Nei suoi American notebooks (Taccuini americani) del 1851, Nathaniel Hawthorne scrisse che “la felicità, in questo mondo, arriva incidentalmente. Se ne facciamo l’oggetto di una ricerca, ci conduce a una ricerca senza speranza, e non è mai raggiunta”. Si tratta fondamentalmente di una riformulazione del “paradosso della felicità” dei filosofi stoici: per ottenere la felicità, dobbiamo cercare di non raggiungerla.
Vari
studiosi hanno cercato di verificare quest’affermazione. Nel 2011, per
esempio, alcuni ricercatori hanno scritto sulla rivista Emotion che in
condizioni di basso stress, dare valore alla felicità era associato a toni
dell’umore più bassi, a meno benessere e a sintomi di depressione più evidenti.
La cosa
sembrerebbe confermare il paradosso della felicità: e cioè che pensarci la
rende più difficile da ottenere. Ma ci sono spiegazioni alternative. Per
esempio, le persone infelici potrebbero dire che “apprezzano la felicità” più
di chi già la possiede, proprio come le persone affamate danno al cibo più
importanza di quelle già sazie.
Gli sforzi necessari
Nello specifico, il fatto che vogliate essere più felici non significa che vi
stiate sforzando di esserlo. Basta pensare ai vostri amici che si lamentano del
loro lavoro ogni giorno ma non cercano mai di trovarne uno nuovo. Nessuno
dubita che desiderino essere più felici, ma per qualche motivo non fanno quanto
sarebbe necessario per migliorare la loro condizione. Non è una prova che non
possano diventare più felici, o che siano i loro desideri ad affossargli il
morale.
La verità è
che la felicità richiede sforzi, non solo un desiderio. Concentrarci sulla
nostra insoddisfazione e augurarci che le cose siano diverse nella vita è una
ricetta per l’infelicità, se non si prendono delle iniziative per intraprendere
un cammino migliore. Ma se facciamo uno sforzo per capire la felicità umana,
tracciamo un piano per applicare alla nostra vita quel che s’impara, lo
realizziamo e condividiamo quanto abbiamo appreso con gli altri, la felicità
quasi sicuramente arriverà di conseguenza.
Quando si
parla di felicità e infelicità, le persone spesso confondono il rimuginare con
la consapevolezza di sé. Per gli psicologi nel primo caso si tratta di
“ricorrenti pensieri su di sé”, senza ricorrere a nuove conoscenze. Molti studi
provano che questo può esacerbare i cattivi pensieri e peggiorare la depressione,
perché rafforza il nostro status quo emotivo negativo.
Al contrario
la consapevolezza di sé – prestare attenzione ai nostri stessi processi di
pensiero – porta a nuove conoscenze e scoperte. Un recente studio pubblicato negli Stati Uniti
dai Proceedings of the National Academy of Sciences ha concluso che
l’autocoscienza ci permette di riconoscere le distrazioni e i segnali emotivi e
di reindirizzare il nostro cervello in un modo produttivo. In sostanza,
studiare la nostra stessa mente, soppesando il modo di migliorare la nostra
felicità, prende le ansietà incipienti e le divagazioni mentali e le trasforma
in reali piani di miglioramento delle nostre vite.
Comprare un biglietto
Rimuginare significa essere bloccati, studiare i nostri processi mentali
significa cercare modi di sbloccarsi. Il trucco, naturalmente, è capire la
differenza. Per fare un esempio, immaginiamo che la nostra relazione si sia
appena chiusa. Se si ripensa alle circostanze dolorose, più e più volte, come
se si guardasse sempre lo stesso filmato per ore e giorni, si tratta di
rimuginio. Per rompere questo circolo e cominciare il processo di
introspezione, occorre accompagnare la memoria dolorosa con domande profonde.
Per esempio: “Si tratta di uno schema ricorrente della mia vita? E se sì,
perché?”. “Se potessi rivivere la cosa, cosa farei in maniera diversa?”. “Cosa
posso leggere per capire meglio quello che ho appena vissuto e usarlo in
maniera costruttiva?”.
L’autocoscienza
sposta i sentimenti d’infelicità dalle funzioni reattive del nostro cervello a
quelle esecutive che ci permettono di gestire i sentimenti attraverso un’azione
concreta. Il fatto stesso di agire è fondamentale. C’è una vecchia barzelletta
in cui un uomo chiede a Dio ogni giorno di fargli vincere la lotteria. Dopo
molti anni di preghiera, ottiene finalmente una risposta dal cielo: “Vienimi
incontro”, dice Dio, “compra almeno un biglietto”. Se vogliamo la felicità,
riflettere sul perché non l’abbiamo e cercare delle informazioni su come
raggiungerla è un buon inizio. Ma se non usiamo quelle informazioni, è come se
non comprassimo un biglietto.
È più facile
dirlo che farlo, mi rendo conto. Quando siamo felici, siamo invogliati ad
agire. L’infelicità spesso ci spinge a rimanere nel nostro bozzolo. Il modo di
combattere tutto questo è fare l’opposto di quello che vorremmo: quando siamo infelici, non
crogioliamoci e non guardiamo film tristi. Meglio fare esercizio, chiamare gli
amici nel momento del bisogno, e documentarci sulla felicità. Ci verrà voglia
di agire. Dopo aver riflettuto (non ruminato), imparato, agito, e ottenuto
l’agognata ricompensa, è tempo di assicurarsi che i benefici non siano
temporanei. Che non si torni, cioè, a uno stato di semplice speranza. La chiave
è condividere le nostre nuove conoscenze con altre persone.
È
stato dimostrato che
insegnare i problemi aritmetici alle altre persone migliora l’abilità delle
persone nel risolverli e, nella mia esperienza, lo stesso vale per lo studio
della felicità: condividere l’esperienza la fissa nel nostro cervello. Ai miei
studenti ho dato il compito fondamentale di parlare della scienza e dell’arte
della felicità in ogni festa a cui partecipano. Questo fa sì che abbiano, in
testa, delle idee abbastanza chiare da poterle spiegare ad altri (oltre a
renderle più popolari).
Inoltre,
quando condividiamo il sapere su come diventare più felici, convinciamo tanto
gli altri quanto noi stessi. È un fenomeno noto in psicologia che chiedere alle persone di sostenere un’idea può
essere un ottimo modo per convincerle a crederci a loro volta. Condividere i
segreti della felicità ci renderà più felici, perché farlo è un atto d’amore.
E, come abbiamo già imparato, l’amore è generativo: più si dà, più si ottiene.
Tremo al
pensiero di contraddire Hawthorne e gli stoici. Ma non è vero che cercare la
felicità debba portare a una “ricerca senza speranza” o che pensare alla
felicità renda quest’ultima più sfuggente. Come tutte le cose della vita per
cui valga la pena lottare, la ricerca della felicità richiede energia
intellettuale e un vero sforzo. Dobbiamo semplicemente metterci all’opera. La
buona notizia è che questo sforzo sarà gioioso, e i risultati straordinari.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul sito di The Atlantic.
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