Un nuovo e approfondito studio sulle conseguenze del cambiamento climatico
presenta scenari che si stanno già avverando, con futuri spostamenti di
centinaia di milioni di persone
Il giornale online ProPublica e il New York Times,
con il sostegno dell’organizzazione Pulitzer Center, hanno lavorato con il
geografo Bryan Jones a un ampio studio sulla cosiddetta “migrazione climatica”,
cioè sulle persone che saranno costrette a lasciare la propria casa e la
propria terra di origine per circostanze ambientali: non tanto quelle legate ai
singoli eventi disastrosi, come un uragano, ma ai processi lenti e costanti già
in atto come per esempio la desertificazione delle terre.
La ricerca – che riprende e amplia quella del 2018 fatta dalla Banca
Mondiale e intitolata “Groundswell – Preparing for
internal climate migration” – si concentra soprattutto sulle
conseguenze umane dei cambiamenti climatici: su come le persone si sposteranno
all’interno dei loro paesi e dal loro paese a un altro. A partire
dall’elaborazione di miliardi di dati, sono stati costruiti vari scenari basati
soprattutto sulle risposte politiche che i paesi più ricchi e meno colpiti dal
cambiamento climatico daranno ai cambiamenti climatici stessi e alle migrazioni
che ne conseguiranno.
Cosa accadrà
Negli ultimi seimila anni, dice un importante studio pubblicato lo scorso maggio, il
genere umano ha vissuto in zone della terra caratterizzate da un intervallo di
temperature medie molto ristretto che sta tra gli 11 e i 15 gradi: in
condizioni, dunque, che potevano permettere agricoltura, allevamento e
sopravvivenza. Nei prossimi 50 anni, dice la ricerca, il clima cambierà più di
quanto sia cambiato nei precedenti seimila anni: un terzo della popolazione si
ritroverà a vivere in ambienti con una temperatura media attorno ai 29 gradi,
quella che oggi si registra nello 0,8 per cento della superficie terrestre.
Entro il 2070, dunque, le zone estremamente calde come il Sahara e che ora
ricoprono meno dell’1 per cento della superficie terrestre potrebbero
estendersi a quasi un quinto del territorio del pianeta.
Sui potenziali, probabili e certi effetti del cambiamento climatico sulla
terra c’è un generalizzato consenso scientifico, e sono state fatte previsioni
numeriche anche molto precise. Con l’aumento della temperatura, ampie fasce di
territorio diventeranno più aride, e aumenteranno drasticamente le siccità
estreme. Le frequenze e le intensità delle piogge cambieranno, con alcune zone
che saranno più interessate di oggi (quelle monsoniche) e altre che lo saranno
meno (quelle alle medie latitudini). Secondo le previsioni tutto questo, unito
alla mutata composizione del suolo, causerà alluvioni devastanti.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, sta innalzando il livello delle acque
del pianeta, che aumenterà, secondo le stime, tra gli 8 e i 13 centimetri entro
il 2030, tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050, e tra i 35 e gli 82 entro il
2100, a seconda dei modelli matematici usati per le previsioni. Questo avrà
conseguenze potenzialmente enormi per le persone che vivono vicino ai delta dei
fiumi e in generale nelle zone costiere, soprattutto sulle isole più piccole.
L’innalzamento del livello dei mari poi comporta una sempre maggiore
salinizzazione del suolo, fenomeno che ha gravi conseguenze sull’agricoltura e
che è naturalmente contrastato dalle piogge. Con i cambiamenti nelle precipitazioni
e le siccità, però, questo ciclo è messo a rischio.
Fra le possibili conseguenze di tutto questo, i vari studi parlano di un cambiamento nella distribuzione geografica della popolazione, cioè migrazioni di massa, che si verificheranno comunque e nonostante le barriere psicologiche, sociali e politiche, poiché non esiste adattamento più naturale a un clima sfavorevole se non quello di migrare.
Di quante persone si parla?
Prevedere quanti saranno i migranti climatici è complicatissimo e secondo
alcuni impossibile. La migrazione è un fenomeno umano ed è influenzata da una
serie di fattori antropici che possono essere più difficili da prevedere di
quelli naturali, già di per sé spesso incerti. La quantità di persone che
lasceranno il proprio luogo di origine per circostanze ambientali dipenderà da
una lunga serie di fattori aggiuntivi, che vanno dalle specificità dei luoghi e
delle popolazioni alla facilità con cui sarà possibile spostarsi per questo
genere di fenomeni, dal punto di vista legale ad esempio, fino ad arrivare alla
risposta dei governi locali (ci torniamo).
