La mitomicina è un antibiotico usato nel trattamento del cancro. Serve a prevenire la recidiva di alcuni tipi di tumore. Nell’estate 2019, per problemi produttivi dell’azienda che ne detiene il brevetto, diventa introvabile in tutta Italia. A Firenze e a Pisa, 25 pazienti sono costretti a rimandare il trattamento. A Palermo, Valentina Lanza, 31 anni, viene a sapere dal medico che c’è il rischio che debba saltare la cura per un po’. Lanza, madre di due figli, si dispera: combatte contro la malattia da appena qualche mese, il tumore è lo stesso per cui è morta sua madre.
“È un farmaco contro il cancro, non una Tachipirina”, ricorda. In quei
giorni, vissuti senza una data certa per ricominciare le cure, la donna chiama
i giornali locali, scrive sulla pagina Facebook del presidente della regione
Sicilia, chiede aiuto alle associazioni per i diritti del malato. “Non sapevo
cosa fare”, racconta oggi, “l’ospedale diceva solo che mi avrebbero chiamato
una volta che la medicina fosse tornata disponibile. Mi sono sentita abbandonata”.
Dopo una settimana l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), adottando la
procedura prevista in casi di questo tipo, ha autorizzato gli ospedali a
comprare il farmaco all’estero, a un prezzo maggiore. A distanza di un anno
Valentina Lanza sta bene, il tumore non è tornato. Il suo farmaco, invece,
manca ancora negli ospedali italiani: secondo la lista aggiornata
periodicamente dall’Aifa, la mitomicina è uno dei 2.637 farmaci – compresi
alcuni impiegati nei trattamenti contro il cancro o per le transizioni sessuali
– che al momento non sono disponibili.
Il mercato parallelo
“Il problema è cresciuto in maniera preoccupante negli ultimi quattro anni”,
spiega Cristina Puggioli, dirigente della farmacia ospedaliera del policlinico
Sant’Orsola di Bologna. “La maggior parte dei farmaci che spesso mancano sono
prodotti di fascia medio-bassa per cui ci sono alternative. In casi come la
mitomicina, invece, non è possibile avere un equivalente, e così dobbiamo
comprarlo all’estero a un prezzo più alto”.
Una delle ragioni per cui farmaci come quelli a base di mitomicina sono
spesso indisponibili in Italia è il cosiddetto mercato parallelo, un fenomeno
legale che sfrutta le differenze di prezzo tra i singoli stati europei. Le
modalità di acquisto cambiano da paese a paese: le autorità che si occupano di
comprare le medicine in Europa o nel resto del mondo trattano direttamente con
le case farmaceutiche.
In Italia, i prezzi sono negoziati dall’Aifa, un ente pubblico che opera
sotto la direzione del ministero della salute. La spesa farmaceutica è una voce
particolarmente rilevante, ed è principalmente a carico dello stato: secondo l’Aifa, quasi l’80 per cento delle medicine usate è a carico
del Servizio sanitario nazionale (Ssn), per un importo superiore ai 22 miliardi
di euro all’anno.
Il mercato parallelo è un fenomeno legale, incoraggiato dalle autorità
britanniche e scandinave
Ricerche di settore e uno studio del 2016 della Commissione europea certificano che tra i principali
paesi dell’Eurozona, l’Italia è quello dove le medicine costano meno.
“L’esistenza di prezzi diversi nei vari paesi può spingere le imprese che
distribuiscono i farmaci a cercare di lucrare sulle differenze”, spiega Luca Arnaudo,
docente dell’università Luiss e autore del libro La cura della concorrenza. Può accadere che
un’azienda compri un farmaco prodotto in Italia, dove costa meno, e lo rivenda
in paesi dove i sistemi sanitari sono disposti a pagare un prezzo più alto,
come nel Regno Unito, nell’Europa del nord o in Germania.
Inoltre, quando un farmaco entra in commercio, non sempre è distribuito
dall’azienda che lo produce. I produttori si affidano spesso a grossisti, che
possono venderlo a chi vogliono: per questo motivo il mercato parallelo – stimato in un giro d’affari di circa sei miliardi di euro all’anno nella sola
Unione europea – è un fenomeno del tutto legale, incoraggiato per esempio dalle
autorità britanniche o da quelle scandinave.
Tuttavia, non è l’unico motivo per cui in Italia ci sono categorie di
“farmaci fantasma”. Alcuni mancano periodicamente, come quelli per la cura del
Parkinson e, soprattutto, quelli per l’epilessia.
