Just è un’azienda
statunitense che ha inventato la frittata senza uovo, ma che sa proprio di
frittata, cioè di uovo. Venduta in una bottiglietta di plastica con grafica
minimale, si presenta come una pastella da crêpe e se la versi in una padella
con un po’ d’olio prende proprio la consistenza e il sapore della frittata.
Assaggiarla è stata un’esperienza molto interessante. Verrebbe perfino da dire
che è buona, ma è chiaro che nel giudizio incide la consapevolezza che è una
replica vegana e quindi l’apprezzamento ha un carattere concessivo: buona benché fatta
senza uova.
Questa è la lista degli ingredienti: acqua, isolato di proteine di
fagiolo mungo verde, olio di canola estratto a freddo, cipolla disidratata
(<2%), gomma gellano, estratti di carota naturale (colorante), aromi
naturali, estratti naturali di curcuma (colorante), citrato di potassio, sale,
lecitina di soia, zucchero, sciroppo di tapioca, pirofosfato tetrasodico,
transglutaminasi, nisina (conservante).
Lo sviluppo del prodotto ha richiesto anni di sperimentazioni e squadre di
tecnologi e chimici esperti in camice bianco finanziati da alcuni fondi di
investimento con più di 200 milioni di dollari dal 2011 al 2016 (fonte: wikipedia).
Sono stati creati enormi impianti produttivi tecnologicamente avanzati ed
efficienti, capaci di estrarre le proteine dal fagiolo mungo e di combinarle
con gli altri ingredienti di quella formulazione complessa e realizzare le
economie di scala necessarie alla commercializzazione del prodotto a un prezzo
ragionevole.
“E pensare che una volta bastava il culo di una gallina!” diremo noi vecchi
imbolsiti e nostalgici nel 2050, suscitando il disgusto dei nipoti. Non
potranno credere che ai nostri tempi si mangiassero cose uscite dal culo di
alcunché o si bevessero le secrezioni mammarie di una capra o ci si cibasse del
cadavere smembrato di una mucca. Si saranno abituati a mangiare il cibo
prodotto da Just o da altre aziende simili, che avrà perso definitivamente il
carattere di surrogato o imitazione di qualcos’altro e avrà stabilito il nuovo
paradigma della nutrizione e del gusto. Si continuerà a dire latte, uova, carne, formaggio,
ma ci si riferirà ad alimenti diversi da quelli che intendiamo adesso, con
sapori costruiti a tavolino per dialogare direttamente col nostro sistema
limbico e offerti in formati e consistenze ormai emancipati dai prototipi del
ventesimo secolo. Galline, manzi e maiali saranno diventati animali da
compagnia o elementi del paesaggio agreste foraggiati dall’ente nazionale per
l’agriturismo, oppure saranno allevati e vezzeggiati come tori da monta
dai produttori di carne in vitro per prelevare
all’occorrenza dai loro lombi qualche cellula muscolare. In entrambi i casi
avranno vite lunghe e tutto sommato felici.
Nelle nostre società si è finalmente diffusa la consapevolezza che
l’odierna produzione di carne, uova e latte ha un impatto molto negativo
sull’ambiente a causa delle pratiche produttive dominanti in queste filiere:
allevamenti intensivi, smaltimento inadeguato delle enormi quantità di deiezioni
che questi concentrano in un’area ristretta, spropositato consumo di acqua,
cicli di crescita delle bestie innaturalmente accelerati, tendenziale
indifferenza al benessere animale e soprattutto enormi quantità di gas serra
rilasciati nell’atmosfera lungo tutta la filiera nonché direttamente dal
didietro – anche qui – di un miliardo di bovini in ogni parte del mondo, in
forma di emissioni enteriche di metano. Un numero crescente di
consumatori ha cominciato a credere che questi non siano dei mali necessari,
perché l’ingegno umano combinato con l’umano fiuto per il business sta
sviluppando alternative basate su processi industriali molto meno nocivi. Beyond Meat e Impossible Foods sono all’avanguardia nello
sviluppo di prodotti a base vegetale (plant-based) che replicano
fedelmente l’esperienza della carne. Perfect Day ha sviluppato un
processo di fermentazione per creare siero di latte e caseina da microorganismi
vegetali e sta cominciando a offrire un prodotto che si presta a tutti gli usi
gastronomici del latte. Memphis Meat e Future Meat, stanno cercando di rendere scalabili i
loro sistemi per creare carne vera da colture di cellule muscolari di manzi e
polli e commercializzarla a un prezzo accessibile: è una sfida molto ambiziosa,
ma probabilmente la vinceranno e a quel punto non ci sarà nessuna scusa per
persistere nell’arcaica crudeltà dei macelli. E poi c’è Just con le sue
frittate.