Ci sono comunque studi che dicono che entro il 2050 i migranti climatici
potrebbero essere 200 milioni, un numero esorbitante: una persona su 45 tra
quelle che pensiamo vivranno in tutto il mondo, e più dei 192 milioni di
persone che oggi vivono lontano dal proprio luogo di nascita. La Banca
Mondiale, nel 2018, studiando gli effetti del cambiamento climatico in atto in
tre regioni (Africa subsahariana, Asia meridionale e America Latina) ha stimato
migrazioni interne (cioè all’interno dei propri confini, dalle aree rurali alle
città vicine) di 143 milioni di persone entro il 2050: 86 milioni di persone
in Africa, 40 milioni in Asia del Sud, 17
milioni in America Latina.
Il processo di migrazione è in realtà già in atto. Un’altra
ricerca pubblicata nel novembre del 2017 dalla ONG Oxfam aveva parlato di
22 milioni di persone all’anno che, tra il 2008 e il 2016, sono state costrette
in tutto il mondo ad abbandonare la propria casa a causa dei mutamenti
climatici. Nel sud-est asiatico, dove le piogge e la siccità dei monsoni hanno
drasticamente abbassato le rese dell’agricoltura, la Banca Mondiale ha parlato
di oltre otto milioni di persone che si sono spostate verso il Medio Oriente,
l’Europa e il Nord America.
Se lo spostamento lontano dai climi caldi raggiungesse le dimensioni che le attuali ricerche suggeriscono è probabile che si arriverà, scrive il New York Times, a una vera e propria «rimappatura delle popolazioni del mondo».
Conseguenze umane
Al di là dei numeri ci sono conseguenze molto complesse di cui tenere conto
quando si parla di clima e migrazione. Diversi studi considerano il cambiamento
climatico un elemento significativo nell’esasperazione sistemica che può
portare all’inizio di un conflitto. Il New York Times cita ad
esempio le perdite di raccolti e la conseguente disoccupazione come concausa
delle rivolte della primavera araba in Egitto e in Libia. Una siccità senza
precedenti, poi, ha contribuito tra il 2007 e il 2010 a spingere molti siriani
dalle campagne alle periferie delle città, periferie già gravate dalla crescita
della popolazione e dalla presenza di più di un milione di rifugiati arrivati
dall’Iraq dopo la seconda guerra del Golfo. Tutto questo ha aggravato le
tensioni, peggiorato la disoccupazione, aumentato la corruzione e la
disuguaglianza.
I vari modelli elaborati non possono dire molto sulla tensione culturale e
sociale che potrebbe derivare dall’afflusso di migranti climatici in alcuni
paesi, ma è comunque qualcosa da tenere in considerazione, sapendo che potrebbe
avere ripercussioni molto ampie.
Come avverrà tutto questo?
La migrazione umana, come si è detto, è difficile da prevedere, ma è possibile
individuare una tendenza: in tutto il mondo quando il cibo scarseggia le
persone si spostano verso le città che, di conseguenza, crescono molto
rapidamente. Il flusso migratorio interno provocherà dunque una sorta di shock:
svuoterà le aree rurali, incrementerà la pressione su quelle urbane che
diventeranno sovraffollate, povere di infrastrutture, con poca acqua o
elettricità. E in questi contesti, in una specie di circolo vizioso, le persone
saranno più vulnerabili alle inondazioni o ad altri disastri ambientali. Gli
impatti sistemici, dice il New York Times, saranno gravissimi:
aumenteranno la disoccupazione e la criminalità, si accentueranno le
disuguaglianze, provocando possibili e profonde crisi politiche.