Gli equivalenti
L’epilessia è una malattia che riguarda più di mezzo milione di italiani. Una persona che ne
soffre prende uno o più farmaci tutti i giorni, più volte al giorno.
“Mio figlio ha undici anni e soffre di un disturbo epilettico durante il
sonno, impedisce al suo cervello di fissare ciò che impara”, racconta Nadia
Fresco, “ha bisogno di un farmaco specifico, perché è l’unico che dà buoni
risultati con pochi effetti collaterali”. Questo prodotto, utilizzato con
successo negli Stati Uniti e in Europa, in Italia non c’è da anni. “Ci hanno
sempre detto che da noi non lo distribuiscono per ragioni commerciali”,
continua. “Per assicurargli la cura, all’inizio dovevamo comprarlo alla
farmacia della Città del Vaticano. Per mesi è stato un incubo: c’era la paura
di non trovarlo, dovevamo stare attenti alle scorte, ordinarlo con largo anticipo.
Vivendo in Salento, eravamo costretti a ricorrere ad amici che lavorano a Roma,
o andare lì di persona”.
Fresco ha tempestato di richieste l’azienda sanitaria locale di Lecce. Dopo
sette mesi la situazione si è sbloccata. “Per avere questo tipo di medicine
serve una prescrizione particolare, l’edotto, rilasciata da un
neuropsichiatra. Ora ce lo rilascia ogni mese uno specialista di un paese
vicino a quello dove viviamo, lo portiamo alla farmacia del nostro paese e il
farmaco arriva lì. Lo ordinano all’estero, in Germania”.
In alcuni casi, quando alcuni farmaci non sono disponibili, si può
ricorrere a quelli equivalenti. Tuttavia, la mancanza delle proprie medicine
può destabilizzare. Ramona Allegri ha quarant’anni, vive in Sardegna e soffre
di epilessia da quando ne ha sedici. Durante il confinamento il Depakin, il
farmaco che prende abitualmente tutti i giorni per non avere crisi, è sparito
per due settimane. “La farmacista voleva farmi prendere il generico. Io però
non lo voglio”, racconta. Ha preferito non curarsi per due settimane, finché la
multinazionale che produce il Depakin le ha spedito le medicine con la
procedura d’urgenza prevista in questi casi. Poi, quando a distanza di un mese
il Depakin è sparito di nuovo, Allegri lo ha cercato in tutte le farmacie,
trovandolo in una a 35 chilometri da casa, dove da allora si rifornisce.
“L’impatto psicologico è la cosa più difficile da affrontare”, dice Marta
Costa , quarant’anni, di Chioggia, anche lei affetta da epilessia. Come altri
ha avuto problemi a trovare il farmaco che usa abitualmente, e ha dovuto
sostituirlo con un altro. “Già essere malati è difficile. Dover cambiare
farmaco, non per propria scelta, complica tutto”.
Secondo Oriano Mecarelli, neurologo al policlinico Umberto I di Roma e
presidente della Lega italiana contro l’epilessia (Lice), “la resistenza di
molti pazienti a cambiare farmaco, passando al generico, è frutto della paura
infondata di credere che il generico faccia parte di una sottocategoria”. Le
evidenze scientifiche dimostrano che l’efficacia è la stessa, dice Mecarelli.
“La quantità di principio attivo è uguale, ci sono dei controlli rigorosi. I
pazienti temono che, non prendendo il farmaco abituale, si vada ad alterare un
equilibrio faticosamente raggiunto”.
Non è però solo una questione di paure. Oltre ai racconti dei pazienti,
anche una ricerca condotta nel 2018 dall’associazione europea delle farmacie
ospedaliere (Eahp) certifica che nella maggior parte dei casi la mancanza di
farmaci provoca ritardi nelle cure, a volte anche la loro sospensione. E non
sempre, quando si usano altri prodotti, gli effetti sono soddisfacenti.
“L’ospedale di cui dirigo la farmacia ha seicento protocolli di trattamento”,
dice la dottoressa Puggioli, “la mancanza riguarda un numero tutto sommato
basso di farmaci, ma crea comunque problemi: le cure vanno garantite sempre, e nei
tempi giusti”.
I problemi produttivi
Le ragioni per cui un’azienda può smettere di produrre un farmaco o avere
ritardi nella consegna sono diverse. La produzione, per esempio, può terminare
perché non conviene più dal punto di vista economico. “Ogni anno le aziende
farmaceutiche valutano l’andamento dei loro prodotti”, spiega Roberto Caruso,
addetto al controllo qualità di un’azienda farmaceutica di Bologna. “Se un
farmaco non vende quanto ci si aspettava, si valuta la cessione della linea di
produzione ad altri, oppure la si interrompe. Può anche capitare che l’azienda
abbia difficoltà a reperire la materia prima, il principio attivo”, continua
Caruso, “o che ci siano problemi nel principio attivo stesso”.
