sabato 15 maggio 2021

Non sognate la felicità, ma datevi da fare per raggiungerla - Arthur C. Brooks

 

Nei suoi American notebooks (Taccuini americani) del 1851, Nathaniel Hawthorne scrisse che “la felicità, in questo mondo, arriva incidentalmente. Se ne facciamo l’oggetto di una ricerca, ci conduce a una ricerca senza speranza, e non è mai raggiunta”. Si tratta fondamentalmente di una riformulazione del “paradosso della felicità” dei filosofi stoici: per ottenere la felicità, dobbiamo cercare di non raggiungerla.

Vari studiosi hanno cercato di verificare quest’affermazione. Nel 2011, per esempio, alcuni ricercatori hanno scritto sulla rivista Emotion che in condizioni di basso stress, dare valore alla felicità era associato a toni dell’umore più bassi, a meno benessere e a sintomi di depressione più evidenti.

La cosa sembrerebbe confermare il paradosso della felicità: e cioè che pensarci la rende più difficile da ottenere. Ma ci sono spiegazioni alternative. Per esempio, le persone infelici potrebbero dire che “apprezzano la felicità” più di chi già la possiede, proprio come le persone affamate danno al cibo più importanza di quelle già sazie.

Gli sforzi necessari
Nello specifico, il fatto che vogliate essere più felici non significa che vi stiate sforzando di esserlo. Basta pensare ai vostri amici che si lamentano del loro lavoro ogni giorno ma non cercano mai di trovarne uno nuovo. Nessuno dubita che desiderino essere più felici, ma per qualche motivo non fanno quanto sarebbe necessario per migliorare la loro condizione. Non è una prova che non possano diventare più felici, o che siano i loro desideri ad affossargli il morale.

La verità è che la felicità richiede sforzi, non solo un desiderio. Concentrarci sulla nostra insoddisfazione e augurarci che le cose siano diverse nella vita è una ricetta per l’infelicità, se non si prendono delle iniziative per intraprendere un cammino migliore. Ma se facciamo uno sforzo per capire la felicità umana, tracciamo un piano per applicare alla nostra vita quel che s’impara, lo realizziamo e condividiamo quanto abbiamo appreso con gli altri, la felicità quasi sicuramente arriverà di conseguenza.

Quando si parla di felicità e infelicità, le persone spesso confondono il rimuginare con la consapevolezza di sé. Per gli psicologi nel primo caso si tratta di “ricorrenti pensieri su di sé”, senza ricorrere a nuove conoscenze. Molti studi provano che questo può esacerbare i cattivi pensieri e peggiorare la depressione, perché rafforza il nostro status quo emotivo negativo.

Al contrario la consapevolezza di sé – prestare attenzione ai nostri stessi processi di pensiero – porta a nuove conoscenze e scoperte. Un recente studio pubblicato negli Stati Uniti dai Proceedings of the National Academy of Sciences ha concluso che l’autocoscienza ci permette di riconoscere le distrazioni e i segnali emotivi e di reindirizzare il nostro cervello in un modo produttivo. In sostanza, studiare la nostra stessa mente, soppesando il modo di migliorare la nostra felicità, prende le ansietà incipienti e le divagazioni mentali e le trasforma in reali piani di miglioramento delle nostre vite.

Comprare un biglietto
Rimuginare significa essere bloccati, studiare i nostri processi mentali significa cercare modi di sbloccarsi. Il trucco, naturalmente, è capire la differenza. Per fare un esempio, immaginiamo che la nostra relazione si sia appena chiusa. Se si ripensa alle circostanze dolorose, più e più volte, come se si guardasse sempre lo stesso filmato per ore e giorni, si tratta di rimuginio. Per rompere questo circolo e cominciare il processo di introspezione, occorre accompagnare la memoria dolorosa con domande profonde. Per esempio: “Si tratta di uno schema ricorrente della mia vita? E se sì, perché?”. “Se potessi rivivere la cosa, cosa farei in maniera diversa?”. “Cosa posso leggere per capire meglio quello che ho appena vissuto e usarlo in maniera costruttiva?”.

L’autocoscienza sposta i sentimenti d’infelicità dalle funzioni reattive del nostro cervello a quelle esecutive che ci permettono di gestire i sentimenti attraverso un’azione concreta. Il fatto stesso di agire è fondamentale. C’è una vecchia barzelletta in cui un uomo chiede a Dio ogni giorno di fargli vincere la lotteria. Dopo molti anni di preghiera, ottiene finalmente una risposta dal cielo: “Vienimi incontro”, dice Dio, “compra almeno un biglietto”. Se vogliamo la felicità, riflettere sul perché non l’abbiamo e cercare delle informazioni su come raggiungerla è un buon inizio. Ma se non usiamo quelle informazioni, è come se non comprassimo un biglietto.

È più facile dirlo che farlo, mi rendo conto. Quando siamo felici, siamo invogliati ad agire. L’infelicità spesso ci spinge a rimanere nel nostro bozzolo. Il modo di combattere tutto questo è fare l’opposto di quello che vorremmo: quando siamo infelici, non crogioliamoci e non guardiamo film tristi. Meglio fare esercizio, chiamare gli amici nel momento del bisogno, e documentarci sulla felicità. Ci verrà voglia di agire. Dopo aver riflettuto (non ruminato), imparato, agito, e ottenuto l’agognata ricompensa, è tempo di assicurarsi che i benefici non siano temporanei. Che non si torni, cioè, a uno stato di semplice speranza. La chiave è condividere le nostre nuove conoscenze con altre persone.

È stato dimostrato che insegnare i problemi aritmetici alle altre persone migliora l’abilità delle persone nel risolverli e, nella mia esperienza, lo stesso vale per lo studio della felicità: condividere l’esperienza la fissa nel nostro cervello. Ai miei studenti ho dato il compito fondamentale di parlare della scienza e dell’arte della felicità in ogni festa a cui partecipano. Questo fa sì che abbiano, in testa, delle idee abbastanza chiare da poterle spiegare ad altri (oltre a renderle più popolari).

Inoltre, quando condividiamo il sapere su come diventare più felici, convinciamo tanto gli altri quanto noi stessi. È un fenomeno noto in psicologia che chiedere alle persone di sostenere un’idea può essere un ottimo modo per convincerle a crederci a loro volta. Condividere i segreti della felicità ci renderà più felici, perché farlo è un atto d’amore. E, come abbiamo già imparato, l’amore è generativo: più si dà, più si ottiene.

Tremo al pensiero di contraddire Hawthorne e gli stoici. Ma non è vero che cercare la felicità debba portare a una “ricerca senza speranza” o che pensare alla felicità renda quest’ultima più sfuggente. Come tutte le cose della vita per cui valga la pena lottare, la ricerca della felicità richiede energia intellettuale e un vero sforzo. Dobbiamo semplicemente metterci all’opera. La buona notizia è che questo sforzo sarà gioioso, e i risultati straordinari.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul sito di The Atlantic.

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