Come bene argomentato da P.G. Ardeni e M. Gallegati l’annunciata rivoluzione verde europea e la sua versione italiana, la transizione ecologica, sembrano esaurirsi in un progetto di innovazione tecnologica orientato a ridurre i gas climalteranti, a limitare gli impatti dell’energia fossile, a rendere insomma il mondo un po’ meno sporco e a continuare tuttavia nella «crescita». Come se il problema fosse solo questo. C’è un treno che corre a velocità crescente e in traiettoria lineare, senza stazioni e senza destinazione finale, che sembra voler uscire dalla terra e continuare nello spazio delle galassie, e l’ambizione è di fargli produrre meno fumo e meno rumore, ma spingendolo a correre ancora di più. Si fa finta di non capire (o non si capisce realmente) che il problema è il treno, non la qualità dei suoi carburanti. La grande questione è il capitalismo nella fase storica presente e nella configurazione dei suoi poteri a livello mondiale.
Sino a poco meno di un secolo fa il capitalismo, nonostante le alterazioni
prodotte nel corso del 1800, era un sistema compatibile con le risorse
disponibili e con gli equilibri del pianeta.
A partire dagli anni 30 del ‘900, durante la Grande Depressione, alcuni
manager americani si accorgono di ciò che Marx aveva già colto a suo tempo:
l’industria capitalistica produce molte più merci di quante i salariati e il
mercato riescano ad assorbirne. Una contraddizione da cui si poteva uscire in
due modi: rendendo più rapidamente deperibili le merci, programmandone
l’obsolescenza, e mettendo in piedi una gigantesca macchina pubblicitaria, in
grado di inventare sempre nuovi desideri, così da trasformare gli individui in
consumatori ansiosi di comprare cose di cui non hanno alcun bisogno.
Questo mutamento storico avviato negli Usa è diventato il modello di tutti
i paesi capitalistici e oggi appare configurato in un sistema internazionale il
cui tracollo catastrofico è l’esito più probabile. Come ha scritto Luigi
Ferrajoli in uno splendido capitolo del suo La costruzione della
democrazia (Laterza,2021): è «inverosimile che 8 miliardi di persone,
196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo
vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile
possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie,
nucleari, economiche ed ecologiche».
Dunque il problema, gigantesco, è duplice: rendere circolare la corsa del
treno, vale a dire rendere riparabili e riciclabili le merci, i materiali ecc,
mutare la scala dei bisogni e soprattutto puntare a un nuovo ordine mondiale, a
un «costituzionalismo sovranazionale» come dice Ferrajoli, che insieme a
Raniero La Valle ha costituito il movimento Costituente Terra. Si
tratta di una strada obbligata per la salvezza del pianeta eppure non utopica.
Nel dopoguerra, lo ricorda sempre Ferrajoli, la nascita dell’Onu aveva per
qualche tempo orientato gli Stati verso una condotta cooperante ormai perduta.
Ma ci sono prove storiche poco note di come si può fare per intervenire con
potere politico, sulle produzioni, sui mercati, sui singoli Stati. Il 1988 non
evocherà nessun passaggio epocale nella mente dei lettori. Ebbene, in
quell’anno vengono avviati in Europa, all’interno della Politica Agraria
Comunitaria, i programmi di set-aside (messa da parte) per
limitare gli eccessi di produzione agricola e alimentare.
Ai contadini viene richiesto di smettere di coltivare in cambio di un
rimborso economico da parte della Comunità Europea. È un piccolo episodio
legislativo, ma una svolta di portata simbolica universale. Mai era accaduto
nella storia delle società umane che gli stati (i re, gli imperatori)
esortassero a non coltivare la terra, ricevendone addirittura un compenso. Per
millenni è accaduto il contrario. Questa politica di contenimento degli eccessi
di produzione è proseguita con gli allevamenti, le note Quote latte, continua
oggi anche con la viticultura. Nessun imprenditore europeo è oggi libero di
coltivare viti sul suo terreno se non possiede quote disponibili che lo
autorizzino. Non ha qui senso entrare nel merito di questi provvedimenti, ma voglio
sottolineare il loro carattere dirompente e carico di indicazioni per il futuro
prossimo. Per la prima volta nella storia un potere sovranazionale interviene
sulla libertà d’impresa dei diversi Stati, limita la produzione, regola il
mercato.
Dunque, se è stato possibile in Europa deve essere possibile anche a
livello globale: è solo questione di volontà politica. Ma questa volontà
politica bisogna costruirla subito, puntare a un ordine internazionale di
cooperazione non più rinviabile. Per questo restiamo sgomenti di fronte
all’ottuso atlantismo del nostro ceto politico e del giornalismo che gli dà
voce, incapace di vedere dove corre la storia del mondo.
Come si fa a seguire gli Usa che credono di essere ancora nel ‘900 e di
poter continuare la guerra fredda per conservare una centralità ormai perduta?
Come si può restare dentro un’alleanza che ha fatto esplodere guerre
dappertutto, sta facendo lievitare la produzione e la vendita di armi in ogni
angolo del mondo? Un macabro festival degli armamenti, in cui il nostro paese è
protagonista, di ordigni di morte, mentre nel mondo già muoiono milioni di
persone per un virus. E a quale fasulla mascherata si è ridotta la nostra
democrazia, se di fronte a scelte tanto gravi dei governi la voce dell’opinione
pubblica conta men che nulla.
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