Come da manuale, la recessione che
accompagna la crisi pandemica – la peggiore, secondo l’OCSE, dal dopoguerra –
sta imprimendo un nuovo impulso all’aggressione del profitto contro i
territori.
L’illusione che la pandemia potesse portare ad un ripensamento sull’assurdità
di questo modello di sviluppo si è dissolta molto in fretta, a fronte della
capacità del capitale (infinitamente maggiore della nostra) di trasformare le
crisi in opportunità.
Poco importa se per garantire il rilancio
dell’accumulazione del capitale verranno riprodotte esattamente le condizioni
per lo sviluppo delle pandemie del futuro.
Condizioni la cui origine viene riconosciuta, peraltro, anche ufficialmente:
«Il cambiamento dell’uso del suolo è qui definito come conversione di
territori naturali in terreno agricolo, urbanizzato e in altri ecosistemi
dominati dall’uomo, compresi quelli dell’agricoltura intensiva e
dell’estrazione di risorse naturali, come legname, minerali e petrolio. Il
cambiamento dell’uso del suolo è un fattore trainante a livello globale delle
pandemie, e ha causato l’emergere di oltre il 30% delle nuove malattie
segnalate dal 1960. La distruzione dell’habitat e l’invasione di esseri umani e
bestiame in habitat biodiversi forniscono nuovi percorsi per la fuoriuscita di
agenti patogeni e l’aumento dei tassi di trasmissione».
La citazione è tratta dal documento che riunisce i
pareri di ventidue scienziati di livello mondiale, convocati alla fine del
luglio 2020 dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and
Ecosystem Services per far luce sull’origine delle pandemie. Il report
dell’IPBS, che è un’organizzazione istituita dall’Onu per migliorare la
comunicazione tra scienza e politica in materia di biodiversità, ha sicuramente
il pregio di affermare, con tutti i crismi dell’istituzionalità, la correlazione
che lega l’emergere delle pandemie all’espandersi dell’agroindustria, degli
allevamenti intensivi, delle miniere e dell’estrazione di combustibili fossili.
La sua impostazione fallisce però
nell’attribuzione delle responsabilità della catastrofe ecosistemica, nel
momento in cui classifica genericamente la distruzione dei territori
naturali come anthropogenic changes, definizione che ne
riversa l’imputabilità della colpa sull’intera umanità indistinta, scevra da
differenze di classe e di potere. Evita di indicare gli attori reali
della devastazione, e di analizzare nel merito il ruolo degli Stati, delle
istituzioni sovranazionali e delle loro responsabilità storiche nei processi
all’origine dell’attuale collasso.
Ironia della sorte, identifica proprio in tali istituzioni i principali
referenti per una possibile inversione di tendenza.
Vediamo dunque come le istituzioni
suddette, nelle quali dovremmo teoricamente confidare, affrontano nel concreto
il tema della distruzione territori naturali, a partire dall’Unione
Europea, luogo di sintesi dei desiderata degli attori finanziari e industriali
dei suoi singoli Stati e di definizione delle politiche conseguenti, di cui i
nostri governi (tutti) non sono che mera cinghia di trasmissione.
Nel dicembre 2019 la Commissione Europea
ha pubblicato il documento sul “Green New Deal Europeo”, vale a dire i
fondamenti della nuova strategia di crescita dell’Unione: una svolta verso una
economia verde e digitale finalizzata, nelle retoriche, a restituite all’UE un
ruolo di protagonista sullo scenario globale.
Una strategia che ha assunto nei mesi successivi il ruolo salvifico di strada
maestra per l’uscita dalla recessione pandemica, con la creazione di linee e
strumenti di finanziamento fino ad allora impensabili, quali il Recovery Fund e
il NextGenerationEU1.
Il Green New Deal si basa sulla bizzarra
teoria della “crescita verde” – caldeggiata anche dalla Banca Mondiale,
dall’Ocse e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – che ritiene
possibile conciliare la continuità della crescita economica con una riduzione
dell’impatto sul pianeta tale da scongiurare la catastrofe climatica.
Nella realtà, in Europa (come altrove) la “crescita green” sta innescando una
nuova spinta verso l’aumento dell’estrazione mineraria, della proliferazione di
gasdotti e di grandi opere infrastrutturali, dell’espansione
dell’agroindustria.
In funzione del Green New Deal, nel
settembre 2020 la Commissione Europea ha pubblicato la Comunicazione dal titolo “Resilienza
delle materie prime critiche: tracciare un percorso verso una maggiore
sicurezza e sostenibilità”.
Un documento che trabocca di termini rassicuranti, quali neutralità climatica,
biodiversità, trasformazione verde, economia circolare, arrivando alla
creazione di ossimori sublimi come quello di “ecosistemi industriali”.
