Ogni volta che la specie umana (ovvero i suoi rappresentanti eletti) si
trova ad affrontare problemi o minacce inedite (quasi sempre prodotte dalla sua
ingordigia) che ostacolano o mettono a rischio la crescita economica, inventa
nuovi concetti o parole che dovrebbero esorcizzarne gli esiti negativi.
Così è stato per lo “sviluppo sostenibile”, concetto che ognuno interpreta
a suo modo (già al suo esordio, nel 1987, si contavano ben 25 sue definizioni);
grimaldello semantico che si presta a più scopi (dalla pasta alle auto alle
grandi opere), ma la cui sola sua evocazione basterebbe ad allontanare gli
effetti di una crescita illimitata.
Ora la nuova parola magica è “resilienza”, termine pressoché sconosciuto ai
più prima che esso comparisse, a livello nazionale ed europeo, nell’ormai
famoso Pnrr, ovvero Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Che significa questa parola e da dove salta fuori? Essa assume
significati diversi in ognuna delle discipline dove compare: informatica,
metallurgia, ecologia, psicologia, eccetera.
In generale possiamo definirla come la capacità di un sistema di adattarsi
a un cambiamento (nella fattispecie al cambiamento indotto dalla pandemia).
Wikipedia definisce, la resilienza, in ecologia e biologia, come quella
capacità della materia vivente di autoripararsi a seguito di un danno, o quella
caratteristica di un sistema ecologico di ritornare al suo stato iniziale,
dopo che questi è stato sottoposto ad una perturbazione che lo ha allontanato
da quello stato (omeostasi).
Gli ecosistemi sono regolati da meccanismi di retroazione detti feedback:
quello positivo assicura la crescita di un ecosistema, il feedback negativo
neutralizza l’effetto della perturbazione impedendo, ad esempio, la crescita
sproporzionata di una data variabile (come nel caso del famoso modello di
Volterra: preda-predatore).
Una proprietà degli ecosistemi è quella di possedere più di un grado di
equilibrio, ovvero se perturbati possono oscillare intorno alla posizione di
equilibrio per un certo tempo, per poi ritornare in quella stessa posizione.
Come pure, purtroppo, possono allontanarsi dalla loro posizione di
equilibrio (se la perturbazione è molto forte) per poi posizionarsi su una
diversa posizione di equilibrio.
In questo secondo caso non è detto che le specie viventi, o almeno molte di
esse, sopravvivano (vedi l’esempio dei dinosauri che hanno abitato la terra per
ben 160 milioni di anni).
Nel nostro caso la “perturbazione” è costituita dalla pandemia e la
resilienza è la capacità di adattamento a questo evento straordinario e la sua
capacità di contrastarlo.
In termini più semplici, la resilienza è l’atto di risalire su
un’imbarcazione dopo che questa si è capovolta (secondo Trabucchi l’etimo di
resilienza deriva dal latino resalio).
Così definita, questa parola induce all’ottimismo, ovvero i governanti
tenderebbe a vedere il cambiamento (l’effetto della pandemia) come
una sfida da affrontare.
E infatti sono stati in poco tempo prodotti vaccini basati su un metodo
innovativo (rna-messaggero) che forse potrà essere utile in futuro ad
affrontare malattie che affliggono da sempre l’umanità.
Ma che succede, per esempio, nel caso dei cambiamenti climatici? L’ecosistema
planetario una volta perturbato si adatterà su nuove posizioni di equilibrio in
corrispondenza del quale non è detto che la specie umana possa sopravvivere.
Il concetto di resilienza appare piuttosto inutile. Perché seppure
quella umana è una specie flessibile e assai adattabile, non potrebbe resistere
a un innalzamento degli oceani o alla desertificazione di vaste aree del
pianeta dovute a un aumento della temperatura media (causata dall’eccesso di
CO2). L’ecosistema (la biosfera) perturbato non ritornerebbe nella sua
condizione originaria.
E se la specie umana possiede le ben note capacità di flessibilità ed
adattamento, i sistemi economici e sociali sono invece caratterizzati da
estrema rigidità e vulnerabilità. Si innescherebbe un feedback tale
da far crollare l’intero sistema economico sociale.
L’introduzione (da altre discipline) del concetto di resilienza in realtà
sta a significare che non si vuole intervenire sulle cause della
“perturbazione” (sia essa pandemica che climatica) quanto
piuttosto sugli effetti di tali cambiamenti (da noi stessi provocati),
ovvero all’interno dello stesso processo di ristrutturazione capitalistica.
E’ come quel caso disperato di un malato di diabete che continua a mangiare
gelati convinto che qualche nuovo farmaco annullerà gli effetti della sua
golosità mortale. Forse perché siamo in clima di Liberazione nazionale,
ma io preferisco il termine di Resistenza a quello di resilienza che ci vede
rassegnati a subire la catastrofe col solo scopo di minimizzarne i danni.
Articolo pubblicato anche su il Manifesto
https://comune-info.net/sulluso-strumentale-di-certe-parole/
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