambiti e le vertenze locali e può produrre numerosi “anticorpi popolari”.
Senza sminuire altre iniziative penso che la
principale, in termini di possibili sviluppi futuri e di ampiezza di “presa in
carico” di temi, è quella che ha avuto una prima tappa a Bologna il 6-7
novembre scorso: “Come si
esce dalla sindemia”. I quattro tavoli di
lavoro (“sistema sanitario”, “cos’è la salute?”, “pandemia: a che punto è la
notte?”, “mobilitazione: che fare?”) hanno condiviso alcuni concetti di base
sul tema, confrontando esperienze distribuite in Italia e hanno proposto un
percorso comune. Il tavolo sulle mobilitazioni ha avuto infatti un esito che
merita di essere riportato ampiamente a partire dalla condivisione di essere
contro la mercificazione e la privatizzazione della salute come la necessità di
lottare localmente e in connessione con “le battaglie ecologiste,
femministe, per il diritto alla casa, al reddito, per l’abolizione del carcere,
insomma di tutte le lotte che sono, in fin dei conti, la lotta comune per il
diritto alla salute” (…) Concludendo con le seguenti proposte operative:
1.
Urge una piattaforma comunicativa. Non solo serve una
piattaforma “centralizzata” capace di assorbire per poi diffondere le
informazioni (vertenze, scadenze, lotte, interviste, azioni, ecc.) che
provengono da tutti i territori, ma serve soprattutto una piattaforma
“rizomatica” in cui le varie realtà abbiano la possibilità di connettersi le
une con le altre in maniera autonoma, secondo le proprie libere iniziative.
2.
Serve uno slogan comune, capace di essere elemento
universale amalgamante di realtà così tanto diverse. Per questo è stata
proposta la frase «la salute non è una merce», ma anche l’idea di un manifesto
con poche rivendicazioni universali comuni e quella di una bandiera che, da
nord a sud, possa essere sempre riconoscibile.
3.
Infine, è stata sentita la necessità di aprire nuovi
percorsi comuni. Percorsi che secondo molti del tavolo dovrebbero portare verso
una data durante la quale poter iniziare a sperimentare pratiche di lotta
comune e capillare sui territori, ma che secondo altri compagni invece non dovrebbero
ridursi ad una semplice data di mobilitazione, per provare a essere invece
qualcosa di più profondo, capace di costruire relazionalità più intense ed
efficaci nel tempo. Nel medio, lungo e lunghissimo termine.”
Tra le tante pentole, alcune indigeste, almeno una che
propone una dieta salutare.
*(Presidente di
Medicina Democratica)
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 48 di
Gennaio-febbraio 2022: “Cosa
bolle in pentola?“
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