Un articolo appena uscito su The Cut mette in relazione sport, percezione del dolore e aspettative, a partire da una ricerca danese intitolata “Il potere delle parole”. I risultati sono molto, molto interessanti.
Ecco, in sintesi, di che si tratta: tutti sappiamo che dopo aver fatto
sport ci si sente meglio. È una conseguenza fisiologica, e dimostrata. Facendo attività fisica, infatti, attiviamo una
serie di modificazioni chimiche e ormonali, riduciamo la sensibilità allo
stress e alla depressione, miglioriamo il tono dell’umore, la memoria, la
concentrazione. E possiamo mitigare la percezione del dolore.
Eppure.
Eppure, questi benefici reali e oggettivi (lo ripeto: ampiamente
dimostrati, e incontrovertibili) possono ridursi, fino ad azzerarsi, se sono
contraddetti dalle aspettative del soggetto che fa sport.
Lo studio ha coinvolto 83 volontari, di cui è stata prima misurata la
tolleranza al dolore. Poi, i volontari sono stati divisi in tre gruppi. Al primo,
i ricercatori hanno correttamente ricordato che fare esercizio fisico avrebbe
significativamente aumentato la soglia (cioè, il livello di tolleranza) del
dolore. Al secondo gruppo non hanno detto nulla di specifico. Al terzo, hanno
detto (mentendo, ovviamente) che l’esercizio fisico avrebbe diminuito la
capacità di sopportare il dolore.
In seguito, ciascun soggetto ha fatto una breve e intensa sessione di squat isometrico.
Infine, il test sul dolore è stato ripetuto. E le percezioni dei diversi
gruppi sono risultate allineate – questo è il dato clamoroso – non alla realtà
fisiologica, ma alle aspettative generate dalle dichiarazioni dei ricercatori.
Nel dettaglio: il gruppo che si aspettava effetti benefici ha rilevato un
incremento di tolleranza al dolore del 22 per cento, comunque lieve rispetto
all’incremento registrato nel gruppo di controllo, che non aveva ricevuto
informazioni specifiche. Invece, le aspettative negative hanno non solo
cancellato del tutto i benefici dell’esercizio, ma hanno addirittura diminuito
(del 4 per cento in media) la soglia del dolore rispetto alla misurazione
precedente.
Effetti collaterali
Tutto ciò attesta che “non solo la mente può essere più potente del corpo”,
commenta The Cut, ma che “i cattivi pensieri possono avere effetti” (non solo
mentali, ma fisici!) “superiori a quelli buoni”.
Parlando di interazioni tra corpo e mente, non posso non fare almeno un
cenno all’effetto nocebo, simmetrico e contrario all’effetto placebo,
e peraltro ben noto nella pratica clinica. Una citatissima ricerca afferma (traduco testualmente) che
“la divulgazione di informazioni sui potenziali effetti collaterali” (con il
conseguente insorgere di aspettative negative) “può essa stessa contribuire a
produrre effetti avversi… è un fenomeno neurobiologico, che può manifestarsi
con cambiamenti corporei rilevabili”.
Ma che cos’è, in concreto, una “aspettativa”?
Noi chiamiamo “aspettativa” la convinzione forte (ehi! Forte non significa
fondata) che qualcosa di specifico succederà. In questo sta, forse, la maggiore
differenza tra “aspettativa” e “speranza”, anche se entrambe riguardano eventi
che ancora non si sono verificati.
La speranza ha a che fare con la fiducia e con il desiderio. È un
sentimento ottimista ed energico. E affronta positivamente un futuro che,
tuttavia, è percepito come incerto.
L’aspettativa, invece, può essere sia ottimistica sia pessimistica, può
avere una componente ansiosa, e dà per scontato il verificarsi di ciò che,
appunto, ci si aspetta.
Proprio in questo “dare per scontato” stanno le diverse insidie del nutrire
aspettative.
Da una parte, nella misura in cui ci si aspetta il verificarsi di un dato
risultato o evento, è facile comportarsi da subito come se tutto fosse già
accaduto. È la profezia che si
autoavvera, un fenomeno teorizzato dal sociologo americano Robert K. Merton.
L’esempio classico è questo: Andrea si convince che il suo matrimonio fallirà,
quindi si comporta come se fosse già fallito, quindi lo fa effettivamente
fallire.
Il medesimo meccanismo funziona (anche questo è notevole) nel meno
frequente caso delle aspettative positive. Per esempio, lo psicologo
sperimentale Richard Wiseman ha dimostrato che le persone che si ritengono fortunate sono
di norma più aperte e più capaci di intercettare opportunità favorevoli e,
appunto “fortunate”.
Oppure: ai docenti di una scuola viene detto che alcuni alunni (in realtà
scelti a caso) hanno grandi potenzialità. Dunque, i docenti cominciano a seguirli
con un’attenzione speciale. Ottenendo, a fine anno, proprio i risultati attesi.
Anche in questi casi, la percezione orienta il comportamento, e i positivi
risultati del comportamento rafforzano ulteriormente la percezione.
Eppure, perfino nel nutrire aspettative (eccessivamente) positive c’è una
trappola. Si chiama “frustrazione”.
Eccesso di aspettative
“Noi valutiamo costantemente i nostri risultati nella vita in base alle nostre
aspettative e alle aspettative degli altri”, scrive Sydney Finkelsein, docente
di management al Dartmouth College. “Le nostre aspettative orientano il modo in
cui percepiamo un film o un libro, il modo in cui valutiamo le prestazioni di
un prodotto, o la qualità del nostro posto di lavoro”.
Un eccesso di aspettative espone, appunto, alla frustrazione. Per esempio,
un’altra ricerca assai citata sui libri candidati o vincitori di premi
letterari ci dice che questi, dopo la candidatura, attraggono sì più lettori,
ma che i libri effettivamente premiati ricevono dai medesimi lettori
(disorientati dall’eccesso di aspettative) valutazioni che “declinano
precipitosamente”. Il titolo della ricerca è The
paradox of publicity: how awards can negatively affect the evaluation of
quality.
In effetti, ho la sensazione che il paradosso dell’eccesso di aspettative
si possa verificare in molti altri ambiti, leadership politica compresa.
“Le tue aspettative, più di ogni altra cosa, determinano la tua vita”,
scrive Forbes in un articolo intitolato “Otto aspettative irrealistiche che ti rovineranno”. Tra queste: l’idea
che la vita “deve essere giusta” e che “le opportunità arriveranno da sole” (e
che quindi basti aspettare perché tutto si sistemerà spontaneamente). L’idea
che “tutti debbano piacermi”, che “tutti debbano essere d’accordo con me” e che
“tutti sappiano quello che voglio dire” (risultato: più spesso del dovuto ci si
sente feriti, offesi o incompresi, ma non si fa nulla per rimediare o per
ovviare).
E poi: l’idea di poter cambiare anche le persone che non vogliono farlo
(questo non succederà, soprattutto se i contesti restano gli stessi). L’idea
che “sto per fallire” (e qui siamo in piena profezia che si autoavvera). E
l’idea che “gli eventi mi renderanno felice” (difficile che un evento esterno,
anche rilevante, modifichi in maniera permanente un’insoddisfazione interiore).
In sintesi: sarebbe meglio affidarsi all’energia positiva e fiduciosa della
speranza, coltivare il bene della gratitudine, essere consapevoli dell’impatto delle aspettative ed
evitare di coltivarne troppe e irrealistiche, o negative.
Tutto ciò, senza nutrire l’aspettativa, a sua volta irrealistica, che basti
leggere un articolo come questo per cambiare tutto quanto in un battibaleno
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