Dietro tale abbondanza di vocaboli
resilienti e sostenibili, la Comunicazione traccia in sostanza le linee per il
rilancio dell’attività mineraria interna per l’estrazione delle “materie prime
critiche” indispensabili per la transizione energetica e digitale, oltre che
per svariati comparti produttivi, quali l’automotive, difesa/aerospaziale,
l’edilizia e l’agricoltura.
L’elenco dell’UE 2020 comprende 30 materie prime – Antimonio,
Afnio, Fosforo , Barite, Bauxite, Berillio, Bismuto, Borato, Carbone da coke,
Cobalto, Elementi pesanti delle terre rare, Elementi leggeri delle terre rare,
Indio, Fluorite, Fosforite, Gallio, Germanio, Gomma naturale, Grafite naturale,
Litio, Magnesio, Metalli del gruppo del platino, Niobio, Silicio metallico,
Scandio, Stronzio, Tantalio, Titanio, Tungsteno, Vanadio – alcune presenti nei
giacimenti europei, in particolare in Scandinavia, Penisola Iberica,
Francia, Austria, Slovacchia, Romania.
Giacimenti europei che comunque risultano
del tutto insufficienti per soddisfare la domanda interna, dati i volumi di
aumento della domanda a servizio del Green New Deal:
“per le batterie dei veicoli
elettrici e lo stoccaggio dell’energia, l’UE avrebbe bisogno, rispetto
all’attuale approvvigionamento della sua intera economia, di una quantità di
litio fino a 18 volte superiore e di una quantità di cobalto fino a 5 volte
superiore nel 2030 e di una quantità di litio 60 volte superiore e di una
quantità di cobalto 15 volte superiore nel 2050”.
All’estrazione interna si affiancherà dunque
la crescita esponenziale delle importazioni, da garantire attraverso le
classiche modalità neoliberiste, quali gli accordi di libero scambio e i
meccanismi di garanzia per sanzionare il mancato rispetto dei contratti da
parte dei paesi esportatori.
Meccanismi da far valere magari a seguito dell’esito di referendum popolari o
di sentenze delle magistrature dei paesi produttori contro lo svolgimento di
attività minerarie devastanti. In questo modo l’UE riconferma la sua attitudine
neocoloniale e l’esternalizzazione dei costi ambientali del suo sviluppo green.
Come risposta alla
Comunicazione della Commissione Europea, nel settembre scorso si sono levate le
voci di 234 fra organizzazioni europee della società civile e accademici, con
le seguenti rivendicazioni:
-rendere prioritaria la riduzione dell’uso
delle risorse
-rispettare il diritto delle comunità di dire NO ai progetti minerari
-assicurare il rispetto e il rafforzamento della normativa ambientale europea
-interrompere lo sfruttamento di paesi terzi, soprattutto del Sud Globale,
proteggendo realmente i diritti umani
I firmatari hanno anche stigmatizzato il
sostegno della Commissione Europea alla ricerca di materie prime critiche nei
mari profondi, che mette a rischio ecosistemi particolarmente vulnerabile,
chiedendo un’immediata moratoria.
Oltre ai “critical raw
materials” va ricordato che la green economy ha anche un immenso bisogno di
materiali tradizionali, quali il rame per l’espansione delle reti elettriche,
il ferro, cromo e nichel per l’acciaio delle pale eoliche, il cemento per i
plinti che le sostengono e per nuovi impianti idroelettrici2, oltre
a tutte le materie prime necessarie alla sostituzione dell’intero parco degli
autoveicoli, e tanto altro.
Estrazione e produzioni che, anche quando esternalizzate al di fuori dell’Ue,
avranno impatto sul pianeta, e che necessitano a loro volta di energia, il che
è inconciliabile con una riduzione delle emissioni climalteranti a breve
termine.
Nel dicembre 2020 il Consiglio Europeo ha approvato «l’obiettivo
vincolante di una riduzione interna netta di almeno il 55% delle emissioni di
gas serra entro il 2030», completamente inutile se sarà basata sulla
rilocalizzazione delle produzioni di carbonio all’esterno dei suoi
confini. Tanto più che non si tratta di un abbandono dei combustibili
fossili, visto che “l’obiettivo vincolante” è da raggiungere anche tramite
«tecnologie di transizione come il gas».
Viene avvallata in questo modo la prospettiva dell’utilizzo del gas come
sostituto del carbone, eludendo però un particolare: il metano, oltre ad essere
un combustibile fossile, è un gas serra molto più potente della CO2, e la sua
estrazione e trasporto comportano inevitabilmente emissioni fuggitive in
atmosfera tali da renderne l’utilizzo più climalterante del carbone stesso.