Una bottiglietta da 350 ml, equivalente a otto uova di medie dimensioni,
costa cinque dollari. Sono abbastanza sicuro che col crescere della domanda e
un ulteriore aumento di scala nella produzione, la pastella di Just sarà
venduta presto a un prezzo molto più basso. Il bello è che questo ribasso sarà
ottenuto senza compromettere la qualità del prodotto e senza ricorrere agli
abusi sugli animali e sull’ambiente che sono invece necessari per vendere le
uova di gallina a un euro e cinquanta la dozzina. Anche la competizione avrà un
impatto sui prezzi.
Per qualche anno Just godrà della sua posizione di vantaggio nel mercato,
protetta da un brevetto e dall’oggettiva difficoltà di sviluppare un
prodotto plant-based con lo stesso livello di qualità, ma
inevitabilmente, prima o poi, altre aziende entreranno nel mercato con idee
altrettanto interessanti: pastelle da frittata ancora più performanti e
spumose, ovoidi sodi a base
vegetale, magari colorati diversamente in relazione alle varietà di amminoacidi
essenziali e di vitamine presenti nella formulazione, un preparato specifico
per la pasticceria e un altro 100% bio per realizzare emulsioni come maionese e aioli
con grande facilità, senza impazzire. Nel 2050, per coprire il fabbisogno
mondiale, tre o quattro multinazionali si spartiranno il mercato delle uova vegetali
o meglio il mercato delle nuove categorie nate dall’obsolescenza delle uova di
gallina, perché la nozione di uovo, un tempo riconducibile a un oggetto ben
identificato e di origine univoca, si riferirà a un’ampia varietà di prodotti
industriali, ciascuno dedicato a una delle diverse funzioni che l’uovo oggi
assolve nelle nostre cucine e nelle nostre diete.
In uno scenario di questo tipo non ci sarà più posto per il piccolo
allevamento di galline ovaiole del mio amico Luigi: ottocento galline, in mille
metri quadri, seicentoquaranta ottime uova al giorno, vendute ai ristoratori
della zona e al mercato contadino del sabato, a cinquanta centesimi l’una – a
conti fatti, lo stesso prezzo di Just Egg. Sono andato a visitare l’azienda
agricola, in Valsamoggia (BO), dove le galline mangiano roba buona, hanno
spazio all’aperto per razzolare tutto il giorno – cosa che fanno davvero – e un
posto per la notte al riparo dalla volpe. Tutto sommato se la passano bene, nel
modo routinario delle galline ovaiole, che include anche il rischio quotidiano
che a qualcuna, se il caso proprio lo richiede, le si tiri il collo. Benché
adesso a molti di noi questo sembri un esempio virtuoso di produzione del cibo,
l’allevamento di Luigi non avrà le credenziali di sostenibilità che saranno
richieste nel 2050. I criteri che si saranno imposti si baseranno sul Life
Cycle Assessment (LCA) cioè sul calcolo rigoroso del consumo di suolo
e di acqua e sulla quantità di energia ed emissioni di CO2-eq richiesti per
ogni chilo di prodotto. Ci saranno dei limiti da rispettare, se si vorrà
garantire il cibo ai nove o dieci miliardi di persone che popoleranno il mondo,
e le uova di Luigi non potranno mai competere con le straordinarie
performance di Just Egg. – a meno che non si metta in
discussione il metodo con cui sono state certificate.
“Consumo di suolo?” mi dice Lino, un altro amico, allevatore di mucche da
latte, proprietario di una fattoria modello con quaranta capi vicino a Monzuno
sull’appennino bolognese e produttore di formaggi di qualità straordinaria.
