I prodotti biologici sono gli unici che forniscono un
minimo di garanzia sulla qualità di quello che si mangia, inizia a raccontarci
Riccardo Bocci, direttore tecnico della Rete Semi Rurali. Questo perché, mentre
nell’agricoltura convenzionale non è obbligatoria alcuna certificazione di
qualità e alcun controllo sui pesticidi, in quella biologica è necessario
rispettare una serie di regole previste dalla normativa europea.
Nonostante il cibo sia arrivato al grande pubblico con
i vari programmi televisivi, in quella che Bocci definisce «la versione
pornografica del cibo», nella realtà i consumatori fanno ancora fatica a
leggere un’etichetta e a capire cosa c’è dietro quello che stiamo mangiando. Le
conseguenze di queste difficoltà sono evidenti, e gravi: l’Italia ha la
percentuale di obesità infantile tra le più elevate in Europa: il 20,4% dei
nostri bambini sono sovrappeso; di questi il 9,4% sono obesi, compresi i
gravemente obesi che rappresentano il 2,4% (Ministero della Salute, Stili di
vita e obesità nei bambini). Fortunatamente, a fronte di questi dati, inizia a
diffondersi la consapevolezza di una dieta più sana ed equilibrata: e la
crescita del consumo di bio, anche in tempo di pandemia, ne è una conferma (Rapporto BioBank 2020).
Questa crescita, peraltro, è da imputare
esclusivamente alla grande distribuzione, mentre continua a diminuire la fetta
di mercato dei piccoli negozi. E con i negozi, pionieri vent’anni fa del
biologico, scompaiono anche le motivazioni di fondo del bio delle origini, che
non era interessato soltanto alla qualità del prodotto ma ‒ ci ricorda Bocci ‒
si faceva promotore di una spinta etica e sociale a cambiare l’agricoltura
convenzionale.
In effetti il biologico che troviamo nei supermercati
è molto diverso rispetto a quello che vorremmo. Quello della grande
distribuzione organizzata è un biologico che non si preoccupa del corretto
trattamento dei lavoratori e di eventuali situazioni di caporalato. Non si cura
dell’impatto in termini di CO2: per cui distribuisce pomodori che arrivano
dall’Argentina oppure fragole fuori stagione. Non è interessato a sostenere gli
agricoltori, sui quali quindi ricade interamente il rischio di impresa. A tal
proposito Bocci ricorda un’esperienza diretta. Mentre nel passato le aziende
per la lavorazione dei piselli stipulavano degli accordi con i quali si
impegnavano ad acquistare il raccolto degli agricoltori, adesso questo non
accade più: se la grande distribuzione decide, per qualunque motivo, di non
acquistare più quei prodotti ecco che l’agricoltore si ritrova
nell’impossibilità di vendere il suo raccolto. La filiera produttiva ha assunto
una forma a clessidra il cui snodo fondamentale è rappresentato proprio dalla
grande distribuzione, che oramai detta le regole a tutti, non solo ai
consumatori o ai piccoli produttori, ma anche alla stessa agro-industria.
Allora che fare? La parola d’ordine è, secondo Bocci,
diversificazione. «Ci siamo accorti ‒ sottolinea ‒ che quel concetto di
diversificazione dei semi, di cui la Rete Semi Rurali si è fatta promotrice,
quindi l’idea di avere semi differenti per diversi contesti, va portata ed
estesa a tutti gli ambiti. Non c’è un’unica soluzione ma tante misure che vanno
messe in campo in una visione organica e coerente». Abbiamo bisogno pertanto di
una diversificazione del modello distributivo e logistico. Che permetta di
ripristinare un’alleanza tra consumatori e agricoltori, consentendo, ad
esempio, di condividere il rischio di impresa di questi ultimi. Abbiamo bisogno
al contempo di un modello che non poggi esclusivamente sul volontariato, come
nel caso dei gruppi di acquisto solidale, ma che sperimenti più soluzioni e che
soprattutto abbia una forza economica intrinseca. Abbiamo bisogno di una
politica economica che indirizzi e privilegi un certo modello economico.
Ma la diversificazione la dobbiamo portare anche negli
stili di vita di noi cittadini. Abbiamo bisogno di diversificazione della dieta
alimentare, da realizzare dando priorità a quell’educazione alimentare che ‒
sottolinea Bocci ‒ andrebbe trattata come un diritto di cittadinanza. Perché
non possiamo delegare tutto alla politica e al Ministero della Transizione
Economica: «L’educazione alimentare è importante perché soltanto se si capisce
la fatica che c’è dietro la produzione di un bene, sono disposto a pagare il
giusto prezzo. Adesso nessuno lavora più i campi. Se tutto si riduce al prezzo,
allora le dinamiche sociali legate al cibo vengono dimenticate».
Concludiamo l’intervista con l’invito di Bocci a
leggere, informarsi, essere curiosi. Perché non è con la delega ma diventando
cittadini protagonisti che possiamo costruire un mondo diverso.
L’intervista è pubblicata anche
su z3xmi.it
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