Il metano come “tecnologia di transizione”
rimanda anche alla questione delle infrastrutture critiche, e in particolare
ai 32 progetti di interconnessione del
gas considerati
“di interesse comune” dall’Unione Europea, che provvederà dunque ad innervare
il continente di gasdotti, con tutto il loro portato ambientale, sociale e
coloniale. Riguardo a quest’ultimo aspetto, fra le infrastrutture critiche di
interesse comune europeo troviamo l’EastMed che promette di
portare ad Otranto il gas dei giacimenti al largo di Israele e Gaza,
assieme all’ EuroAsian Interconnector, la “autostrada elettrica” che collegherà gli insediamenti
illegali di Israele nei territori palestinesi occupati con la rete elettrica
europea.
Gli investimenti nelle infrastrutture
critiche – interconnettori energetici, reti multimodali europee, reti
trans-europee di trasporto passeggeri e merci – sono espressamente citati nella
“Strategia annuale per la crescita sostenibile 2021”, come requisito
preferenziale per l’accesso ai fondi del NextGenerationEU.
Il che prefigura una nuova fase di finanziamento e di sviluppo dei corridoi
TEN-T, cioè le reti trans-europee di trasporto considerate rilevanti
a livello comunitario, con il loro corollario di grandi opere
autostradali e per l’alta velocità/capacità ferroviaria, la cui compatibilità
ambientale e climatica è ben conosciuta in Val di Susa.
Corridoi di cui è stata evidenziata recentemente anche la funzionalità dal
punto di vista del “miglioramento della mobilità militare”.
Infine, al di là della retorica dei
documenti fondativi del Green New Deal e dei loro richiami alla «biodiversità,
agroecologia, benessere animale», anche la Politica Agricola Comune (PAC)3 dell’Unione
incarna un evidente carattere estrattivo.
La riforma della PAC votata dal Parlamento Europeo alla fine di ottobre 2020
non contiene nessun tetto massimo alla densità di animali negli
allevamenti intensivi, nessun obbligo di protezione della biodiversità sui
terreni delle aziende agricole, ma in compenso abolisce il divieto di arare e
convertire i prati permanenti nei siti della rete Natura 2000, dove
gli agricoltori potranno ricevere sovvenzioni per trasformare zone protette in
campi agricoli.
La nuova PAC è stata definita a più voci
come una politica contraria ai dettami del
Green New Deal. In
realtà è del tutto coerente: la “transizione energetica” ha bisogno di suolo.
Ha bisogno di biomasse, e questo era stato già stato espresso chiaramente nel
2018 dalla Strategia Europea di Bioeconomia, che punta allo
sviluppo di «bioraffinerie sostenibili in tutta Europa», e di conseguenza ha
bisogno che tali biomasse vengano prodotte. Formalmente tramite i rifiuti o i
residui agricoli inutilizzati, ma nella realtà, come esperienza già insegna,
tramite coltivazioni ad hoc, standardizzate e gestite a livello
agroindustriale.
La prospettiva che si apre prefigura una maggior pressione sui territori
naturali, l’erosione degli spazi dedicati alla produzione di cibo, un’ulteriore
distruzione di biodiversità, la trasformazione delle vocazioni rurali in
funzione delle centrali a biomasse. Territori che saranno contesi anche dalle
estensioni fotovoltaiche e dai grandi parchi eolici, gestiti dalle
multinazionali dell’energia.
Tanti segnali di come in Europa, come altrove, proprio nel momento in cui
dovremmo porre freno alle pressioni sul pianeta per scongiurare il cambiamento
climatico e prevenire l’emergere di nuove pandemie, la gestione capitalistica
della transizione energetica spinga sull’acceleratore.
NOTE:
1 Non possiamo affrontare in questa
sede tutti i risvolti di questa operazione ma, sotto la retorica green,
l’obiettivo che traspare dalla cd “transizione digitale”è quello di determinare
un salto tecnologico funzionale ad imprimere una nuova spinta verso la
flessibilità del lavoro, la dematerializzazione della pubblica amministrazione,
la didattica digitale, lo sviluppo e applicazione di nuovi strumenti di
controllo sociale. Quanto alle modalità di finanziamento, la creazione di nuovo
debito “nel rispetto dei parametri della stabilità macroeconomica” prefigura
all’orizzonte il rilancio delle politiche del rigore.
2 Attualmente ci sono 21.000 impianti
idroelettrici nell’Ue, e altri 8.000 in progetto (generalmente di capacità
ridotta) di cui alcuni con finanziamento UE. Martin Hojsik, Hydropower
sector has to keep in line with the European Green Deal, Euractiv, 3
novembre 2020.
3 La politica agricola comune (PAC)
europea è una delle politiche comunitarie previste dal Trattato istitutivo
delle Comunità, gestita e finanziata con risorse del bilancio dell’UE. Info su:
https://ec.europa.eu/info/food-farming-fisheries/key-policies/common-agricultural-policy/cap-glance_it
Nessun commento:
Posta un commento