“Quando ho acquistato il terreno, qui non c’erano uccelli. Era una campagna in
abbandono. Per molti anni ci hanno coltivato solo erba medica. Ora, con le mie
vacche al pascolo sui prati, ci sono più varietà di fiori, più vermi nella
terra, più insetti e sono tornati gli uccelli”. In più, aggiungo io, il posto è
bello e ben tenuto, c’è un discreto traffico di clienti affezionati e amici,
l’azienda funziona, crea benessere per tre o quattro famiglie e manda riflessi
di prosperità tutt’intorno, in un contesto che ha molto bisogno di qualche
bagliore di ottimismo per riprendersi da decenni di emigrazione e desolazione.
Il concetto di consumo di suolo non dovrebbe applicarsi a questo modello di
produzione. Nella visione di Lino, ispirata a un principio di equilibrio
ecosistemico locale, la sua fattoria non si limita a sfruttare le risorse
naturali del luogo ma è essa stessa una risorsa per il territorio. “Sono
tornati gli uccelli”, ripete. Questo è vero però solo finché l’azienda resta
della misura giusta. Lino potrebbe permettersi di raddoppiare il numero delle
vacche, perché i suoi formaggi sono molto richiesti e attualmente non riesce a
stare dietro alla domanda, ma sa che sarebbe una forzatura. Rinuncia alla
crescita perché essa è incompatibile con il prezioso equilibrio che sente di
avere stabilito con i luoghi e i viventi.
A differenza di Just, il modello di Lino, così come quello di Luigi, non
è scalabile (una stalla sempre più grande), ma solo replicabile (un’altra
piccola stalla con 40 vacche in un altro posto adatto, ad alcuni chilometri da
lì, un altro ecosistema locale in equilibrio, un altro nucleo di pionieri di un
modo possibile). Non è una differenza da poco: sono due visioni antitetiche del
mondo e dell’economia. Prima o poi bisognerà schierarsi oppure accettare le
conseguenze dello sviluppo sostenibile nella forma che ora sembra prevalere,
promossa dai grandi fondi di investimento e ispirato all’ideologia della
crescita.
Nel 2050 il bosco si sarà ripreso i prati di Lino e l’aia di Luigi. Vi
prospererà una fauna ricchissima di lupi, cervi, istrici, cinghiali, ghiri,
aquile e innumerevoli altre specie di uccelli. L’Appennino tosco-emiliano sarà
dichiarato parco nazionale e patrimonio dell’UNESCO. La produzione delle
proteine nobili sarà ormai un presidio esclusivo della grande industria, e
richiederà competenze altamente specialistiche, tecnologie evolute e processi
complessi. Avverrà dentro enormi stabilimenti costruiti nelle aree industriali
della Food Valley, tra Parma e Reggio Emilia e nell’hinterland di Milano e
Torino. Le materie prime vegetali saranno fornite da grandi aziende agricole
della Pianura Padana, dotate di serre idroponiche estensive produttive tutto
l’anno, e dal mercato internazionale delle commodities. Chi nel
2025 avrà investito nel fagiolo mungo si sarà arricchito. Nei finesettimana i
nostri nipoti andranno a fare delle lunghe escursioni nel Parco Nazionale
portandosi dietro dei panini senza glutine con dentro morbide fette ricche di
proteine e con un sapore equilibratissimo che a noi vecchi spaesati ricorderà
vagamente lo speck di una volta. Buonissime, ci toccherà ammetterlo, e per
giunta molto digeribili. Gli escursionisti seguiranno rigorosamente i percorsi
autorizzati dalle guardie forestali per interferire il meno possibile con
l’ambiente selvatico da preservare e se saranno fortunati assisteranno col
binocolo ai combattimenti dei cervi in amore. La nostra separazione dalla
natura sarà definitivamente compiuta.
Our family here [at Just] is full of computational
biologists from Stanford, and food engineers from Kraft and Campbell's, and
chefs from Michelin-star restaurants. They’re from Apple and General Electric.
They've come from some of the biggest and most innovative companies in the
world to do everything they possibly can, every single day, to increase the
probability that, before we die, a fair, honest, and just food
system is the food system in every community [dalla sezione Mission del
sito di Just].
Coccodè [dal pollaio di Luigi]
https://www.doppiozero.com/materiali/ovo-sapiens
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