A metà ottobre 2019, per esempio, l’Aifa ha ritirato dal mercato dei lotti
di medicinali di uso comune contenenti ranitidina, usati per la cura di
malattie intestinali. “In quel caso”, spiega Caruso, “il principio attivo che
arrivava dall’India conteneva un’impurità. Le aziende che lavorano sul principio
attivo spesso non si occupano del resto della produzione”.
Quello dei farmaci è un mercato particolare, con equilibri complessi da
mantenere. Dal 2014, dopo numerose acquisizioni, il 90 per cento del settore è
in mano a dieci multinazionali. I siti produttivi sono dislocati principalmente
in Europa – Francia, Italia e Svizzera su tutti – e Stati Uniti, anche se la
tendenza più recente è quella di esternalizzare in Asia, risparmiando sui costi
del lavoro. Sulle operazioni che potrebbero falsare la concorrenza e sulle
modalità di produzione dei farmaci vigilano le autorità antitrust e le agenzie
nazionali.
“Se un’azienda che ha l’autorizzazione a commerciare farmaci in Europa vuole spostare la produzione fuori deve rifare tutta la trafila burocratica per ottenere una nuova autorizzazione, e questo può ritardare le consegne”, spiega Caruso. “In Italia, qualsiasi modifica va notificata all’Aifa, che controlla ogni singolo passaggio. Ogni modifica, a seconda dell’intervento, può richiedere settimane, mesi o anni di attesa”.
Gli strumenti di controllo
Quali strumenti ha a disposizione lo stato per affrontare i problemi di
produzione e distribuzione di farmaci? Quando un prodotto manca in un ospedale,
o in una farmacia, l’Aifa può autorizzare in via eccezionale l’acquisto
all’estero.
A volte succede che “una piccola azienda vinca più appalti per le forniture
ospedaliere, magari in diverse regioni, ma poi non ce la fa ad assicurarle”,
spiega Cristina Puggioli del Sant’Orsola di Bologna. “In questo caso, se
l’ospedale spende di più perché bisogna comprare il farmaco da altri, l’azienda
che aveva vinto l’appalto rimborsa la differenza”. La situazione cambia – come
nel caso della mitomicina – se il farmaco manca a causa del mercato parallelo:
“In questo caso non ci sono meccanismi di compensazione”, spiega Puggioli, “e
compriamo al prezzo di mercato”.
Nel giugno 2019, il decreto legge numero 35 ha stabilito che se un’azienda vuole
interrompere la commercializzazione di un farmaco, deve dare all’Aifa un
preavviso di quattro mesi, non più solo due. Se la domanda di un farmaco
aumenta all’improvviso e le scorte sono limitate, il provvedimento prevede
un’ulteriore possibilità, quella di bloccare le esportazioni all’estero.
Tuttavia, secondo Roberto Caruso è difficile imporre una misura di questo tipo:
“Un’azienda decide le esportazioni con molto anticipo, e se realizza la maggior
parte del proprio fatturato all’estero è difficile tenere i farmaci in Italia”.
Lo scoppio della pandemia ha fatto riemergere la necessità di una strategia
condivisa a livello comunitario. Secondo un rapporto commissionato ad aprile 2020 dal parlamento europeo, l’improvviso
aumento della domanda di alcune medicine usate per i pazienti ricoverati in
terapia intensiva – dagli antibiotici ai rilassanti muscolari, agli
antidiuretici – ha reso ancora più evidenti le criticità in Europa: oltre al
mercato parallelo e ai problemi produttivi, è emersa una dipendenza piuttosto
rischiosa da Cina e India per l’approvvigionamento di farmaci generici e per la
lavorazione dei princìpi attivi.
Finora l’Unione europea si è mossa soprattutto per cercare di prevenire la
mancanza dei farmaci, facilitando lo scambio d’informazioni tra paesi e tra
questi e le aziende, prendendo atto delle distorsioni del mercato invece di
risolverle. Ma non basta. Bisognerebbe agire su due piani. Intanto, si
dovrebbero creare le condizioni per riportare molti siti produttivi in Europa,
così da essere più autonomi e reattivi. E poi bisognerebbe puntare di più
sul joint procurement, un sistema elaborato dalla Commissione
europea per comprare in maniera congiunta vaccini e farmaci essenziali.
L’Europa, insomma, dovrebbe abbandonare il nazionalismo anche nel campo
sanitario.
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