Le regioni potenzialmente più colpite dai cambiamenti climatici saranno e
sono tra le più povere al mondo, nonostante nella stragrande maggioranza dei
casi siano tra quelle che contribuiscono meno alle emissioni pro capite di gas
serra, il principale contributo umano al cambiamento climatico. Tutto quel che
accadrà come conseguenza delle migrazione climatiche costituirà dunque un
fattore di pressione su un territorio e su un ambiente umano già vulnerabili.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha detto che il 96 per cento
della futura crescita urbana avverrà in alcune delle città più fragili del
mondo, che hanno già alti livelli di conflitto e governi che sono poco in grado
di affrontarli. In questo momento poco più della metà della popolazione del
pianeta vive nelle aree urbane, ma entro la metà del secolo, secondo la Banca
Mondiale, nelle città vivrà il 67 per cento della popolazione e alcune città
non riusciranno a sostenere l’afflusso.
Quando la situazione interna inizierà a diventare insostenibile, le persone
tenderanno ad attraversare i confini e a intraprendere viaggi verso altri
paesi, in quello che viene definito percorso di “migrazione graduale”. Lasciare
un villaggio per la città è abbastanza difficile, scrive il New York
Times, ma attraversare un confine e andare in un altro paese è un processo
completamente diverso, se si tiene conto, tra l’altro, che il diritto
internazionale non riconosce il diritto all’asilo per motivi ambientali. Per
questo la definizione di “rifugiati climatici” è, almeno per ora, inesatta.
Scelta politica
«La migrazione può offrire grandi opportunità» dice il New York Times,
non solo per i migranti ma anche per gli stati in cui i migranti si spostano.
Il declino demografico americano, ad esempio, suggerisce che un numero maggiore
di migranti avrebbe un ruolo anche nella produzione, ma sarebbe fondamentale
fin d’ora investire e prepararsi a quell’afflusso di persone. Tutto, insomma,
deve avere inizio «da una scelta»: i paesi del Nord del mondo possono scegliere
di consentire ai rifugiati climatici di attraversare i loro confini, oppure
possono chiudersi, «intrappolando centinaia di milioni di persone in luoghi
sempre più invivibili».
In tutto il mondo, la tendenza sembra essere la seconda: «Gli Stati Uniti e
l’Europa rischiano di murarsi e di murare gli altri». Lo scenario peggiore
sarebbe quello in cui gli Stati Uniti e il resto del mondo sviluppato si
rifiutano di accogliere i migranti senza riuscire ad aiutarli nelle loro terre.
Le persone morirebbero a causa delle elevate temperature, di fame, o nei
conflitti che nasceranno a causa dell’insicurezza alimentare e idrica.
Si potrebbe invece decidere per un impegno sistematico nel sostenere le
persone vulnerabili nei luoghi in cui vivono, finanziando lo sviluppo locale,
modernizzando l’agricoltura e le infrastrutture idriche. Il Programma
alimentare mondiale (World Food Programme, WFP), l’agenzia delle Nazioni Unite
che si occupa di assistenza alimentare, ha ad esempio contribuito a costruire serre
irrigate a El Salvador, riducendo drasticamente le perdite dei raccolti e
migliorando i redditi degli agricoltori.
Quindi la domanda di fondo è: cosa sono disposti a fare i vari governi al
riguardo? Diversi studi sui migranti climatici concordano nel dire che se le
società risponderanno in modo deciso contro i cambiamenti ambientali aumentando
la loro “resilienza”, la produzione alimentare sarà sostenibile, la povertà
ridotta e la migrazione internazionale rallentata, tutte cose che potrebbero
contribuire alla stabilità e alla pace. Se i leader del mondo non
intraprenderanno azioni efficaci contro i cambiamenti climatici, o
intraprenderanno scelte punitive contro i migranti, l’insicurezza alimentare
aumenterà, così come la povertà e probabilmente i conflitti.
Il Global Compact for Safe, Orderly
and Regular Migration, il documento approvato nel dicembre del
2018 dall’Assemblea dell’ONU con il voto contrario, tra gli altri, degli Stati
Uniti, chiede esplicitamente che i governi facciano dei piani per prevenire le
migrazioni climatiche e per aiutare le persone che saranno costrette a
spostarsi per questi motivi. Anche gli Accordi sul clima di Parigi del 2015
hanno chiesto esplicitamente che un comitato speciale istituito alla Conferenza
sul Clima di Varsavia del 2013 si occupi di preparare delle linee guida per
definire giuridicamente i migranti ambientali. Qualunque azione sarà fatta e
quando sarà fatta, «farà la differenza», conclude il New York Times.
«Ma la finestra temporale per agire si sta per chiudere».
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